sabato 31 gennaio 2009

Contro la crisi: Quale Welfare?

Il 23 gennaio sul Corriere della Sera Pierluigi Battista scriveva, in occasione dell’approvazione del disegno di legge sul federalismo fiscale con l’astensione del Partito Democratico e dell’Italia dei Valori, “per la prima volta ……. il varo di una riforma ha conosciuto una convergenza bipartisan”. A parte il fatto che la prima convergenza si è realizzata in Senato in occasione dell’approvazione del disegno di legge delega sulla Pubblica Amministrazione, occorre constatare che sulla giustizia, sul decreto anti-crisi e su altri problemi urgenti la maggioranza ha voluto proseguire in solitudine e a colti di fiducia senza accettare alcun confronto costruttivo sul merito delle questioni. In particolar modo sulla crisi economica è mancata la creazione di un tavolo unico, come è stato fatto in altri stati, per adottare provvedimenti efficaci al fine di sostenere le imprese, il lavoro e le famiglie con redditi bassi. Oggi perfino il Presidente della Confindustria ha lamentato che il sistema in Italia non favorisce i giovani e che l’intero sistema di Welfare va reinventato. “ La crisi deve essere, dichiara il Presidente di Confindustria, un’occasione di ripensamento per tutti noi. Del modo di fare impresa, per esempio. Ma anche del welfare.”
Il Partito Democratico offre l’occasione per parlare e riflettere sui problemi economici e sul Welfare con l’incontro organizzato a Verona venerdì 6 febbraio al Centro Congressi Veronafiere (Sala Salieri) viale del Lavoro 8.
Tema dell’incontro:
Contro la crisi: Quale Welfare?
Le politiche sociali
Ore 10.00: Saluti di Giandomenico Allegri – Segretario Provinciale PD Verona
Ore 10.10: Relazioni
Sistema sociosanitario veneto: evitare il declino
Diego Bottacin – Consigliere regionale
Politiche sociali: precedenza ai diritti
Margherita Miotto – Deputato PD
Ore 11.00: Interventi
Andrea Luzi – Presidente ACLI del Veneto
Emilio Viafora – Segretario Regionale CGIL del Veneto
Simone Brunello – Segretario Generale Federsolidarietà Confcooperative del Veneto
Gerardo Colamarco – Segretario Regionale UIL del Veneto
Sandro Simionato – Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Venezia
Le politiche per il lavoro
Ore 14.30: Presentazione della ricerca “L’Italia dei lavori”
Daniele Marini Università di Padova - Fondazione Nord Est
Ore 15.00: Relazioni
Le proposte per un nuovo welfare
Donata Gottardi – Europarlamentare PD
Tiziano Treu – Senatore PD
Franca Donaggio – Senatrice PD
Crisi occupazionale: quali risposte
Ore 16.00: Tavola rotonda
Franca Porto – Segretario regionale CISL del Veneto
Don Renzo Beghin – Responsabile Triveneto Pastorale del lavoro
Andrea Causin – Consigliere regionale
Claudio Miotto – Presidente Confartigianato del Veneto
Francesco Borga – Direttore Generale Confindustria del Veneto
Davide Zoggia – Presidente della Provincia di Venezia
Coordina:
Arcangelo Boldrin – Responsabile Dipartimento Economia e Lavoro PD Veneto
Conclusioni
Paolo Giaretta Segretario regionale PD Veneto
Enrico Letta Ministro Welfare Governo Ombra PD
Documento PD sull’economia
Intervista a Emma Marcegaglia

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Pietro Ichino, una battaglia per la libertà di pensiero

Vi sono gruppi che in Facebook inneggiano ai mafiosi ed altri che hanno scelto il nome ed il simbolo delle brigate rosse.
Noi abbiamo scelto di impegnarci per la libertà di pensiero, per la riforma del mercato del lavoro, superando la divisione che esiste oggi tra lavoro stabile e lavoro precario, e per sostenere tutti coloro che si muovono in questa direzione e rischiano personalmente la vita.
