giovedì 29 luglio 2010

Intervista a Mario Tana sulla consulenza di direzione

a cura di Roberta Leone del 5 aprile 2005
Profilo. Mario Tana, laureato in ingegneria elettronica, ha iniziato la sua carriera alla Honeywell I.S.I.. Nel 1979 passa alla General Electric information service ed assume la responsabilità di direttore vendite e sei anni dopo della direzione marketing e sviluppo grandi progetti.
Nel 1985 passa alla Arthur Young come direttore marketing, si occupa del lancio dell’Information Engineering Workbench e diviene nel 1989 amministratore delegato di Arthur Young Management Consulting. Nel 1992 senior partner della Ernst & Young Consultants ed infine vice president dal 2000 in Cap Gemini Ernst & Young.

Quali sono state le motivazioni e gli obiettivi che l’hanno indotta a lasciare l’impresa per dedicarsi alla consulenza direzionale in Arthur Young e dopo in Arthur Young Management Consulting?
Mi ero reso conto della difficoltà di rispondere alle crescenti difficoltà delle aziende con soluzioni informatiche e di reti, ancorché di estrema avanguardia. Sulla base delle esperienze maturate desideravo verificare la possibilità di offrire soluzioni più globali per ripensare l'azienda e realizzare significativi cambiamenti sulla base di nuove tecnologie.
Nello stesso momento la Arthur Young era alla ricerca di una strada innovativa per la consulenza direzionale ed aveva adottato uno strumento d'avanguardia ma molto complesso, l'Information Engineering Workbench, dopo i successi ottenuti nella revisione del bilancio e nella consulenza fiscale.

Quando nel 1989 ha assunto la responsabilità di amministratore delegato di Arthur Young Management Consulting è stato avviato un programma di sviluppo della società. Può descriverci l’offerta di consulenza della società, scaturita da tale programma, le sue implicazioni con le tecnologie, i progetti ed i clienti dell’epoca?
Dal 1986 la Arthur Young aveva iniziato una collaborazione con James Martin sugli affascinanti temi dell'information engineering. L'I.E. era basata sul concetto di effettuare una rapida attività di pianificazione strategica di una azienda e da qui una pianificazione dei sistemi informativi per potere realizzare i sistemi con una generazione automatica del codice di supporto. Attorno a tali concetti lanciai un ampio programma di consulenza direzionale che permise a molte grandi aziende di iniziare con successo questo difficile ma innovativo percorso.

Lei ha svolto la sua esperienza nella consulenza direzionale in società di consulenza prevalentemente tecnologiche (Arthur Young Management Consulting, Ernst & Young Consultant, Cap Gemini Ernst & Young). Può spiegare i contenuti dell’offerta di consulenza di queste società ed il ruolo strategico assunto dalla tecnologia dell’informazione (ERP) nella consulenza di direzione?
Nel 1992 avvenne la grande fusione, a livello mondiale, che portò alla creazione della Ernst & Young Consultants, in Italia basata al 90% sulla consulenza direzionale di Arthur Young, circa 80 grandi professionisti. Fu un’occasione di ripensamento strategico della consulenza ed una verifica di quanto stava emergendo a livello mondiale. L'approccio dell'I.E. mostrava difficoltà attuative sui grandi volumi di generazione del codice, mentre ... gli E.R.P. facevano i primi passi come prodotti informatici. Perché non applicare un approccio da consulenza direzionale per definire un compatibile livello di cambiamento di un’azienda che volesse adottare un E.R.P. e quale E.R.P era più adatto a quella azienda?
Non più sistemi informativi creati ad hoc ma "pacchetti" modulari che incorporavano modelli di aziende, grandi possibilità di parametrizzazione e limitate personalizzazione da parte di consulenti esperti di azienda. Quali gli obiettivi di massimo livello di cambiamento e come farlo vivere positivamente agli uomini di azienda? Una seconda rivoluzione, non solo tecnologica, che necessitava di essere interpretata da una consulenza di qualità ma concreta.

Nel mio ruolo indirizzai la Ernst & Young Consultants in questo enorme cambiamento di approccio, caratterizzato dalla volontà di offrire soluzioni concrete e rapide da realizzare nonostante la crescente complessità delle aziende. In un paio di anni era possibile definire la pianificazione strategica, ristrutturare i processi ( ipotizzati come approccio da Davenport nel 1993, ma senza strumenti realizzativi), costruire un sistema informativo personalizzato, traghettando le grandi aziende nel cambiamento dal vecchio al nuovo modo di operare!
Fu un travolgente successo che portò la E & Y Consultants ad oltre 1000 consulenti nel 2000!
E venne il momento di una nuova fusione fra due big della consulenza, paritetici come numeri, ma con due anime: la direzionale e dei processi e la tecnologica. Nacque un gruppo da oltre 70.000 professionisti nel mondo: la Cap Gemini Ernst & Young, quotata in borsa a Parigi, con nuove sfide da definire.

Ho letto “Innovazione dei processi” di T. H. Davenport e la sua prefazione. Quale ruolo ha svolto l’informazione tecnologica nell’innovazione dei processi nelle imprese italiane tramite le società in cui ha operato? Oggi tale approccio manageriale è ancora innovativo e conveniente per le società di consulenza? E’ ancora richiesto dalle imprese italiane? Non si rischia di dedicarsi a tale pratica consulenziale, tralasciando la strategia?
Rapidamente a partire dal 1993 la maggior parte delle società di consulenza, ma anche società di informatica e costruttori di hardware definiti system integrator con modalità ed approcci molto diversi, fiutando il business, si sono gettati nel mercato degli E.R.P., troppo spesso con una preparazione non sufficiente. Per le aziende clienti non e' stato facile capire di chi fidarsi di fronte ad offerte formalmente analoghe ma con costi diversi e purtroppo non in grado di garantire un pieno successo dell'iniziativa. Scegliere un E.R.P. per sostituire il vecchio sistema informatico con uno nuovo, senza cogliere l'occasione per un radicale cambiamento od almeno una ragionevole innovazione dei processi, e' come scegliere una Ferrari, portandola come una utilitaria, su un vecchio percorso!
Tale confusione oggi, nella lotta eccessiva alla tariffa più bassa applicata, persiste.
Per una società di consulenza e' importante aiutare le aziende ad essere competitive in una sfida sempre più globale, individuando di volta in volta il migliore approccio! Di volta in volta può essere una nuova strategia, l'innovazione dei processi o il customer care. L' importante e' cambiare in fretta, assorbendo il trauma e riacquistare competitività!

L'introduzione dei sistemi E.R.P. è stata accompagnata da lamentele ed insoddisfazioni per l'effetto negativo sul cambiamento organizzativo rispetto agli alti costi sostenuti dalle imprese. Quali sono le cause di queste reazioni? Perché in alcuni casi non ha funzionato l'implementazione dei sistemi E.R.P.?
Una buona società di consulenza nel lavoro di preparazione al progetto e' in grado di definire costi e benefici del progetto in funzione degli obiettivi, fornendo al top management un serio supporto alle decisioni.
Adottare un E.R.P. per rinnovare i sistemi non giustifica da solo il costo, inoltre gli E.R.P. sono nati per le grandi aziende ed adattarli alle piccole per cogliere nuove fasce di mercato non è stato facile.
Ma, a mio avviso, e' soprattutto il cambiamento che spaventa ognuno di noi ed una azienda e' formata da uomini ed il cambiamento organizzativo scuote tante piccole certezze ed equilibri difficili.
Ci sono alcuni aspetti da non trascurare:
A) una corretta definizione degli obiettivi, con una solida pianificazione ed una ragionevole innovazione dei processi;
B) una corretta scelta degli E.R.P. in base alle caratteristiche dell'azienda;
C) un eccellente programma di supporto al cambiamento dei ruoli con una completa condivisione e partecipazione del top management.
Con la dovuta attenzione ai temi suddetti, ci possono essere difficoltà e/o ritardi da gestire in tempo reale ma non si arriva a cattivi progetti o al fallimento degli stessi. Se una buona società di consulenza ha saputo sensibilizzare il management sulle complessità del progetto, sui costi ma anche sui grandi benefici ottenibili ed il management gestisce le difficoltà lavorando a fianco delle società di consulenza quotidianamente, si sono sempre ottenuti eccellenti risultati.
Sicuramente i produttori di E.R.P. per acquisire quote di mercato hanno lanciato programmi di certificazione dei partner, a vari livelli, attraverso semplici partecipazioni a corsi e senza svolgere un ruolo di controllo, con propria responsabilità, sulla corretta realizzazione dei progetti.

Molte società (PWC, Ernst & Young, KPMG), definite system integrator, hanno ceduto la consulenza di direzione a società informatiche. Tali avvenimenti sono dovuti alla crisi del settore della consulenza direzionale o al crollo o contenimento della domanda di tecnologie informatiche?
Esiste prima di tutto un problema etico: una società di revisione non può controllare i " comportamenti" e fornire la cura ed i regolamenti, per quanto troppo spesso aggirati, lo dicono con chiarezza. D'altronde ci sono state di recente molte evidenze su scorrettezze compiute da società di revisione!
Inoltre dal 2001, dopo gli anni di vacche grasse con euro ed anno 2000, e' iniziata una profonda crisi di mercato, che e' stata amplificata dalla borsa, per le aziende hi-tech ed e' poi passata alle società di consulenza ed informatiche.
Il detto "grande e' bello" non sempre si può applicare con facilità ed una fusione di società (consulenza ed informatica hanno due anime ... forse complementari ma diverse!), in una condizione di turbolenza di mercato, presuppone una "visione" e "capacità manageriale". Nella mia carriera ho conosciuto molti consulenti bravissimi e tecnici eccellenti, ma ho trovato nelle aziende una maggiore capacità manageriale. Per mettere insieme due società in un momento di crisi non basta fare un nuovo organigramma, in un ragionevole compromesso con i precedenti ruoli!

Come vede oggi ed in prospettiva l’attività di consulenza di direzione in Italia?
Ritengo che dopo le dolorose "cure" ed i "ridimensionamenti", chi gestisce queste società debba individuare una nuova offerta di servizi, condivisa all'interno ed allineata alle future esigenze di mercato, come d'altronde si e' sempre fatto: la consulenza può offrire solo i servizi del domani per essere competitiva e rendere più competitivi i clienti. Deve essere individuato un nuovo percorso con una visione ampia ma concreta che aiuti le aziende a migliorare e competere e vincere le prossime sfide, che il mercato globale porrà a ritmi sempre più accelerati.

