Articolo di Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera il 1° maggio 2009
I lavoratori che oggi festeggiano il Primo Maggio stanno vivendo la crisi economica in modi molto diversi tra loro. Ci sono quelli soprattutto dipendenti pubblici stabili, ma non soltanto che dalla crisi traggono vantaggio: al riparo dalla tempesta, beneficiano della riduzione della rata del mutuo e di molti prezzi al consumo. Poi ci sono quelli che invece questa crisi la soffrono, eccome. Centinaia di migliaia di titolari di contratto a termine, lavoratori “a progetto”, “partite Iva” simulate, che hanno perso o stanno perdendo il posto senza un giorno di preavviso e senza una lira di indennità di disoccupazione. I dipendenti di aziendine cui è stato tolto l’appalto di servizi. I lavoratori in Cassa integrazione, che allo scadere della cinquantaduesima settimana perdono il sussidio. Stanno col fiato sospeso anche i lavoratori di aziende private per i quali fin qui il lavoro non è mancato, ma è pur sempre a rischio.
Per questi milioni di persone che nella crisi rischiano una piccola o grande catastrofe personale e familiare, il governo si ingegna a prolungare di un poco la Cassa integrazione, oppure ad ampliare il campo del trattamento di disoccupazione (ampliamenti piccoli piccoli, perché il nostro debito pubblico non consente di scialare), invitando gli imprenditori a stringere i denti e a rinviare il più possibile i licenziamenti. L’opposizione propone l’allungamento e l’estensione di quei trattamenti a tutti. L’uno e l’altra sperano comunque che, più o meno rafforzati per far fronte all’emergenza, questi ammortizzatori bastino per passare la nottata: l’idea bi-partisan è che, quando il vento tornerà a gonfiare le vele della nostra economia, tutti potranno riprendere il lavoro che hanno dovuto temporaneamente sospendere, come i cuochi e gli scudieri del castello della Bella Addormentata finalmente risvegliata dal bacio del principe.
Le cose, però, non andranno esattamente così. Il vento tornerà ‑ magari anche impetuosamente ‑ a gonfiare le vele soltanto di una parte delle nostre imprese. In alcuni punti del tessuto produttivo sta già incominciando ad accadere: per esempio in settori in cui siamo leader mondiali, come quello del mobile, quello delle macchine utensili, o quello delle nuove tecnologie ferroviarie, dove i cinesi stanno investendo un sacco di soldi e si appresta a farlo anche l’America di Obama. La crisi, però, avrà anche l’effetto di mutare i connotati della nostra economia: un’altra parte delle nostre imprese resterà a secco. Il problema della protezione dei lavoratori è come guidarli e assisterli nell’itinerario che può condurli a trovare la nuova occupazione là dove si sta spostando la domanda di lavoro.
Spendere in trattamenti di integrazione salariale o di disoccupazione è giusto e necessario, ma può persino avere qualche effetto controproducente, di intorpidimento della ricerca della nuova occupazione. Per uscire bene dalla crisi occorre soprattutto attivare ingenti processi di mobilità interaziendale, offrendo ai lavoratori non solo sostegno del reddito, ma soprattutto servizi di informazione, orientamento, formazione professionale di alta qualità, mirata specificamente agli sbocchi fin d’ora individuabili, dove necessario anche assistenza e incentivi alla mobilità geografica. Occorre, per questo, un ordinamento del lavoro in parte nuovo e un sistema di servizi nel mercato che consenta ai lavoratori di affrontare serenamente il processo di aggiustamento industriale, non vedendo in esso un rischio di catastrofe economica personale, ma al contrario un’occasione in cui si investe nel loro capitale umano, la premessa per una migliore valorizzazione del loro lavoro.
Protagonista di questa trasformazione deve essere la contrattazione fra imprese e sindacati. Il sistema di relazioni industriali deve accantonare per qualche tempo le polemiche di questi ultimi mesi e concentrare tutte le energie e le risorse per dotarsi degli strumenti necessari nel mercato del lavoro. Come è accaduto a Bergamo, dove nei giorni scorsi Cgil, Cisl, Uil e associazioni imprenditoriali hanno firmato un accordo locale che può essere per molti aspetti considerato un modello. Iniziative analoghe stanno maturando anche in altre zone del Centro-Nord. Questi accordi territoriali chiedono spazio e – dove possibile ‑ sostegno pubblico per sperimentare tecniche e modelli di protezione del lavoro diversi rispetto al passato. Una cultura industriale adatta ai tempi. Qualche cosa di molto diverso dalle politiche del lavoro puramente passive che abbiamo conosciuto finora.