Ecco la presentazione del gruppo in Facebook.
“La libertà di passeggiare in bicicletta per le strade di Milano, di uscire all'ultimo momento e di non pianificare il proprio tempo libero.
Di tutto questo Pietro Ichino sente la mancanza, ma, nonostante questo, va avanti nella sua battaglia politica e culturale, convinto che la libertà di pensiero in una società libera non possa essere negoziata o limitata a causa delle "intimidazioni permanenti" perpetrate da terroristi.
Perché in Italia "chi tocca lo Statuto muore", e il professore, bersaglio dei terroristi, lo sa bene. Perché in Italia il tema del lavoro può costare ancora la vita a dei pensatori liberi, giuslavoristi e politici, che sfidano i tabu del passato e propongono una visione riformista, già ampiamente assorbita in altri Paesi Europei.
Cogliamo l'occasione per rivolgere un pensiero a Ezio Tarantelli, Massimo D'Antona, Marco Biagi e a quanti hanno subito la pena di morte per le idee liberamente professate.
Esprimiamo solidarietà a tutti gli uomini politici che oggi sono impegnati a riformare il lavoro per garantire maggiore tutela e diritti, e rischiano la vita per questo loro impegno.
Diciamo al professore e ai suoi colleghi di andare avanti.
Noi gli siamo vicini.”
Il senso del gruppo
Questo gruppo, che in soli due giorni ha messo insieme quasi 800 persone, è dato dall'idea che la questione del lavoro e della libertà di pensiero, apparentemente disgiunte, trovino invece un collante importante in un Paese come il nostro.
Sia il lavoro che la libertà di espressione (forse, meglio, libertà di coscienza) richiamano il discorso cruciale del ruolo che lo stato è chiamato a svolgere in una società libera.
Il grado di "regulation" nel lavoro, come sappiamo, si ripercuote sulle barriere che ostacolano e talvolta rendono impossibile l'incontro tra domanda e offerta di lavoro sul mercato. Sappiamo che la deregulation negli anni '90 ha permesso all'EU di registrare un tasso di occupazione più elevato, di aumentare la partecipazione soprattutto femminile (il part-time permette a tante donne italiane di combinare vita familiare e lavorativa).
Nel contempo, quando riaffiorano groppuscoli terroristici nostalgici e sedicenti rivoluzionari, sorge sempre il dilemma del grado di "inclusione sociale" che gli stessi meritano. Su questo voglio essere chiara. Il problema non riguarda solo anarco-rivoluzionari (che poi sulla questione lavoro sono i veri Conservatori), ma anche neonazisti o fascisti. Che spazio questi meritano nell'agora pubblica?
Bene, vi propongo questi spunti per fare di questo wall uno strumento costruttivo di confronto e non una vetrina per megalomani.
La mia idea, e prendo in prestito le parole di un grande liberale come Karl Popper, è che "si deve essere intollerante solo con gli intolleranti e con i violenti". Dunque, nella misura in cui una persona è disposta a confrontarsi in maniera non violenta nella piazza pubblica delle idee, nessuna idea può essere bandita come illegittima. Se invece l’ interlocutore impugna un'arma, a quel punto non c'è margine per nessun confronto. E l’ unica soluzione è l’esclusione.
Si riporta la lettera che Annalisa Chirico, fondatrice del gruppo, ha inviato ai responsabili.
“Cari amici e amiche,
alcuni di voi ho avuto il piacere di conoscerli personalmente, altri invece sono nuove conoscenze nate sul web.
Esattamente una settimana fa nasceva il gruppo “Pietro Ichino, una battaglia per la libertà di pensiero”.
La vicenda che ha visto protagonista il senatore e professore Ichino mi aveva profondamente turbata.
Da lì è partita una collaborazione inaspettata e spontanea con Antonino Leone, dimostrazione di quello che di bello il web può creare.