Leggi tutto...

Intervista a Gianmario Motta sulla consulenza di direzione

a cura di Roberta Leone del 25 marzo 2005
Profilo. Laureato in Filosofia all’Università Statale di Milano, è docente di Sistemi Informativi al Politecnico di Milano e all’Università di Lecce; è titolare, inoltre, presso il Politecnico, dei laboratori “Analisi dell’informazione e dei processi aziendali” e “Analisi dell’informazione e dei processi logistici e produttivi”. In passato ha tenuto corsi integrativi su strategia IT, sistemi informativi e organizzazione al Politecnico di Milano, al LIUC (Università di Castellanza) e ai Master Universitari di secondo livello dell’Università di Brescia e del MIP – Politecnico di Milano. Sue aree di ricerca sono l’ingegneria dei processi gestionali e i sistemi CRM progrediti.
Ha maturato la propria esperienza aziendale iniziando presso Fiat-ISVOR come assistente alla formazione sui Sistemi informativi, dove lavora con Richard Nolan e Dave Norton; in seguito è socio fondatore e dirigente di S&M, oggi EDS Italia; successivamente passa in Telos Management ed in Deloitte Consulting Italia, come partner dell’area Telecomunicazioni; è stato dirigente in aziende di servizi informatici. Ottenuta l’idoneità a professore associato, dal 2002 si dedica all’insegnamento ed alla ricerca.
Qui il resto del post Ha partecipato a grandi progetti ERP e CRM e a studi di strategia IT nelle maggiori aziende di telecomunicazioni, nella Pubblica Amministrazione, nell’industria. E’ stato coinvolto nel processo di privatizzazione delle telecomunicazioni in Italia e nella pianificazione della prima fase di e-governement. Ha maturato, inoltre, una consolidata e sistematica esperienza di analisi dei processi e delle strutture aziendali in grandi gruppi italiani.
Ha pubblicato, con Giampio Bracchi, Sistemi informativi e imprese (1985), Progetto di sistemi informativi (1993), Processi aziendali e sistemi informativi (1997), Sistemi informativi e aziende in rete (2001), Sistemi informativi per l’impresa digitale (2005). Ha scritto inoltre, con altri autori, Outsourcing e tecnologie della informazione (1993) e Chief Information Officer (2005).

Può raccontare la sua esperienza nell’impresa prima di dedicarsi alla consulenza direzionale?
Sono entrato in Fiat quasi casualmente, su segnalazione di un amico. Sono stato molto fortunato. Assegnato come assistente alla area di Sistemi Informativi dello ISVOR, una sorta di università di management che Umberto Agnelli aveva voluto fortemente, lavorai con (allora) giovani docenti quali Nino Lobianco (Telos), Richard Nolan e Dave Norton (Harvard Business School) e Giampio Bracchi (Politecnico di Milano). Fiat mi mandò a fare pratica in fabbrica e presso grandi produttori di computer. Dopo 6 anni di studio e stage desideravo entrare in linea, ma per motivi interni non fu possibile; così lasciai Fiat e dopo una parentesi come dirigente in una software house di Torino raggiunsi nel 1977 Vincenzo Monaci che aveva appena fondato Systems & Management (divenuta EDS Italia); dopo un anno eravamo oltre cento! S&M è stata una esperienza intensa, in cui dovevi imparare a fare tutto, da trovare un ufficio ad assumere il personale ed a tenere i conti. Monaci, venditore eccezionale e trascinatore straordinario, aveva posizionato in modo creativo S&M, proponendola come una azienda che abbinava un approccio strategico alla IT e una ingegneria di sistema, che oggi definiremmo “system integration”. Questo posizionamento distingueva S&M dalle software house di allora, che erano concentrare sui servizi di sviluppo del software.

Quali sono state le motivazioni che l’hanno indotta a lasciare l’impresa per dedicarsi alla consulenza direzionale prima in Telos Management e dopo in Deloitte Consulting Italia?
Negli anni S&M si era più spinta verso la S (i Sistemi) e aveva un poco tralasciato la M (Management). Ho cercato quindi un lavoro di consulenza più vicino alla mia formazione. Sono entrato in Telos occupandomi della valutazione delle strategie e della struttura IT e partecipando poi a progetti sempre più ampi di fusione e riorganizzazione di strutture aziendali. La consulenza allora era stimolante; dovevi capire il cliente, capire il problema e progettare una soluzione bilanciata e fattibile. Inoltre, dovevi sostenere il tutto con metodi di rigorosi e benchmark. Ogni consulenza includeva quindi studio e ricerca e ti metteva a contatto con il vero top management delle aziende: amministratori delegati, direttori di produzione, direttori commerciali. Telos era posizionata su strategia/struttura ed era focalizzata sui sistemi di controllo di gestione e sulla progettazione delle strutture organizzative; McKinsey (allora) era posizionata sulla strategia pura. Spesso ci si incrociava. Intorno al 1995 Telos, come altre aziende italiane di consulenza, fu comprata da Deloitte. Passai perciò quasi automaticamente da un contesto di consulenza nazionale, anche se avevamo qualche progetto estero e si era fatto qualche approccio con una azienda di consulenza spagnola, ad un contesto multinazionale.

Può descriverci la sua esperienza nella consulenza direzionale nell’area delle telecomunicazioni e dei servizi informatici negli anni 70’ e 80’ per capire le diversità rispetto all’epoca attuale?
Negli anni Settanta ed Ottanta i consulenti veri erano pochissimi. La consulenza IT consisteva ,infatti, in studi e ricerche che richiedevano un alto livello di committenza e una profonda e sistematica esperienza dei consulenti.
La vera consulenza IT inizia secondo me negli anni Settanta. Nel 1974-75 Nolan introduce lo Stage Audit, uno degli approcci di maggiore successo alla consulenza direzionale sulla IT. Lo Stage Audit, che si basa sulla allora famosa teoria degli stadi, permette di misurare efficienza ed efficacia della IT aziendale da diversi punti di vista - spesa, tecnologia, struttura e risorse, meccanismi di pianificazione e controllo, portafoglio delle applicazioni. Esso risponde a due domande fondamentali del management di allora (e di ora): spendiamo troppo o troppo poco per la IT? Che cosa dobbiamo fare per migliorare la efficacia e/o la efficienza della nostra IT? La diagnosi dello Stage Audit può essere integrata da successive consulenze sulla attuazione della strategia scelta dal management. Questo filone strategico, caratterizzato da piccoli numeri, è gradualmente diventato appannaggio delle società di consulenza strategica come McKinsey o di aziende focalizzate sulla strategia organizzativa come la BIP fondata l’anno scorso da Lobianco.
Un secondo filone di consulenza direzionale apparso in quegli anni è il BSP (Business Systems Planning), che consiste in uno studio per definire la strategia dei sistemi per una data azienda: il consulente, attraverso una serie di interviste cataloga i processi aziendali e definisce le informazioni che i processi utilizzano. Si tratta di una analisi dei requisiti informativi di alto livello, che genera un master plan, successivamente attuato da una serie di progetti. Questa forma di consulenza, complessa e di livello più ingegneristico, è continuata ed ampliata, alla fine degli anni Ottanta, dalla metodologia Information Engineering di James Martin. Su questo filone si sono posizionate le divisioni di consulenza delle grandi multinazionali di audit (KPMG, Andersen, Deloitte ed altre). Con la apparizione, negli anni Novanta, degli ERP e del BPR, questa consulenza si trasforma nella cosiddetta systems integration che continua ancora oggi, caratterizzata da grandi numeri e da competenze generiche e parcellizzate.
Questa evoluzione è evidente nelle telecomunicazioni. Negli anni Ottanta le TLC usavano le software house e la consulenza direzionale. Con le privatizzazioni degli anni Novanta, sono nati i grandi master plan seguiti da enormi progetti di systems integration che hanno introdotto sistemi CRM, sistemi di bollettazione in tempo reale per i clienti e sistemi ERP per il funzionamento interno. La progettazione e la realizzazione di questi sistemi è in larga parte affidate a società di systems integration. In sintesi, questa consulenza si è trasformata in una sorta di partnership fra multinazionale della consulenza ed operatore TLC.

Negli anni 90’ l’informatica e le tecnologie della comunicazione hanno trasformato la struttura organizzativa delle grandi multinazionali della consulenza direzionale (definite system integrator) e l’offerta di consulenza sempre più integrata con le tecnologie ICT. Può spiegare questo cambiamento, i contenuti dell’offerta di consulenza di queste società ed il ruolo strategico assunto dalla tecnologia dell’informazione nella consulenza di direzione?
I package integrati (ERP dal 1993 e CRM dal 1995) hanno globalizzato la gestione delle grandi MNC: dovunque nel mondo hai lo stesso sistema di gestione degli ordini, di pianificazione della produzione e di contabilità; inoltre il dato è unico in tutta la azienda. In altri termini i sistemi ERP sono condizione quasi sine qua non per la globalizzazione. Analogamente i CRM sono accorciano i tempi e abbattono i costi di contatto fra azienda e cliente, divenendo un “must competitivo”. L’affermazione di package integrati ha aumentato la richiesta di competenze generiche di analisi e di gestione dei progetti; inoltre i progetti mondiali attuati da Pirelli, BMW, GM ecc. hanno richiesto e richiedono società di consulenza globali e multinazionali. La globalità e scala della domanda hanno quindi determinato globalità e industrializzazione della offerta. L’oggetto della domanda - le competenze generiche - ha favorito le competenze consulenziali di “information engineering” invece delle competenze di sviluppo del software. Il consulente usa cioè un manuale che decrive la procedura di riferimento e personalizza conseguentemente il package senza dovere addentarsi nello sviluppo di sistemi software ad hoc. Il consulente deve quindi conoscere bene il package e seguire un metodo, ma l’esperienza e la innovazione non sono necessarie.

Alcune società (PWC, Ernst & Young, KPMG) hanno ceduto la consulenza di direzione a società informatiche. Tali eventi sono avvenuti in conseguenza alla crisi del settore della consulenza direzionale o al ridimensionamento della domanda di tecnologie dell’informazione?
La consulenza che Lei cita è detta molto impropriamente “consulenza di direzione” ma è systems integration od analisi dei requisiti informativi. Il mercato ERP e CRM delle grandi MNC è maturo; grande parte dei ricavi degli stessi produttori software non vengono da vendite nette ma da attività di post-vendita od aggiornamento. La frontiera della innovazione passa per tecnologie diverse da quelle ormai consolidate dei sistemi ERP o CRM. PWC ed altri hanno ceduto rami di azienda che non avevano prospettive di redditività e che avevano sviluppato competenze ormai lontane dalla consulenza direzionale vera o dai servizi di audit.