I lavoratori che oggi festeggiano il Primo Maggio stanno vivendo la crisi economica in modi molto diversi tra loro. Ci sono quelli soprattutto dipendenti pubblici stabili, ma non soltanto che dalla crisi traggono vantaggio: al riparo dalla tempesta, beneficiano della riduzione della rata del mutuo e di molti prezzi al consumo. Poi ci sono quelli che invece questa crisi la soffrono, eccome. Centinaia di migliaia di titolari di contratto a termine, lavoratori “a progetto”, “partite Iva” simulate, che hanno perso o stanno perdendo il posto senza un giorno di preavviso e senza una lira di indennità di disoccupazione. I dipendenti di aziendine cui è stato tolto l’appalto di servizi. I lavoratori in Cassa integrazione, che allo scadere della cinquantaduesima settimana perdono il sussidio. Stanno col fiato sospeso anche i lavoratori di aziende private per i quali fin qui il lavoro non è mancato, ma è pur sempre a rischio.
Per questi milioni di persone che nella crisi rischiano una piccola o grande catastrofe personale e familiare, il governo si ingegna a prolungare di un poco la Cassa integrazione, oppure ad ampliare il campo del trattamento di disoccupazione (ampliamenti piccoli piccoli, perché il nostro debito pubblico non consente di scialare), invitando gli imprenditori a stringere i denti e a rinviare il più possibile i licenziamenti. L’opposizione propone l’allungamento e l’estensione di quei trattamenti a tutti. L’uno e l’altra sperano comunque che, più o meno rafforzati per far fronte all’emergenza, questi ammortizzatori bastino per passare la nottata: l’idea bi-partisan è che, quando il vento tornerà a gonfiare le vele della nostra economia, tutti potranno riprendere il lavoro che hanno dovuto temporaneamente sospendere, come i cuochi e gli scudieri del castello della Bella Addormentata finalmente risvegliata dal bacio del principe.
Le cose, però, non andranno esattamente così. Il vento tornerà ‑ magari anche impetuosamente ‑ a gonfiare le vele soltanto di una parte delle nostre imprese. In alcuni punti del tessuto produttivo sta già incominciando ad accadere: per esempio in settori in cui siamo leader mondiali, come quello del mobile, quello delle macchine utensili, o quello delle nuove tecnologie ferroviarie, dove i cinesi stanno investendo un sacco di soldi e si appresta a farlo anche l’America di Obama. La crisi, però, avrà anche l’effetto di mutare i connotati della nostra economia: un’altra parte delle nostre imprese resterà a secco. Il problema della protezione dei lavoratori è come guidarli e assisterli nell’itinerario che può condurli a trovare la nuova occupazione là dove si sta spostando la domanda di lavoro.
Spendere in trattamenti di integrazione salariale o di disoccupazione è giusto e necessario, ma può persino avere qualche effetto controproducente, di intorpidimento della ricerca della nuova occupazione. Per uscire bene dalla crisi occorre soprattutto attivare ingenti processi di mobilità interaziendale, offrendo ai lavoratori non solo sostegno del reddito, ma soprattutto servizi di informazione, orientamento, formazione professionale di alta qualità, mirata specificamente agli sbocchi fin d’ora individuabili, dove necessario anche assistenza e incentivi alla mobilità geografica. Occorre, per questo, un ordinamento del lavoro in parte nuovo e un sistema di servizi nel mercato che consenta ai lavoratori di affrontare serenamente il processo di aggiustamento industriale, non vedendo in esso un rischio di catastrofe economica personale, ma al contrario un’occasione in cui si investe nel loro capitale umano, la premessa per una migliore valorizzazione del loro lavoro.
Protagonista di questa trasformazione deve essere la contrattazione fra imprese e sindacati. Il sistema di relazioni industriali deve accantonare per qualche tempo le polemiche di questi ultimi mesi e concentrare tutte le energie e le risorse per dotarsi degli strumenti necessari nel mercato del lavoro. Come è accaduto a Bergamo, dove nei giorni scorsi Cgil, Cisl, Uil e associazioni imprenditoriali hanno firmato un accordo locale che può essere per molti aspetti considerato un modello. Iniziative analoghe stanno maturando anche in altre zone del Centro-Nord. Questi accordi territoriali chiedono spazio e – dove possibile ‑ sostegno pubblico per sperimentare tecniche e modelli di protezione del lavoro diversi rispetto al passato. Una cultura industriale adatta ai tempi. Qualche cosa di molto diverso dalle politiche del lavoro puramente passive che abbiamo conosciuto finora.
1 commento:
Grazie della segnalazione. Come al solito gli interventi del prof. Ichino sono sempre interessanti
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