Chi tra voi è stato nominato amministratore, entrando così in una più stretta e diretta interazione all’interno del gruppo, è stato segnalato da me e Antonino perché consapevoli della vostra particolare sensibilità e del vostro (anche precedente) impegno sui temi del lavoro e della libertà di pensiero.
Questo gruppo può fare tanto, può essere tanto.
In una sola settimana abbiamo raccolto circa 1300 adesioni.
In pochi giorni abbiamo raccolto dichiarazioni importanti da esponenti del PD e adesioni simboliche anche di esponenti politici dei Radicali Italiani.
In un tam tam telematico la voce si è sparsa e non sono mancate auto-candidature e richieste dirette di partecipazione attiva.
Nel contempo, come è normale che sia, non sono mancati “disturbatori” che hanno vivacizzato il dibattito muovendo critiche e commenti negativi. A questo riguardo, desidero precisare che nessuno sarà espulso per un’opinione contraria alla riforma del lavoro proposta da Ichino.
Le espulsioni avverranno soltanto qualora vengano mossi insulti personali che ledono la reputazione e la dignità di un singolo (Ichino o chiunque altro), o qualora le critiche siano dirette contro lo spirito del gruppo e in palese contrasto con lo scopo comune che tutti noi ci siamo prefissi. Queste sono le uniche clausole di quel contratto implicito che si accetta di concludere quando si aderisce a un gruppo.
Questa è la più autentica ricetta liberale.
Queste poche righe per ringraziarvi del vostro impegno e per esprimervi la mia soddisfazione per aver “intercettato” un interesse comune così largamente condiviso.
Andiamo avanti così. Idee, proposte e qualunque altra richiesta, esprimiamola e condividiamola. Continuiamo a raccogliere iscrizioni, a invitare tutti i nostri amici sul web.
Come mi è già capitato con un altro gruppo sul lavoro, nato su facebook e ora impegnato nella stesura di un disegno di legge, sono sicura che da qui possono partire iniziative importanti.
Un caro saluto a tutti”

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La lettera del fratello di un brigatista

Dal sito del senatore Pietro Ichino. “Non intendo chiederle comprensione o cercare di scusarmi a nome di mio fratello … credo, però, insieme a lei, che occorra recuperare una cornice che consenta il libero confronto …”
Lettera pervenuta il 27 gennaio 2009, a seguito della mia deposizione testimoniale davanti alla Corte d’Assise di Milano, del 23 gennaio scorso, delle minacce e insulti rivoltimi in quell’occazione dagli imputati e della mia intervista pubblicata da la Repubblica il 27 gennaio. Per chi fosse interessato, questo è il link alla mia Lettera aperta ai terroristi pubblicata sul Corriere della Sera il 27 febbraio 2003. Il nome del mittente viene inserito il 31 gennaio, solo a seguito del consenso da lui esplicitamente espresso in proposito.
Buongiorno Professore,
sono Paride Bortolato, fratello del più “famoso” Davide che ha avuto modo di “conoscere” in un’aula del Tribunale di Milano qualche giorno fa.
Le scrivo per manifestarle la mia solidarietà personale per quanto accaduto, soprattutto per le frasi rivolte a lei dagli imputati.
Inutile dire che non intendo chiederle comprensione o cercare di scusarmi a nome di mio fratello, si tratta di una persona adulta che ha fatto le sue scelte e, per quanto lontanissime dalle mie, purtroppo non posso far altro che prendere atto che sono quelle che sono.
Ho pensato a lungo se scriverle queste poche righe, alla fine ha avuto la meglio il desiderio di marcare la differenza, di segnare la distanza dalle posizioni e dai metodi degli imputati e di esprimerle quindi la mia solidarietà.