L’introduzione dei sistemi ERP è stata accompagnata da lamentele ed insoddisfazioni per l’effetto negativo sul cambiamento rispetto alti costi sostenuti dalle imprese? Quali sono i motivi di queste reazioni? Può descrivere i rapporti tra l’introduzione di sistemi ERP, il change management, l’innovazione dei processi e la riduzione dei costi dell’impresa?
La introduzione degli ERP e dei CRM è controversa. Le caratteristiche fondamentali degli ERP - la unicità delle informazione, la modularità e la prescrittività dei comportamenti - sono necessarie per la globalizzazione ma possono indurre reazioni forti degli addetti operativi. Estremizzando un poco, non è il sistema ERP che si adatta alla azienda, ma è la azienda che si adatta al sistema ERP. I package integrati incorporano infatti una logica gestionale. Per esempio, in un classico sistema ERP, il ricevimento dei materiali presuppone un ordine al fornitore: un materiale non entra in azienda se non è stato ordinato e non può essere ordinato se non è stato richiesto da un ente aziendale autorizzato. Il software quindi norma il comportamento degli addetti. Certamente, il cambiamento non sempre è gradito dagli addetti operativi. Inoltre lo ERP è spesso usato per razionalizzare attività di amministrazione, centralizzandole e sopprimendo uffici locali, secondo il modello organizzativo tipico della globalizzazione. Anche questo cambiamento non sempre è benvenuto per gli addetti. In generale, il successo o l’insuccesso degli ERP dipende da come è condotto il cambiamento (change management); i fallimenti sono numerosi. Non parlerei proprio di innovazione ma di standardizzazione dei processi su un modello predefinito, che è incorporato nel software del package integrato e/o nei manualoni delle società di systems integration. La riduzione dei costi è argomento ancora più controverso. Scrivendo un articolo proprio su questo argomento, ho paragonato varie ricerche. Risulta che gli ERP hanno dato al management vantaggi unanimemente riconosciuti, aumentandone la capacità di governo; analogamente i CRM hanno dato vantaggi ai clienti diminuendo tempi e costi della interazione con la impresa; la riduzione dei costi dei processi non amministrativi è invece limitata.

Come vede in prospettiva l’offerta di consulenza integrata con la tecnologia dell’informazione? Forse occorre un’offerta più personalizzata al cliente e meno standardizzata?
La consulenza dovrebbe tornare a scuola a ristudiare l’azienda e i suoi processi. La consulenza dovrebbe proporre una innovazione organizzativa e sostenibile nel tempo. I sistemi ERP hanno razionalizzato le attività a basso valore, hanno dato più potere al management ma non hanno innovato il modo di funzionare della azienda. I sistemi CRM hanno innovato il modo con cui il cliente si rapporta alla azienda, diminuendo costi di transazione del cliente, quindi con un beneficio economico vero. Tuttavia la innovazione CRM si ferma al contatto. Il retrobottega (o per dirla in modo gergale, il backoffice) non cambia e le prestazioni della azienda nel rispondere al cliente restano antiquate. Per esempio, nello e-government, puoi richiedere via web i permessi per costruire una casa, ma l’ iter di approvazione resta quello di prima.
La vera innovazione richiede di riprogettare i processi per ottenere prestazioni superiori verso tutti gli stakeholder, verso il management, per garantire la sostenibilità economica, verso gli addetti del processo, per assicurare la eseguibilità, verso il cliente, per ottenere la competitività. Occorre quindi una nuova ingegneria dei processi che sostituisca la ormai obsoleta ma non sostituita organizzazione del lavoro inventata da Taylor e Ford per la epoca delle tecnologie meccaniche. Incidentalmente questa è proprio la area della mia ricerca. Occorre inoltre avere moduli software che possono essere combinati a piacimento come in un Lego. Oggi invece le suite software sono quasi monolitiche ed incorporano logiche di processo antiquate. Una certa evoluzione in questa direzione è data dalle cosiddette tecnologie BPM (Business Process Management), ma siamo ancora a stadi molto iniziali.

Leggi tutto...

Paolo Biancardi, frammenti di consulenza di direzione


Intervista a Paolo Biancardi, ex senior vice president di Boston Consulting Group, a cura di Roberta Leone del 23 giugno 2004

Racconta la sua storia nella consulenza di direzione?
Ho lasciato The Boston Consulting Group 5 anni fa dopo 30 anni di attività e da quest’anno ho ripreso il ruolo non operativo di senior advisor.
Io sono entrato nella Gennaro Boston Associati nel 1969.
La riapertura dell’Ufficio BCG in Italia avvenne successivamente nel 1986.
La Pietro Gennaro Associati, che era stata acquisita dalla Boston Consulting Group, era diventata Gennaro Boston Associati. Essa si presentava come una azienda di consulenza che faceva un po’ di tutto, in linea con la maggior parte delle società di consulenza in Italia a quel tempo, quindi possedeva un approccio non specializzato in strategia, come invece era ed è tutt’ora la scelta della Boston Consulting Group, pertanto all’interno della GBA c’era gente che si occupava di risorse umane, marketing, manufacturing, finanze etc.. secondo un approccio funzionale.

La BGC com’è che si è differenziata?
L’intuizione di Bruce Henderson è che mancava in America e nel mondo una azienda di consulenza che facesse strategia. E’ proprio da questo scontro di strategie che poi sono nate le differenze anche caratteriali tra Bruce Henderson e Pietro Gennaro, però, al di là delle differenze caratteriali, c’era una sostanziale differenza di strategia. Gli americani dicevano: “in tutto il mondo noi dobbiamo fare la stessa cosa, abbiamo successo negli Stati Uniti, questa è la nostra scelta, in tutti i paesi dobbiamo fare così”. E’ ovvio invece che in Italia persone come Pietro Gennaro e altri, che hanno avuto successo con un modello di business diverso, non si ritrovano più e quindi alla fine si è arrivati ad una rottura.
Questa è la mia interpretazione, mentre alcuni sottolineano il contrasto caratteriale tra Bruce Henderson e Pietro Gennaro. Secondo me, avendo conosciuto entrambi molto bene, la differenza di strategia è molto più importante della differenza di carattere.

Perché è stato deciso di aprire in Italia?
Boston Consulting Group, soprattutto dopo la chiusura della sede di Milano, e già a partire dagli anni ’60, si era concentrata a crescere in America, in Inghilterra dal 1970 ed in Giappone dove c’era un ufficio dal 1966, in quanto Bruce Henderson ha sempre creduto che il Giappone fosse un Paese da cui si poteva imparare. Il Giappone rappresentava un modello di business, di crescita, di competitività etc., quindi per un certo numero di anni, esattamente fino al 1971, in Europa la presenza era limitata a Londra. In seguito nel 1972 è stato aperto il secondo ufficio a Parigi e tra l’altro io che ero in America sono andato insieme a due francesi ed un inglese a curare l’apertura del suddetta filiale. Io sono stato a Parigi dal 1973 al 1985. Poco prima della chiusura dell’ufficio italiano mi recai in America, e precisamente a Boston, dove rimasi due anni fino al 1973, anno in cui, come già detto, tornai in Europa stabilendomi a Parigi.
Nel 1975 abbiamo aperto la sede di Monaco di Baviera e la strategia a quel punto era quella di concentrarsi per un po’ di anni su 3 uffici che rappresentavano i paesi più importanti d’Europa (Inghilterra, Francia e Germania). La crescita europea si realizzò inizialmente su quei tre paesi.
Negli Stati Uniti c’era Boston, Chicago dal 1979, Los Angeles dal 1982, New York dal 1984 e San Francisco dal 1985, quindi una strategia già collaudata basata su pochi uffici.
Alla fine degli anni ’70 a Parigi sono diventato responsabile della filiale.
Nel 1983 sono diventato European Coordinator (coordinatore di tutta l’Europa). Ed è in quel momento che si è capito che si poteva partire per una seconda fase di crescita in Europa: oltre che avere una presenza nei tre principali Paesi, nel giro di 5-6 anni abbiamo previsto di aprire uffici in Paesi di dimensioni intermedie dal punto di vista del mercato per una azienda di consulenza strategica che si focalizza su clienti di dimensioni grandi (l’Italia ha la dimensione della Svezia, dell’Olanda e della Spagna). La decisione nei primi anni ’80 è stata di aprire una sede a Milano, dove l’inaugurazione avvenne il 1° gennaio 1986, a Madrid nel 1987, a Stoccolma nel 1988, a Zurigo nel 1989 un anno dopo l’altro.
Pertanto l’apertura dell’ufficio a Milano è avvenuta in un contesto di una strategia europea di maggior presenza nei Paesi di dimensioni intermedie dopo dieci anni di crescita nei principali mercati.
BCG aveva preso la sua strada, ovviamente BCG negli anni ’80 non era più il BCG dedito alla strategia pura come negli anni ’70, con la crescita di dimensioni, alla strategia si aggiunge la differenziazione, l’organizzazione ed i processi, sempre una gamma di servizi ristretta rispetto a Mckinsey che è sempre stato il concorrente di riferimento e lo è tuttora. Con l’entrata nei paesi europei cosiddetti intermedi, non c’è stato un radicale cambiamento di strategia rispetto a quello che era BCG in quel momento nel resto del mondo. Ovviamente l’Italia avendo società mediamente più piccole BCG doveva adattarsi a clienti mediamente più piccoli comunque sostanzialmente l’idea era che BCG doveva essere “lo stesso” in tutti i paesi del mondo (il brand, il recruiting, il training sono uguali).
BCG rispetto ad altre società di consulenza è stata da sempre caratterizzata da una forte omogeneità rispetto, per esempio, a McKinsey che aveva connotazioni nazionali più marcate.
Mckinsey era fortissimo in quel momento, Cuneo era ancora in McKinsey, era stradominante, noi eravamo minuscoli. Mckinsey era all’avanguardia nei servizi finanziari, come lo è tuttora, era relativamente meno forte nei beni di consumo e distribuzione e quindi un po’ per questa differenza di forza relativa e un po’ perché avevo più esperienza in questi settori, di fatto noi in Italia ci siamo dedicati a quest’ultimi, lavorando per importanti aziende italiane Barilla, GS e Autogrill) e anche per filiali di multinazionali (Unilever), clienti che poi abbiamo seguito per anni e anni. All’affermazione iniziale nel settore consumer retail, è seguita l’entrata nei servizi finanziari, dominati da Mckinsey e nel manufacturing, settore presidiato da Cuneo, prima in Mckinsey e dopo in Bain Cuneo e Associati. Il mercato della consulenza di strategia risultava composto da tre forti concorrenti. Noi noi eravamo leader solo nel segmento più piccolo del mercato.