Con questo non significa che io condivida le sue idee, che, confesso, conosco troppo poco, come poco conosco il mondo delle relazioni sindacali e del diritto del lavoro più in generale. Credo però, assieme a lei, che sia fondamentale recuperare una cornice che consenta il libero confronto, tra posizioni anche lontanissime, con metodi anche “tosti”, ma che non faccia mai venire meno il diritto di esprimere il proprio pensiero e le proprie opinioni e soprattutto che non faccia venire meno il diritto alla vita.
La saluto, rinnovo la mia solidarietà personale e le auguro un buon lavoro.
Paride Bortolato
Risposta del senatore Pietro Ichino
Caro Paride,
in questi giorni sto ricevendo centinaia di messaggi a cui non riuscirò mai a rispondere uno per uno. Ma al Suo voglio rispondere, e subito; per dirLe che non giudico Suo fratello; forse credo di capire il movimento interiore che lo anima; comunque è una persona che ha il coraggio di rischiare la propria vita per quello in cui crede. Spero solo di avere un giorno la possibilità di parlargli: sono sicuro che se questa possibilità ci fosse data le minacce e gli insulti cederebbero il posto al rispetto reciproco. Dissenso politico profondo, certo, ma non odio.
Se mi consente, anch’io Le invio la mia solidarietà e comprensione per una congiuntura che penso per Lei non facile. Se ha occasione di parlare con Suo fratello, trovi il modo di fargli pervenire il contenuto di questo mio messaggio senza che egli possa intenderlo come una provocazione, o come manifestazione di un mio sentirmi più “buono” di lui: La prego di credere che non mi sento affatto tale.
Ancora grazie per il Suo messaggio
p.i.
Intervista a Paride Bortolato

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venerdì 30 gennaio 2009

Pietro Ichino risponde a Luigi Mariucci

Pietro Ichino risponde alle osservazioni critiche e agli interrogativi sul “progetto per la transizione a un sistema di flexsecurity”, proposti da Luigi Mariucci nel documento distribuito ai membri della Consulta del Lavoro e del Welfare del Pd in preparazione della sessione del 4 febbraio prossimo.
Occorre rinunciare a disegni tanto ambiziosi quanto velleitari e inconcludenti di mega-riforme: carte dei diritti, statuti dei lavori, contratto unico appaiono essere, nelle condizioni date, inutili e retorici .propositi. Si lasci perdere!
Il progetto di cui stiamo discutendo si distingue dalle “mega-riforme” di cui parla L.M. proprio perché, come è chiarito nella relazione introduttiva del disegno di legge, esso si propone di promuovere il mutamento di equilibrio del nostro sistema:
‑ non con un improvviso – e improbabile ‑ mutamento drastico della disciplina del mercato del lavoro e dei servizi in esso disponibili, bensì innescando un processo di superamento graduale del vecchio regime,
‑ puntando non su di una palingenesi istantanea del sistema, ma sul metodo del try and go, dove la sperimentazione è oggetto di scelta contrattuale tra impresa e sindacato, cui la legge si limita a offrire una guida e una sponda;
‑ scommettendo, sì, sulla superiorità effettiva di un nuovo regime, quello ispirato ai migliori modelli della flexsecurity nord-europea, rispetto al nostro vecchio regime di protezione; ma su di una superiorità che non viene presunta a priori,bensì assoggettata alla verifica della negoziazione tra le parti e della sperimentazione concreta;
‑ puntando, dunque, non sull’imposizione autoritativa, ma sull’accordo spontaneo tra le parti interessate, auspicabilmente destinato – se la scommessa verrà vinta – a estendersi a macchia d’olio dopo le prime esperienze positive;
‑ puntando non, come sempre in passato, sull’impegno di risorse pubbliche, ma sulla capacità del sistema di relazioni industriali di attivare autonomamente, e senza oneri per la collettività, un nuovo gioco a somma positiva nel quale i lavoratori stabili già in organico non hanno alcunché da perdere, mentre i new entrants e le imprese hanno molto da guadagnare;
‑ last but not least, puntando, non su di un improbabile, improvviso scatto di efficienza dei servizi pubblici di formazione e collocamento al lavoro, invano atteso da un quarto di secolo a questa parte, ma sull’attivazione da parte delle imprese stesse di nuove strutture di servizi fortemente incentivate (anzi: a ben vedere costrette dal vincolo economico) a essere efficienti.
È sbagliata la diagnosi su cui il progetto si fonda, di conseguenza la terapia non può funzionare. Non è vero che esistono insiders e outsiders intesi come blocchi contrapposti secondo un dualismo unilineare. E’ vero invece che esistono molti dualismi: nord-sud, pubblico-privato, tra i settori privati esposti alla concorrenza e quelli no, tra industria e terziario, tra imprese grandi e piccole. Con questi molti dualismi il diritto del lavoro ha sempre convissuto, in parte subendoli e in parte cercando di regolarli. Vanno affrontati uno ad uno, con politiche articolate, non con una ricetta unica.
Il modello insider/outsider costituisce da vent’anni uno dei paradigmi fondamentali dell’economia del lavoro post-keynesiana: non spetta certo a me difenderne l’utilità, né sul piano positivo, né su quello normativo. Quanto agli altri “dualismi”, certo il progetto di cui stiamo discutendo non ha la pretesa di affrontarli e risolverli tutti, bensì, soprattutto, quella di avviare a una progressiva riduzione due di essi: il dualismo-insider/outsider e il gap nel regime di protezione della stabilità tra imprese piccole e imprese medio-grandi.
Una salutare abstention of the law e una forte concentrazione sugli strumenti di una seria amministrazione del lavoro sarebbe la via maestra per tornare ai fondamenti e quindi alla utilità del diritto del lavoro.
Richiamo a questo proposito la risposta alla tesi analoga sostenuta da Donata Gottardi. È questa la tesi che porta alla “moratoria legislativa”: una scelta che ha oggi molti sostenitori, anche in seno allo schieramento di centro-destra (qui capitanati dal ministro Maurizio Sacconi). È una scelta ragionevolissima; ma con il superamento del dualismo di cui qui ci stiamo occupando ha ben poco a che fare. Alle nuove generazioni che si affacceranno nei prossimi anni sul mercato del lavoro, alle centinaia di migliaia di precari che in questo inizio di recessione stanno perdendo il posto per primi, senza un giorno di preavviso e senza una lira di indennizzo, ma anche a tutti gli altri lavoratori che dopo di loro perderanno il posto nelle crisi aziendali, quale tipo di lavoro prospettiamo credibilmente? In quali condizioni possono aspirare realisticamente a essere riassorbiti nel tessuto produttivo? Davvero pensiamo che possa soddisfarli, che possa costituire una proposta politica convincente, il solo nostro impegno a “migliorare il funzionamento degli attuali strumenti pubblici di amministrazione del lavoro”?
Documento di Luigi Mariucci

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Accordo quadro: Note di Pietro Ichino

Pietro Ichino spiega su Lavoce.info perché è sbagliato sostenere che l’accordo firmato il 22 gennaio dalla Confindustria con la Cisl, la Uil, la Ugl e senza la Cgil causerà una riduzione dei livelli retributivi garantiti dai contratti nazionali.
“Il motivo principale per cui la Cgil ha rifiutato l’accordo sulla riforma della contrattazione collettiva è la prospettiva che nei futuri rinnovi nazionali esso produca una riduzione degli adeguamenti retributivi rispetto all’inflazione. Cisl, Uil, Ugl e Confindustria, che lo hanno firmato, negano invece questa prospettiva. Cerchiamo di capire come stanno realmente le cose.Occorre considerare, innanzitutto, che il nuovo accordo prevede esplicitamente che sia negoziato in ogni impresa un premio di produzione: sindacato e lavoratori avranno dunque un vero e proprio diritto all’apertura della trattativa per l’istituzione del premio di produzione in ciascuna azienda in cui il nuovo sistema si applicherà. Questo deve portare a un mutamento di grande rilievo, sia dal punto di vista dell’estensione della contrattazione aziendale, sia nella struttura delle retribuzioni. I sindacati che sapranno riformare se stessi e mettersi in grado di svolgere incisivamente questa funzione attiveranno un modello di relazioni industriali significativamente diverso da quello attuale. Ed è subito evidente che, se non si tiene conto di questo dato, tutti i confronti fra vecchio e nuovo sistema sono inattendibili.