Boutique sia nel senso delle dimensioni aziendali, sia in termini di specializzazione di attività svolte. BCG era piccola e lo è tuttora rispetto a McKinsey. Essa è nata negli anni '60 ed a quell’epoca McKinsey, Booz Allen Hamilton, AT Kearney e A. D. Little erano mastodontici. E anche perché BCG faceva solo strategia. Gli aspetti appena enunciati hanno portato alla definizione di Boutique della consulenza, che talvolta dai concorrenti era utilizzata in modo spregiativo. “Era una boutique rispetto ad un supermercato dove trovi tutto”. Quando entri in un mercato cerchi di differenziarti, BCG ha sempre avuto una crescita maggiore dei concorrenti ed adesso a livello mondiale, nella consulenza strategica, è secondo solo a McKinsey.
Tutte le società, a parte quelle con problemi come Booz Allen Hamilton, A. D. Little, hanno avuto una crescita esponenziale. Non sto parlando degli ultimi 3-4 anni, cioè il post 2000 caratterizzato da un mercato difficile. Io non ricordo un anno in cui BCG ha avuto una crescita inferiore al 15%, un anno dove facevamo il 15% era un anno debole, poi gli anni buoni erano quelli in cui si realizzava un trend positivo del 30%, pertanto la crescita in media sarà stata un 20% sul fatturato.
Quello che è successo nel 2001 è conseguente alla bolla del 2000: se uno toglie gli anni successivi al 2000 vede una crescita esponenziale continua. Per esempio i primi quattro mesi del 2004 sono stati i migliori in assoluto che BCG ha mai avuto nella sua storia, quindi si può dire che il 2001 è stato un anno di rallentamento, il 2002 è stato un anno di crisi, il 2003 è stato un anno di ripresa ed il 2004 per i primi quattro mesi è stato l’anno di record assoluto per la storia di BCG.

La crisi del 2001 può essere vista come risultato della crescita non normale, eccezionale, degli anni precedenti.
In Italia BCG ha sofferto più che nelle altre filiali perché ha perso un certo numero di partner e di manager nel 2001 e 2002 quindi in Italia c’è stata una crisi più specifica, quest’anno sta andando meglio: sono ritornati al BCG tre partner che erano andati via. Adesso BCG in Italia sta riprendendo a crescere molto bene, ha avuto una grossa crisi ma adesso direi che ne è uscita.
Nella consulenza di direzione strategica non si prevedono grandi cambiamenti, dopo la bubble del 2000 e la crisi successiva, cioè la consulenza strategica continuerà con McKinsey , BCG, Bain e pochi altri, grazie anche al fatto che si tratta di un mercato diverso. Nonostante nel 2004 vi sia una ripresa, vi è più sensibilità al prezzo, probabilmente non si parlerà di crescita del 15-20% ma forse di crescita del 10% quindi leggermente inferiore. Però le regole di questo tipo di consulenza sono sempre le stesse: servizio ad un cliente che è grande e tendenzialmente multinazionale con esigenze sempre maggiori di servizio e queste aziende multinazionali non possono essere servite da tutti in quanto si è di fronte ad un determinato servizio e bisogno, avanzato da parte dei clienti multinazionali o comunque grandi che può essere soddisfatto da poche aziende di consulenza, ossia da 4 o 5 aziende nel mondo.

Chi è che può servire questo tipo di mercato?
A parte McKinsey che è dappertutto e da sempre molto forte, io vedo solo BCG e Bain & Company. Sono poche le aziende nel campo della consulenza strategica che possono dare quel tipo di servizio ad aziende complesse internazionali che hanno bisogno di essere aiutate in questi processi di cambiamento.

Leggi tutto...

sabato 24 luglio 2010

Irene Tinagli sull’età pensionabile dei docenti universitari

Commento di Irene Tinagli pubblicato su La Stampa
“Come periodicamente accade nel nostro Paese, si riaccende il tormentone vecchi contro giovani, con l’eterno tema del ringiovanimento dell’università italiana. L’occasione stavolta è la proposta del Pd di mandare in pensione tutti i professori sopra i 65 anni, un’idea lanciata già qualche mese fa ma tornata d’attualità dopo l’apertura del ministro Gelmini. Chiaramente numerosi professori vicini o già sopra la soglia si sono indignati, sentendosi rottamati come vecchie auto, rivendicando l’enorme patrimonio culturale e scientifico che in questo modo andrebbe buttato al vento. Altrettanto prevedibilmente i sostenitori della proposta hanno accusato chiunque fosse contro di voler difendere i baroni, di essere i peggiori nemici dei giovani e così via. C’è tuttavia qualcosa che non torna in questo dibattito un po’ scontato.
Dal lato dei «giovani», per quanto sia facile simpatizzare per i ricercatori che lavorano nel sistema universitario italiano con contratti precari e stipendi da fame, non torna affatto il ragionamento per cui chiunque abbia più di 65 anni rubi lo stipendio mentre i giovani che verrebbero immessi nel sistema sarebbero tutti grandi talenti iperproduttivi.
E non torna che persone che per anni hanno usato la retorica del merito e della qualità propongano una misura così indiscriminata che non entra in nessun modo nel merito e nella qualità delle cose. Dall’altro lato, però, stona anche sentire illustri professori difendere la propria categoria autoproclamandosi indispensabili al prestigio e al futuro della ricerca italiana, quando da decenni non sono sottoposti ad alcun tipo di verifica o valutazione.
È sicuramente una situazione complessa, e anche alcuni dei correttivi ipotizzati potrebbero non funzionare, come l’idea espressa mercoledì sul Corriere da Francesco Giavazzi di togliere agli ultrasessantacinquenni il potere di voto nei concorsi. Soluzione interessante, ma che potrebbe non sortire gli effetti sperati, visto che il groviglio di relazioni, favori e amicizie tra professori è talmente fitto che chi voglia manovrare i concorsi può tranquillamente farlo tramite le «seconde file» di suoi fedelissimi. Senza considerare che anche in questo caso si torna a dar per scontato che tutti i sessantacinquenni stiano lì solo per manovrare i concorsi. La questione si potrebbe risolvere in altro modo. Cercando di vedere la parte di ragione di entrambi anziché accanirsi sui rispettivi torti. È vero che l’Università italiana ha raggiunto un livello di vecchiaia ormai patologico ed è vero che ci sono dei professori ordinari che assorbono tantissime risorse economiche senza produrre ricerca scientifica di qualità. Ma è altrettanto vero che ci sono anche professori sopra i 65 anni ancora produttivi, di prestigio internazionale, che possono continuare a dare un contributo importante alla ricerca e alle nuove leve di studenti e ricercatori. Dunque una possibile soluzione: istituire una valutazione rigorosa sulla qualità della produzione scientifica di tutti i professori associati e ordinari, a prescindere dall’età (non solo esistono validi indicatori, ma adesso esiste anche un’Agenzia in Italia, l’Anvur, che avrà le carte in regola per condurre tali valutazioni). I professori che non rientrano negli standard qualitativi previsti potranno scegliere: se hanno un’età pensionabile possono andare in pensione, altrimenti dovranno optare per un contratto differenziato che preveda solo docenza, non ricerca, e che abbia quindi un salario ridotto della metà.
In questo modo i professori che reclamano la propria indispensabilità al sistema universitario italiano avranno finalmente l’opportunità di dimostrarlo. E di farlo non attraverso i criteri del «merito eccezionale» non ben definito che prevede la proposta del Pd, ma dimostrarlo attraverso una regolare valutazione delle loro attività secondo standard scientifici internazionali (così come avrebbe voluto fare il senatore Ignazio Marino, purtroppo inascoltato dal suo stesso partito). Dopotutto il mantenimento in servizio di un professore bravo non deve essere visto come un favore al professore, ma un servizio alla società. Non solo, si risolverebbe anche la questione delle risorse economiche, perché mandare in pensione tutti gli ordinari sopra i 65 significa comunque un onere per le casse dello Stato, a fronte di nessun servizio reso. Invece, riducendo lo stipendio per chi faccia solo attività didattica, si avrebbe una spesa complessiva molto minore, per un servizio importante che comunque viene reso. Infine, si risolverebbe anche la questione dell’intra moenia per i professori sollevata sempre dal Pd. È vero che molti professori hanno attività professionali a latere di quella accademica, ma questo non necessariamente incide sulla qualità della ricerca e dell’insegnamento. Se un docente riesce comunque a produrre ricerca di qualità potrà fare quello che vuole nel tempo libero, se invece le attività extra vanno a detrimento della qualità accademica sarà lui il primo a tagliare sulle consulenze se ha intenzione di restare professore full time”.
Irene Tinagli

I dipendenti del settore pubblico e privato quando vanno in pensione portano a casa conoscenze e competenze importanti, danneggiando in molti casi l’impresa dove operano. Quindi occorre affrontare la sfida della perdita di conoscenze e competenze che in una impresa privata può essere affrontata con più flessibilità ed efficienza.
Tale problematica può essere affrontata utilizzando diversi strumenti:
- Diagnosi e valutazione del rischio del pensionamento;
- Pianificazione della successione attraverso programmi di sviluppo delle risorse umane e delle competenze;
- Nuovi rapporti di collaborazione per i dipendenti in pensione con conoscenze e competenze rilevanti e preziose.
La regola del pensionamento dei docenti universitari al compimento del 65° anno di età deve essere accompagnata dalla possibilità di riassumere con  modalità nuove, magari in part-time, coloro che possiedono competenze preziose per l’università attraverso “una regolare valutazione delle loro attività secondo standard scientifici internazionali”. La dispersione ed il depauperamento delle conoscenze e delle competenze è un rischio da affrontare con mezzi adeguati al fine di elevare il patrimonio intangibile delle Università.
Le università sotto esame di Francesco Giavazzi
Mandatemi in pensione ma tutelate la qualità di Michele Salvati
Un'idea su pensioni e ricerca di Angelo Panebianco
Marco Meloni risponde a Irene Tinagli
Un errore punire gli anziani di Piero Ostellino
il cannocchiale

Leggi tutto...

mercoledì 21 luglio 2010

Richiesta del PD ad Antonio Martone

Comunicato dei senatori Pd della Commissione Lavoro del Senato, 20 luglio 2010
La funzione di Presidente dell’Autorità indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit) richiede non soltanto assoluta integrità personale e indipendenza totale nei confronti di qualsiasi altro potere pubblico o privato, ma anche assenza di qualsiasi ombra su tali qualità. Nel momento in cui sulla persona del dott. Antonio Martone si appuntano notizie di comportamenti gravemente incompatibili con questi requisiti, ancorché fondate su conversazioni telefoniche di terzi, egli ha il dovere di prendere pubblicamente, in qualità di Presidente della Civit, una posizione dalla quale risulti in modo molto preciso e netto

- l’inesistenza dei comportamenti che gli vengono attribuiti;

- la sua estraneità a qualsiasi rapporto associativo, formale o informale, con soggetti interessati a influire sul funzionamento di organi istituzionali, giurisdizionali o amministrativi;

- l’assenza di qualsiasi fatto o circostanza, presente o passata, che lo renda suscettibile di ricatto o pressioni da parte di chicchessia.