LIVELLO NAZIONALE E LIVELLO AZIENDALE
Per quel che riguarda la parte della retribuzione negoziata al livello nazionale, l’accordo istituisce un meccanismo di adeguamento dei minimi tabellari secondo un indice previsionale costruito sulla base dell’Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo) che non è di per sé meno protettivo rispetto al meccanismo precedente, fondato sul riferimento all’“inflazione programmata”: esso, semmai, è destinato a portare un adeguamento più vicino all’inflazione reale, rispetto a quanto accaduto nel quindicennio passato.
Nel nuovo sistema il sindacato rinuncia a negoziare al livello nazionale aumenti retributivi collegati agli aumenti di produttività (come avveniva nel vecchio sistema), al fine di lasciare più spazio allo sviluppo della contrattazione al livello aziendale su questa materia. L’accordo, però, prevede pure che i contratti nazionali di settore istituiscano un “elemento retributivo di garanzia” (Erg), destinato a scattare nelle imprese dove la contrattazione di secondo livello di fatto non si attivi. È sostanzialmente una generalizzazione del meccanismo già da tempo previsto dal contratto collettivo dei metalmeccanici, dove è chiamato “assegno perequativo”. Anche se si considera soltanto la parte di retribuzione negoziata al livello centrale, non si può ragionevolmente affermare che il risultato di queste nuove norme-quadro sarà una sua riduzione prima di conoscere l’entità dell’Erg che verrà stabilita da ciascun contratto nazionale.
La Cgil esprime a questo proposito il timore che, nei settori in cui il sindacato è più debole, l’Erg di fatto non venga contrattato, o venga determinato in misura troppo bassa. Ma dove il sindacato è più debole era più difficile anche il “recupero di produttività” che veniva negoziato al livello nazionale nel vecchio sistema.
Finora, nel quadro dell’accordo del 1993, al livello nazionale si negoziava una parte maggiore della retribuzione complessiva, secondo un criterio tendenzialmente uguale per tutti i settori; si lasciava così uno spazio più ridotto alla parte di retribuzione legata agli aumenti di produttività o redditività effettivi e si sacrificavano sul piano nazionale le retribuzioni delle aziende più dinamiche. È possibile che anche questo abbia contribuito a tenere il livello generale delle nostre retribuzioni nettamente più basso rispetto a quelli di tutti i nostri maggiori partner europei.D’altra parte, aumentare le retribuzioni è possibile soltanto in due modi. Il primo consiste nell’erosione del profitto, dove c’è, a vantaggio dei redditi di lavoro; per questo lo strumento più efficace e penetrante – almeno in riferimento alle aziende con produttività e redditività più alte della media ‑ non è certamente la negoziazione di uno standard nazionale che deve andar bene anche per i settori dove produttività e redditività sono più basse. Il secondo consiste nel rendere più produttivo il lavoro; questo è possibile soltanto attraverso l’innovazione; e l’innovazione che più conta, quella che sovente è portata dall’imprenditore straniero, la si contratta al livello aziendale, non a quello nazionale. Sindacati e lavoratori italiani finora hanno fatto troppo poco questo mestiere; non si può ragionevolmente negare che il nuovo accordo interconfederale apra maggiori spazi per svolgerlo.Nel maggio scorso avevo proposto una formulazione della clausola relativa all’Erg suscettibile di offrire una “garanzia” assai efficace, pur mantenendo uno stretto collegamento di questa voce retributiva con l’andamento di ciascuna azienda. Si trattava della traduzione in linguaggio contrattuale di un’idea originariamente proposta da Tito Boeri e Pietro Garibaldi: un premio di