Una siffatta presa di posizione chiara, netta e convincente, appare particolarmente necessaria in questo momento, nel quale la Civit è oggetto di attentati ripetuti non solo alla sua indipendenza, ma alla sua stessa esistenza, anche ad opera di esponenti del Governo e componenti della maggioranza. Il grado di autorevolezza di un’istituzione come la Civit dipende, certo, dalla competenza tecnica e professionale dei suoi componenti, ma è anche correlato alla loro riconosciuta e indiscussa integrità morale: qualsiasi ombra che li sfiori finirebbe per riflettersi sull’istituzione e conseguentemente indebolirla, contribuendo al disegno di chi vuole impedirne il funzionamento e ostacolare l’emancipazione delle amministrazioni pubbliche italiane dal circolo vizioso di arretratezza, inefficienza, opacità e malaffare in cui troppo sovente sono imprigionate.
Pietro Ichino, Luigi Zanda, Tiziano Treu, Giorgio Roilo, Rita Ghedini, Tamara Blazina, Paolo Nerozzi, Achille Passoni

La risposta di Antonio Martone
Il “comunicato dei senatori PD della Commissione Lavoro del Senato” diramato oggi, mi impone di uscire, sia pure con sintetiche dichiarazioni, dal riserbo che, per il rispetto che devo all’operato dei magistrati, mi ero imposto subito dopo aver inviato ai mezzi di informazione, il 12 luglio, la lettera aperta al Presidente dell’ANM che allego.
Con riferimento ai fatti che i mezzi di informazione hanno tratto dall’ordinanza del GIP di Roma e alle intercettazioni pubblicate oggi su il Fatto Quotidiano, ribadisco che non ho mai fatto o tentato di fare interventi sui giudici della Corte Costituzionale, sui componenti del CSM e sui magistrati della Cassazione che hanno adottato i provvedimenti ivi richiamati e sono del tutto estraneo agli episodi relativi alla candidatura alla presidenza della Regione Campania, agli impianti eolici, alle nomine di dirigenti degli uffici giudiziari e alla decisione sulla esclusione della “Lista per la Lombardia” in occasione delle ultime elezioni regionali.
Non ho mai fatto parte di associazioni segrete e non ho tenuto alcun comportamento che mi possa esporre a ricatti o illegittime pressioni, come credo possano dimostrare i quasi 45 anni di appartenenza all’ordine giudiziario e, in generale, tutta la mia vita.
Ciò nonostante, in questo delicato frangente, rappresentare all’esterno la CIVIT mi pone in una situazione di imbarazzo che non voglio si rifletta sui lavori di un’Istituzione nella quale credo. Pertanto, d’accordo con i componenti della Commissione, fin dalla settimana passata ho pregato il componente decano di sostituirmi in attesa del periodo feriale.

Leggi tutto...

martedì 20 luglio 2010

Meritocrazia. Letture consigliate

Articolo di Franca Porciani pubblicato su Corriere della Sera del 4 luglio 2010
Ognuno di noi è quello che riesce a diventare. È così da quando la rivoluzione francese e quella americana posero le basi di una cultura che «cambiò» un futuro fino allora preordinato dalla nascita. Il diritto al merito sembra una certezza acquisita nelle società occidentali mature; eppure, all' interno di questo percorso storico, c' è anche un Paese come l' Italia, che vive in cronica «asfissia» di merito. Cosa denunciata da molti e oggetto di lamentele ricorrenti: la fuga dei cervelli (ora si chiama, più modernamente, brain drain, ma è la stessa storia), l' innovazione che non viene premiata, l' università vecchia e governata da baroni, le scarse opportunità di lavoro, la mediocrità dilagante. Come sintetizza Roger Abravanel in Meritocrazia (Garzanti editore):«La società italiana è profondamente disuguale e statica. Il destino dei figli è legato a quello dei genitori; molto di più di quanto avvenga in altri Paesi. La disuguaglianza fra ricchi e poveri continua ineluttabile». Ma se il merito inteso come risultato di un' alchimia riuscita fra talento e impegno (così lo definì alla fine degli anni Cinquanta il sociologo inglese Michael Young, inventore del termine meritocrazia) si è affermato nelle società anglosassoni, nei Paesi del Nord Europa, in Francia e in Germania, resta un sogno nel cassetto (di pochi) nel nostro Paese.   Nonostante che la sua negazione, nelle grandi scelte sociali come nella vita quotidiana, sembri a molti (quasi a tutti) la causa della decadenza italiana. Ovvero della sua scarsa capacità di ideazione, delle misere opportunità di formazione e di lavoro; alla fine, della infelicità stessa degli italiani, visto che la strada sbarrata al merito genera povertà, incertezza del futuro, pessimismo, bassa fecondità, poca voglia di vivere. Una così ostinata assenza della cultura del merito, impenetrabile ad ogni stimolo venga da un altrove, regge alla crisi e alle critiche. Perché? Probabilmente quell' assenza è riempita da riferimenti culturali differenti, altrettanto strutturati e a loro modo vincenti, una vera e propria «cultura del demerito». Basata in primo luogo sull' enorme forza della famiglia in Italia e sulla sua capacità di far prevalere la logica dell' appartenenza che detta regole spesso in contrasto con quelle della comunità, di cui cerca di limitare riconoscimenti, sia economici sia di prestigio. E il talento senza riconoscimento non vale. Come sottolinea Cristina Palumbo Crocco in Meritocrazia (Rubbettino editore):«Un talento che si esplica senza esercizio e applicazione sembra perdere il suo reale valore. Ad esempio, si può cantare sotto la doccia per diletto. Tuttavia, si merita di essere definito un cantante se si corrisponde a determinati criteri di valutazione sociale. Il talento di per sé è la possibilità che un individuo ha per caratterizzarsi, per esprimersi. Ma per avere merito occorre competere nell' agone sociale, misurarsi con le sfide del proprio tempo». Sfide bloccate dal familismo che diventa «amorale», per Abravanel, quando «gli individui tentano di massimizzare solamente i vantaggi materiali e immediati del proprio nucleo famigliare». Nucleo famigliare che è anche cordata, appartenenza ad un' isola di potere, come denuncia Nicola Gardini, approdato ad una cattedra di Letteratura italiana all' Università di Oxford dopo un percorso ad ostacoli frustrante nell' università italiana, in Baroni (Serie bianca Feltrinelli):«Preoccupati di promuovere solo le loro cause personali, incuranti dello sviluppo del sapere e delle coscienze, i baroni provocano ogni giorno, nella più arrogante certezza dell' impunità, danni incalcolabili al patrimonio umano e intellettuale dell' intero Paese». Ma il familismo prospera e regge nel tempo anche perché rappresenta una rete di protezione, un paracadute, contro una «sana» competizione che nessuno vuole perché viene considerata utopistica, irrealizzabile. Così come sembra impossibile ridurre le rendite di posizione e il potere delle caste, anche se pare giusto denunciarle (il successo della Casta di Gian Antonio Stella e di Sergio Rizzo è una buona cartina di tornasole di questo comune sentire). «Non dimentichiamo che a questo immobilismo contribuisce la nostra tradizione accademica che conserva ancora oggi un concetto di cultura elitario: non crede nel confronto con il grande pubblico, e di conseguenza non lo vuole, a differenza di quanto avviene nel mondo anglosassone» aggiunge Luca Formenton, presidente del gruppo editoriale il Saggiatore, e vicepresidente della fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. «Difficilmente - prosegue - un editore riesce in Italia a semplificare, a tradurre in un linguaggio comprensibile a tutti, i volumi prodotti da storici o letterati. Il "sapere" deve restare un privilegio». Sta di fatto che in Italia regna la sfiducia del merito. E nessuno sembra riuscire ad essere diverso. Perché? C' è senz'altro la paura di restare fuori, di perdere anche quel minimo di garantito che la nostra società, grande alfiere della mediocrità come unico punto di arrivo, sembra distribuire, alla fine, a tutti, o per lo meno, a molti. Basta accontentarsi e non aspirare al meglio. Una paura che ha origini complesse e antiche: qualcuno è convinto che affondi le radici addirittura nelle corporazioni medievali con i loro monopoli di arti e mestieri; altri sostengono che la cultura cattolica abbia tradizionalmente enfatizzato i valori di solidarietà a scapito dell' individualità e del merito, più vicini al mondo anglosassone. Giovanni Floris, in Mal di merito (Rizzoli editore) mette in evidenza un altro elemento: «La tradizione culturale di matrice socialista e comunista, fortemente egualitaria, tende a leggere i processi di selezione come meccanismi di esclusione sociale, sottolineando come chi gode di una situazione economica di privilegio sia fatalmente favorito rispetto a chi proviene da situazioni di svantaggio». Non a caso i vari sondaggi condotti, anche da enti internazionali, confermano che per gli italiani il valore più importante per arrivare ad una certa posizione è ancora oggi la rete di conoscenze e non il talento, l' impegno, la capacità professionale. D' altro canto qualche «seme» di merito, come lo chiama Abravanel, c' è anche in Italia. Un esempio per tutti la scuola Normale di Pisa, che dalla sua nascita, voluta nel 1810 da Napoleone, ad oggi mantiene «miracolosamente» la capacità di premiare i migliori. Con quale formula? Spiega il direttore, Salvatore Settis, archeologo, che di merito ha parlato in Quale eccellenza? (Laterza editore):«Se dovessi rispondere con una parola, direi selezione. L' accesso alla Normale è condizionato da esami scritti e orali approfonditi. E può succedere che gli ammessi non coprano tutta la disponibilità di posti. È accaduto anche alla penultima selezione: sono rimasti vacanti 4 posti su 60, nonostante avessero partecipato più di mille studenti». E i docenti? Come è possibile sceglierli senza essere condizionati dai vizi del sistema universitario italiano? «Li prendiamo "dal mercato", evitando i concorsi, perché si tratta di cattedre per trasferimento - risponde Settis -. Quando vogliamo coprire un posto, il docente viene scelto in base a lettere di referenze di colleghi di tutto il mondo, pubblicazioni, ricerche». Un altro pianeta? No, avviene in Italia.


Altre pubblicazioni
Irene Tinagli, Talento da svendere, Einaudi, 2008;
Nicola Gardini, Baroni, Serie Bianca Feltrinelli 2009;
Christopher Lasch, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli 2001;
Walter Kirn, Tra le nuvole, Rizzoli 2010.

Leggi tutto...

venerdì 16 luglio 2010

Tassazione delle transazioni finanziarie

La crisi economica e finanziaria globale non è superata e si ripresenta nella sua gravità. Il FMI propone il blocco della spesa pubblica ed un livello dell’indebitamento pubblico pari al 60% del Pil. Gli Stati nazionali, particolarmente, l’Italia, sono più impegnati a ridurre il debito pubblico anziché promuovere strumenti e condizioni di sviluppo dell’economia. Si rischia di far pagare il costo della crisi ai cittadini (stato sociale, aumento delle imposte, pensioni, sanità, livelli di occupazione).
Vincenzo Visco propone nuovi strumenti: - La tassazione delle transazioni finanziarie; - La creazione di un fondo globale o almeno europeo che gestisca il debito degli Stati e lo riconduca al periodo pre-crisi. Dagli Stati Uniti interviene Pierluigi Bersani che rilancia la proposta a livello internazionale.
Il problema da risolvere è quello di non far pagare la crisi ai cittadini che non hanno alcuna responsabilità e già pagano gli effetti della crisi.
Articolo di Vincenzo Visco pubblicato su Il Corriere della Sera del 13 luglio 2010
“Nel futuro prossimo, per tutti i Paesi si prospetta un difficile trade-off tra risanamento dei bilanci pubblici e recupero della crescita economica. Secondo il Fmi l' obiettivo delle politiche economiche dei governi per i prossimi anni dovrebbe essere quello di riportare al più presto il livello del debito pubblico al 60% del Pil. Date le dinamiche già verificatesi e quelle previste, ciò comporta una correzione media dei bilanci pubblici di poco meno di 9 punti di Pil per raggiungere l' obiettivo nel 2030. A ciò si deve aggiungere un ulteriore aggiustamento di 4 o 5 punti necessario in molti Paesi per fronteggiare la crescita della spesa per pensioni e sanità. Come realizzare questi obiettivi? Il fondo propone il blocco per 10 anni della spesa pubblica pro capite in termini reali; riforme previdenziali e della sanità per ridurne i costi (aumento dell' età pensionabile, e della compartecipazione alla spesa sanitaria dei privati), e un robusto aumento delle imposte, dall' Iva (aumentando le aliquote ridotte, o introducendola là dove non esiste), alle accise, all' imposizione patrimoniale (immobili), all'introduzione di imposte ecologiche, oltre a misure di contrasto all'evasione, per un ammontare medio complessivo che potrebbe raggiungere il limite massimo di oltre 5 punti di Pil. Non è sorprendente che queste prospettive terrorizzino i governi e i Parlamenti di tutto il mondo, e siano rifiutati dai cittadini di tutti i Paesi che non comprendono perché dovrebbero essere loro a farsi carico degli eccessi finanziari degli anni passati. Esistono strade alternative? Probabilmente sì, ma si tratta di soluzioni che dovrebbero essere assunte in modo concordato e coordinato: una crisi globale richiede inevitabilmente soluzioni globali. Il problema di fondo è quello di liberare i bilanci degli Stati dal peso contabile e finanziario dell' eccesso di debito che si è creato a causa della crisi riportando la finanza pubblica alle condizioni esistenti a fine 2007: si tratta finora di circa 20 punti di Pil per le economie avanzate. Una soluzione possibile sarebbe quella di conferire in un apposito fondo quote di debito sovrano dei diversi Paesi variabili in relazione all'impatto della crisi su ciascun Paese, scorporandole dai bilanci nazionali, e riconoscendo così la loro natura di debiti collettivi. Inizialmente l'attivo del Fondo sarebbe rappresentato da titoli di Stato di diversi Paesi e quindi beneficerebbe delle stesse garanzie implicite. Il Fondo tuttavia dovrebbe poi funzionare secondo regole di mercato, come un normale operatore. Tuttavia il pagamento degli interessi e il rimborso del debito sovrano che rappresenta l'attivo del fondo dovrebbe essere assicurato dall'introduzione, decisa collettivamente dagli Stati, di una imposta dedicata sulle transazioni finanziarie il cui gettito - com' è noto - sarebbe ampiamente sufficiente. Si darebbe così un senso preciso al dibattito confuso e non coordinato sulla opportunità di introdurre misure di tassazione di banche e banchieri: nell' ipotesi prevista, infatti, i mercati, gli operatori e gli investitori finanziari pagherebbero quanto necessario (e per il tempo necessario) a liberare i bilanci pubblici dalla zavorra della crisi, i cittadini da aumenti fiscali e tagli tanto pesanti quanto incomprensibili, e le economie dal pericolo di una prolungata stagnazione. A ciò si aggiungono gli evidenti vantaggi politici per i governi. L' imposta sulle transazioni, decisa a livello internazionale, potrebbe comportare una limitata cross-subsidiation tra i diversi Stati, dal momento che non esiste una corrispondenza esatta tra debiti conferiti nel fondo e ammontare delle transazioni sui mercati domestici. Ciò tuttavia non avrebbe effetti sostanzialmente diversi da quanto già implicito nei meccanismi di sostegno decisi recentemente nella Ue. I risultati che sarebbe lecito attendersi da un tale intervento sarebbero: a) di rassicurare i mercati circa la solvibilità dei debiti extra creatisi a causa della crisi nei diversi Paesi; b) di riportare i bilanci pubblici nella situazione pre-crisi, ciascuno con i suoi problemi, ma senza il sovraccarico degli effetti di una crisi devastante e non gestibile a livello nazionale; c) di garantire il rimborso e il servizio del debito. Gli aspetti più strettamente tecnici della proposta andrebbero approfonditi e concordati. Andrebbe per esempio evitato il rischio che il mercato possa spostarsi dai Paesi che applicano l' imposta a quelli che non la applicano, il che richiede una cooperazione internazionale; inoltre andrebbe previsto che tutte le transazioni (comprese quelle Otc) fossero liquidate nelle clearing houses, in modo da facilitare la riscossione delle imposte. Tutti comunque trarrebbero un beneficio dall'attuazione delle proposte: Stati, mercati, cittadini, sistemi economici, se la proposta non fosse praticabile a livello globale, potrebbe funzionare anche se limitata a livello di Ue. Un eventuale accordo dovrebbe comunque comportare anche un impegno dei Paesi partecipanti a uno stringente controllo della finanza pubblica nazionale, e a non aumentare il debito pubblico, anzi a ridurlo progressivamente se (come nel caso dell'Italia) esso fosse elevato”.
Vincenzo Visco

Si riportano le dichiarazioni di Pierluigi Bersani pubblicate su Il Sole 24 Ore del 15 luglio 2010
Una tassazione sulle transazioni finanziarie a livello internazionale: é la proposta che il Pd ha portato all'attenzione del Fmi. Il segretario Pier Luigi Bersani, in una conversazione con Radiocor, spiega che l'idea di un intervento sui profitti di banche e soggetti finanziari a livello nazionale rischierebbe di ricadere sui consumatori, mentre una tassa sulle transazioni finanziarie «é un altro discorso».
La ricetta per evitare che il rientro degli Stati sovrani dal debito causato dalla crisi finanziaria a partire dal crack della Lehman Brothers «ricada sulle politiche sociali e per l'innovazione» é stata al centro dell'incontro a Washington col vicedirettore generale del Fmi e con il direttore esecutivo per l'Italia, John Lipsky e Arrigo Sadun.
La proposta avanzata dal Pd prevede la costituzione di un fondo ad hoc, una sorta di bad company, dove far confluire i debiti direttamente causati dagli interventi anticrisi. «Il Fondo monetario internazionale riconosce che la finanza deve dare un contributo, ma sui meccanismi é cominciata una discussione che non ha ancora portato ad una soluzione», sottolinea Bersani. «Loro propendono per una griglia di possibili interventi affidati alla dimensione nazionale; mentre la nostra proposta é su scala globale; almeno europea, ma anche maggiore. Secondo il Fmi, però, é difficile coinvolgere alcuni Paesi, come quelli emergenti».
Il dibattito, rileva ancora Bersani, riguarda anche la natura dei segnali di recupero dell'economia che si registrano in questo periodo e che per il Fmi mostrano «una ripresa seppur lenta» mentre «noi siamo più pessimisti e se si tratta di un rimbalzo» ci sarà la necessità di «intervenire più drasticamente per la riduzione dei debiti e per consentire politiche maggiormente espansive».
Bersani, che é accompagnato tra gli altri dal responsabile economia del partito, Stefano Fassina, ha avuto una serie di incontri a Washington in questi giorni e dice che «c'é interesse su cosa sta succedendo in Italia e sulla sua stabilità».
Articolo di Vincenzo Visco pubblicato su L'Unità del 24 luglio 2010

Leggi tutto...

giovedì 15 luglio 2010

Immigrazione e solidarietà

Ieri sera, 13 luglio, presso la Festa Democratica di San Michele, si è svolto un interessante incontro coi tre consiglieri regionali Laura Puppato, Franco Bonfante e Roberto Fasoli, sui temi dell'immigrazione e dello sviluppo economico della regione. Un'ampia parte del dibattito si è poi incentrato sull'inceneritore di Cà del Bue.
Finalmente si è parlato diffusamente dell'accoglienza degli stranieri sul nostro territorio, con una prospettiva completamente diversa da quella cavalcata dalla lega, che da anni demonizza il fenomeno.
Per il Partito Democratico i nuovi cittadini vanno accolti positivamente, perchè contribuiscono col loro lavoro allo sviluppo della nostra terra ed al benessere delle nostre famiglie. La maggior parte di loro si sono ben integrati nelle strutture del territorio ed hanno buoni rapporti con gli “indigeni”, per cui bisogna in tutti i modi facilitare la loro integrazione nel tessuto sociale.
Parole chiare contro tutte le manifestazioni di ostilità verso gli stranieri a cui ci hanno abituati molti degli attuali governanti: a partire dai respingimenti in alto mare, con esiti a volte mortali per molti di loro, alle iniziative locali come quella dell'inverno scorso, denominata “White Christmas”, (a mio avviso in spregio anche dello spirito cattolico che tanto viene osannato in altre occasioni); fino al pasto negato a tanti bambini colpevoli di essere anche poveri, oltre che stranieri. Per non dimenticare il discusso obbligo da parte dei medici di denunciare i clandestini.
Il Partito Democratico indica la strada dell'accoglienza, dell'apertura, confermando finalmente valori morali che si credevano perduti, visto che altri ci spingevano ad “essere cattivi per legge”!!!
Senza sconti, naturalmente, per chi dimostra di non seguire le nostre leggi. Ma questo, vale anche per gli italiani?
Di conseguenza, il PD si dichiara contrario ai CIE in generale, ed all'apertura di nuovi Cie di conseguenza, anche sul territorio veronese, in quanto queste strutture, fortemente lesive della dignità umana, si sono dimostrate anche inutili, talvolta causa di gravi problemi.
Voglio perciò ringraziare i nostri consiglieri per le forti prese di posizione assunte, e per l'impegno che sicuramente metteranno in campo.
E un ringraziamento particolare alla moderatrice, la giornalista Anna Zegarelli, che ha saputo condurre l'incontro in modo vivace e spiritoso, molto efficace.

Paola Lorenzetti coord. Forum Immigrazione PD Verona

Leggi tutto...

domenica 11 luglio 2010

Continua l’impegno per il congresso PD

Nonostante il pomeriggio caldo e l’orario infelice l’incontro del gruppo “Ripartendo da noi” di Verona è riuscito grazie ad una ampia partecipazione ed al desiderio di confrontarsi sulle prospettive politiche del PD, del Paese e della provincia di Verona.
In un momento di crisi economica e sociale e di distacco della società dal sistema politico non è facile trovare persone disponibili ad affrontare i temi più attuali che interessano il paese.
L’incontro è stato aperto da Davide Mantovanelli, Francesco Magagnino, Federica Foglia e Marco Taietta. Subito dopo sono stati organizzati due gruppi di lavoro coordinati da Davide Mantovanelli e Stefano Ceschi.
La crisi del sistema politico ribadita puntualmente dai giornali con i fatti di cronaca (cricca, comitati di affari e associazione segreta) ci pone il problema di ripristinare gli elementi essenziali del modo di fare politica: probità, costruire il futuro per gli altri (ceti più deboli), trasparenza, comprensiva dell'informazione e della comunicazione, per ristabilire un rapporto di fiducia con i cittadini (partito delle astensioni), valori condivisi e regole conseguenti, competenze da mettere al servizio del paese.
Ritengo che dalla messa in opera di tali fattori può essere ristabilito un rapporto di fiducia con i cittadini e realizzata una efficace azione politica.
Qui il resto del post Davide Mantovanelli nel suo gruppo ha posto tre provocazioni sulle quali discutere: 1) “Il collante del partito è l'antiberlusconismo o sono più forti i valori condivisi”; 2)“Il presidente del CENSIS, De Rita, ha recentemente sostenuto che il PdL è in crisi ma che il PD non tocca palla. Quali potrebbero essere dunque i requisiti per riacquistare credibilità presso l'elettorato?”; 3)“ E' necessario riattivare i canali classici di collaborazione con le Organizzazioni del lavoro, dell'associazionismo, della tutela dell'ambiente, con cui ci si è storicamente rapportati a sinistra, o la società ci richiede forma diverse per rivolgerci ad essa?.
“Gli interventi sviluppatisi, ha affermato Mantovanelli, hanno evidenziato la vocazione del PD come forza protesa alla valorizzazione del Lavoro, della Cultura, della Sanità e della Scuola pubblica. É stato inoltre evidenziato che la necessaria riforma dello Stato Sociale deve passare da una seria politica dei redditi (quelli italiani sono agli ultimi posti in Europa) per far si che la meritocrazia non sia solo appannaggio dei ceti superiori (che hanno maggiore accesso alla formazione) ma coinvolga ogni fascia sociale. Anche il rigore fiscale è stato giudicato fondamentale per garantire un sistema genuinamente democratico”.
“E' stato inoltre messo in luce, ha conti9nuato Mantovanelli, che il ruolo delle donne, nonostante l'introduzione delle quote, resta ancora troppo marginale a causa, soprattutto, dei tempi e delle modalità di fare politica imposte dagli uomini che rendono complicata la conciliazione con i tempi di vita e di lavoro femminili.
E' stato ribadito che la trasparenza decisionale, accompagnata da una forte campagna di moralizzazione nella gestione della cosa pubblica, deve essere elemento imprescindibile del PD”.
“Le primarie dovranno essere organizzate a Verona, ha concluso Davide Mantovanelli, in modo da permettere una reale espressione della volontà degli iscritti e degli elettori del Pd. Si sono raccolte inoltre le varie sollecitazioni provenute dai partecipanti ed a breve si provvederà a stilare un documento riassuntivo. Finalità del gruppo di lavoro sarà l'individuazione di alcune priorità tra le tante prese in considerazione e l'organizzazione di eventi per portare all'esterno questi messaggi. Dato l'approssimarsi delle scadenze congressuali sarebbe importante che da questi incontri nascessero proposte che contribuissero all'arricchimento dell'Assise del prossimo autunno. Vorremmo infatti che quest'ultima non si sviluppasse essenzialmente da stimoli del Partito a livello nazionale ma che si articolasse anche dalle proposte nate dagli iscritti del territorio”.
Stefano Ceschi ha riassunto cosi il lavoro del suo gruppo: “Un incontro di persone che vogliono bene al PD, che ci credono ancora, che si rendono conto che ci sono alcuni correttivi da mettere in pratica per presentarsi come reale alternativa di governo anche a Verona. Il dibattito ha evidenziato la necessità di chiarire in maniera definitiva la nostra identità, le parole chiave che ci contraddistinguono in modo da poterci presentare ai cittadini in maniera chiara, essendo identificabili con i temi che ci stanno più a cuore e non semplicemente rincorrendo i temi proposti da Lega Nord e PDL.
Le parole ambiente, solidarietà, lavoro risultano essere gli argomenti più avvertiti dai partecipanti. Pertanto, occorre impostare un lavoro programmatico e declinare le stesse in proposte concrete da presentare ai cittadini.
Solo una volta individuata chiaramente la nostra “identità” e definite in un programma le proposte concrete si potrà confrontarsi con le altre forze politiche per cercare eventuali alleanze anche diverse dalle attuali in campo. Prima identità e programmi chiari poi alleanze.
L’organizzazione del partito, secondo i partecipanti all’incontro, deve essere migliorata in alcuni aspetti come il funzionamento dei Circoli ai quali devono essere garantite un minimo di risorse e si deve fare in modo che i Circoli si organizzino per aree territoriali omogenee in modo da non limitarsi ad affrontare solamente i problemi legati al singolo Comune ma confrontarsi con il territorio di appartenenza e successivamente con il provinciale. Alcuni esempi positivi esistono già, come il coordinamento dei circoli dell’Est o dell’area villafranchese, buone prassi da incentivare e replicare anche con l’aiuto di un segretario organizzativo che si occupi di questo. Fare politica non sono con passione e buona volontà ma anche con competenza.
Il PD deve instaurare un rapporto più saldo con le associazione ed i comitati, questa deve essere una scelta strategica portata avanti con metodo rispettando ovviamente le diversità tra un partito e un comitato, una forma di collaborazione che in anni passati ha portato a buoni frutti e che bisogna riscoprire.
L’incontro si è svolto in un clima estremamente positivo e propositivo, senza barriere e limitazioni legate a partiti di appartenenza precedente con una gran voglia di mettersi a disposizione per “prendere possesso” ed identificarsi pienamente nel Partito Democratico”.
L’incontro è stato molto interessante ed utile per il dibattito congressuale.
Il prossimo appuntamento è per il mese di settembre per continuare il percorso intrapreso e stabilire una piattaforma programmatica per il congresso.

Leggi tutto...

giovedì 8 luglio 2010

Congresso PD. Una nuova generazione propone

In vista del congresso del Partito Democratico di Verona un gruppo di giovani ha iniziato a lavorare su un progetto ambizioso di cambiamento del partito veronese. Si inizia cosi a parlare di:
- identità del PD;
- trasparenza, competenze e sobrietà;
- superamento del correntismo esasperato e del cumulo degli incarichi;
- riorganizzazione del PD;
- altri argomenti. Comunicato stampa
E’ stato costituito un gruppo in Facebook ed organizzato il sito http://www.pdnoi.it/ dove ciascuno può aderire liberamente.
I temi trattati dal gruppo sono molto interessanti e condivisibili ma occorre tenere presente che la giovane età senza idee è arida e non produce nulla di nuovo tranne la eventuale sostituzione del gruppo dirigente. Le buone idee non hanno età e si possono trovare nei giovani e nei meno giovani. Quindi, occorre un programma più ampio e complesso che sia in grado di realizzare la massima convergenza possibile al fine di avviare una nuova stagione di rinnovamento e cambiamento nel PD di Verona.
Per approfondire l’avvenimento ho posto alcune domande a Federica Foglia, docente di musica e coordinatrice del circolo PD di Valeggio sul Mincio.

Cosa rappresenta il gruppo “Ripartendo da noi” nel panorama del PD?
Ripartendo da noi è un laboratorio politico di lavoro che nasce da un gruppo di giovani under 40 che ha voglia di agire nell’ottica di costruire un progetto da presentare al congresso avvalendosi del le molte competenze presenti all’interno del Partito.
Parlo di competenze perché il progetto è ambizioso e vuole crescere partendo da programmi realizzabili in termini di sostenibilità e indicando modalità operative.
Non abbiamo espresso alcuna candidatura, poiché il nome uscirà dal percorso che faremo insieme, dovrà essere colui o colei che riterremo maggiormente in grado di far crescere il Partito Veronese nell’ottica della chiarezza e della competenza.

Cosa avete in programma nell’immediato?
Inizieremo a lavorare sabato 10 dalle 14,30 presso gli Impianti Sportivi di Sommacampagna cercando di creare un contesto di apertura e condivisione con il contributo di tutti coloro che vorranno partecipare con le loro idee e le loro competenze.
Ci siamo proposti di potenziare l’identità del nostro partito partendo da temi forti quali lavoro, difesa dei più deboli, legalità, salvaguardia dell’ambiente, lotta alle discriminazioni. Crediamo nella necessità di un reale rinnovamento della classe dirigente, che ponga in primo piano, come criteri per la selezione, la questione della trasparenza e delle competenze.

Come vi ponete rispetto ai circoli del PD?
È importante valorizzare il lavoro dei circoli curando in modo più efficiente la rete di comunicazione fra di noi, cercando di utilizzare in maniera più adeguata il prezioso contributo proveniente dai molti circoli presenti sul territorio.
Vogliamo dimostrare credibilità attraverso la passione che ognuno di noi mette in quello che fa cercando di lavorare fra di noi in primo luogo come una vera squadra, perché è necessario ridare entusiasmo, prima di tutto fra di noi.
Il progetto è stato lanciato ufficialmente lunedì 5 luglio e ci auguriamo possa continuare a crescere avvalendosi dei contributi di tutti coloro che vorranno esserci.
“Sabato 10 luglio ci sarà la prima iniziativa del gruppo under 40, dichiara il consigliere provinciale Diego Zardini. Sarà una giornata di discussione politica a 360 gradi, aperta a tutto il partito. Puntiamo a costruire un percorso di partecipazione e condivisione che possa costituire un occasione ed un'opportunità di rilancio della politica e dell'iniziativa del PD. I temi forti saranno il lavoro, scuola e ricerca, ambiente e territorio ma non mancheremo di parlare del modello di buona politica che vogliamo interpretare e di efficienza delle istituzioni pubbliche”.
Più esplicita è Susanna Beltrame che dichiara "in un momento di incertezza, sia esterna ma soprattutto interna al partito, sentiamo il bisogno di una presa di coscienza forte e sicura che, impegnandoci in prima persona, ci permetta di riportare l'attenzione su temi importanti e sentiti, temi che non sono solo retaggio di una politica vecchia e oramai scontata, ma che sia di stimolo a quella nuova politica che la gente ci chiede per poter tornare a guardare con ottimismo e, soprattutto, altruismo alla società. Come iscritti, ma soprattutto come giovani, vogliamo dare un segnale forte, un segnale che porti chiaro il disegno di quale sia il PD che vogliamo: un PD non piegato ad ottiche puramente correntizie, un PD che torni ad impegnarsi nel sociale, un PD che non ricordi la sua vocazione maggioritaria solo in fase elettorale ma in ogni momento della sua esistenza. Il nostro è un progetto a lungo termine, il nostro obiettivo non è il congresso di Ottobre ma tutto il percorso che, vincendo, con il congresso potremo intraprendere."
Se il gruppo riuscirà ad ampliare i consensi ed a presentare un programma innovativo si potrà sperare di creare nuovi equilibri attraverso il superamento delle vecchie correnti, le quali sono impegnate dall’occupazione del potere ed dalla gestione dell’esistente, e di recuperare il rapporto di fiducia con i cittadini veronesi. Un programma ambizioso che vale la pena promuovere per il bene di Verona e dei suoi cittadini.
In definitiva devono saltare i vecchi equilibri che si pongono il solo problema di gestire e spostare i consensi interni al PD e non di crearne di nuovi.

Leggi tutto...

mercoledì 7 luglio 2010

Trasparenza. Intervista a Maria Guercio

La trasparenza è tra gli argomenti che hanno assunto nel mondo globale più attenzione grazie alle nuove tecnologie, le quali consentono una comunicazione facile e continua ed un flusso di informazioni libero per coloro che si collegano a Internet.
Oggi le bugie, le mezze verità o le reticenze vengono presto scoperte grazie alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione attraverso blog, motori di ricerca, quotidiani on line che raggiungono migliaia di lettori. I consumatori ed i cittadini utilizzano tali strumenti per denunciare comportamenti, condividere avvenimenti e proporre soluzioni alle organizzazioni pubbliche e private.
Le bugie prima o poi vengono smascherate con effetti disastrosi sulla fiducia e sui profitti (esempio: lo scandalo Enron e la chiusura della più grande società di consulenza internazionale Arthur Anderson). Quindi, conviene ispirarsi al principio della trasparenza e realizzare rapporti chiari all’interno di una organizzazione con i dipendenti ed all’esterno con i cittadini ed i consumatori.
Daniel Goleman, Warren Bennis e James O’Toole, autori del libro Trasparenza - Rizzoli 2009, affermano che è stata “la politica della falsità a causare il recente crollo dei colossi finanziari catapultandoci in una disastrosa crisi economica”.
Il livello di trasparenza degli Stati viene misurato indirettamente dall’indice di opacità, realizzato da Joel Kurtzman di PriceWaterhiuseCoopers. La classifica della trasparenza vede ai primi posti Gran Bretagna, Finlandia, Hong Kong, Stati Uniti, Danimarca, e tra gli ultimi posti la Cina e la Russia. L’Italia si colloca con un indice di opacità abbastanza alto.
L’indice di opacità ostacola il commercio, fa aumentare i costi delle attività economiche, limita la crescita economica e scoraggia gli investimenti esteri. Su tale indice incide la corruzione ed i favoritismi.
Per approfondire l’argomento della trasparenza ho intervistato Maria Guercio, docente della Scuola della Pubblica Amministrazione e professore di archivistica informatica presso l’Università degli studi di Urbino.

Ritiene che la trasparenza possa aiutare il sistema di un paese a migliorarsi ed a ristabilire un eccellente rapporto con i cittadini ed i consumatori?
La trasparenza è uno degli strumenti di maggior peso in una democrazia matura proprio nel gestire un corretto rapporto tra chi governa e i cittadini. La possibilità di disporre con facilità e in base a un principio generale di informazioni sul modo in cui la pubblica amministrazione gestisce la propria attività e le risorse finanziarie costituisce un importante strumento di garanzia in grado di ricondurre l’azione pubblica a un principio di responsabilità.

Quali sono gli effetti della trasparenza sulle organizzazioni private e pubbliche?
L’obbligo di rendere pubblici i dati e i documenti relativi al proprio operato costringe l’amministrazione a gestire con maggiore correttezza, qualità ed efficienza il proprio processo decisionale. Naturalmente, non è sufficiente che la normativa sia adeguata, e’ necessaria la presenza di strumenti concreti ed efficaci che promuovano e consentano l’applicazione delle disposizioni. I cittadini devono essere informati e devono essere messi in grado di esercitare con facilità i loro diritti. Allo stesso modo, è indispensabile che i procedimenti amministrativi più complessi, che attraversano più enti, siano gestiti in modo responsabile evitando la frammentazione dei processi medesimi e dei controlli. Gli effetti, insomma, sono significativi se si accompagnano a misure organizzative adeguate. Tra queste non bisogna dimenticare la gestione dei documenti e la presenza di archivi ordinati e di strumenti di reperimento in modo da consentire il rapido recupero dei documenti necessari a sostenere le richieste di informazione da parte dei cittadini.

In Italia viene contrapposta la tutela della privacy alla trasparenza. Qual'è il confine ed il rapporto tra questi fattori in Italia ed all’estero?
I due problemi sono strettamente legati, come è noto. In alcuni casi, peraltro alquanto limitati, ci può essere un conflitto che tuttavia può essere risolto contemperando le esigenze. In alcuni paesi (ad esempio in UK) una stessa struttura pubblica gestisce entrambi i compiti, consentendo di trovare più facilmente la sintesi di eventuali bisogni contrapposti. Merita comunque sottolineare che in entrambi i casi archivi ordinati e una corretta documentazione dei processi consente di trovare soluzioni ottimali, riducendo i rischi senza tuttavia eliminare la possibilità di essere informati.

L’integrazione e la condivisione di dati e informazioni presenti nel sistema pubblico ed il loro ampliamento (esempio: una banca dati degli appalti pubblici, la trasparenza di tutti i redditi) può favorire la lotta ad alcuni fenomeni incontrollabili come la lotta alla mafia ed all’evasione fiscale?
Non c’è dubbio che la pubblicità delle informazioni e strumenti di diffusione di alcune informazioni sarebbero di grande aiuto nella lotta a fenomeni gravissimi come la mafia e l’evasione fiscale, che trovano il loro brodo di coltura soprattutto nella mancanza di trasparenza, nell’assenza di informazioni chiare e di strumenti per interrogare facilmente le istituzioni sul loro operato, nella discrezionalità con cui si rendono disponibili le informazioni sulle scelte pubbliche a tutti livelli.

Il fenomeno del partito delle astensioni avvenuto in Italia è causato dalla scarsa trasparenza nei confronti dei cittadini e dalla conseguente sfiducia nelle istituzioni e nei partiti o da altri motivi?
La percezione di una diffusa opacità delle amministrazioni pubbliche non aiuta i cittadini a superare la radicata diffidenza che i cittadini hanno maturato verso l’azione pubblica. E’ bene peraltro sottolineare che l’opinione pubblica italiana è abituata alla scarsità di informazioni significative in questo ambito, tanto che anche la stampa nazionale – con l’eccezione di alcune testate – non ha saputo in questi anni svolgere il ruolo di controllo cui è invece chiamata. Solo recentemente gli organi di stampa hanno cominciato ad avvertire i ritardi accumulati in questo ambito anche rispetto agli altri paesi europei (ad esempio in relazione a una normativa che ancora oggi apre gli archivi correnti solo a coloro che hanno un interesse legittimo e non a chiunque chieda conto dell’operato pubblico). Solo raramente i giornalisti sembrano essere consapevoli dei ritardi in questo ambito e delle potenzialità che una piena applicazione del principio di accesso ai documenti offre a chi voglia garantire una informazione documentata e corretta.

I cittadini ed i consumatori desiderano conoscere, essere coinvolti, controllare e partecipare alle scelte delle organizzazioni pubbliche e private altrimenti si realizza un distacco non facilmente recuperabile. Per tale motivo occorre che tutte le organizzazioni pratichino la trasparenza dagli organi e enti pubblici, alle organizzazioni private ed ai partiti.

Leggi tutto...