produttività “di default” collegato al margine operativo lordo di ciascuna azienda, ma i cui parametri minimi fossero stabiliti a livello nazionale, per il caso di difetto di negoziazione nella singola impresa. Questo avrebbe anche costituito una sorta di “traccia” per la contrattazione aziendale anche nelle piccolissime aziende, da parte di lavoratori o sindacalisti privi di qualsiasi esperienza in questa materia. Vi è ragione di ritenere che, se la Cgil, nella trattativa svoltasi nel corso del 2008, avesse sostenuto un meccanismo di questo genere, la Confindustria non avrebbe opposto un rifiuto pregiudiziale. È vero che questo meccanismo non avrebbe prodotto aumenti retributivi nelle aziende che più soffrono l’attuale fase di recessione; ma questo non è necessariamente un male: la flessibilità della retribuzione in relazione all’andamento aziendale favorisce la continuità dell’occupazione ed evita le sospensioni del lavoro e i licenziamenti.
LA RAPPRESENTATIVITÀ
L’accordo del 22 gennaio prevede la stipulazione entro tre mesi di un accordo ulteriore, per la definizione dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati, al livello nazionale e a quello aziendale. È evidente che un sistema di regole sulla rappresentanza non può funzionare se non lo firma anche la confederazione sindacale maggiore. Mi sembra difficile, però, che la Cgil possa sottrarsi alla negoziazione e stipulazione di questo secondo accordo, essendo sempre stata proprio la fissazione delle regole sulla misurazione della rappresentatività dei sindacati la bandiera della stessa Cgil. Quanto al contenuto di questo futuro accordo, fin dal maggio scorso le tre confederazioni maggiori hanno raggiunto un’intesa abbastanza precisa sulle regole da istituire.
Questo secondo passaggio potrebbe costituire l’occasione per ricucire lo “strappo” tra le confederazioni. E a quel punto, anche la riforma della struttura della contrattazione collettiva potrebbe decollare, nonostante il probabile permanere del dissenso della Cgil: una volta stabilito il criterio di misurazione della rappresentatività, settore per settore sarà la coalizione sindacale maggioritaria a decidere se applicare o no le nuove regole. Così avremo, per esempio, a seconda della maggioranza sindacale operante in ciascun settore, quello tessile e quello chimico che applicheranno le nuove regole, il settore metalmeccanico e quello del commercio che non le applicheranno; e ci sarà la possibilità di misurare e verificare gli effetti dell’uno e dell’altro assetto della contrattazione collettiva. A ben vedere, un vero pluralismo sindacale significa proprio questo: possibilità per modelli diversi di relazioni industriali di confrontarsi e competere tra di loro, in modo che i lavoratori possano compiere la loro scelta a ragion veduta, in modo pragmatico e non soltanto sulla base di opzioni ideologiche. Rinvio in proposito al dialogo con Eugenio Scalfari pubblicato in questo sito nel febbraio 2006.
DEROGHE AL CCNL
Tra le altre novità contenute nell’accordo, una di grande rilievo è costituita dalla previsione della possibilità che il contratto aziendale – se stipulato dalla coalizione sindacale maggioritaria– deroghi al contratto nazionale, sia in materia retributiva, sia in materia “normativa”; e questo sia in situazioni di difficoltà economica, dove è necessaria una riduzione dello standard retributivo, sia, al contrario, nelle situazioni in cui la deroga è necessaria per introdurre un’innovazione nell’organizzazione del lavoro non compatibile con il modello fissato dal contratto nazionale. Su questo punto è profondamente cambiata la filosofia stessa dell’accordo, rispetto al testo che era stato proposto dalla Confindustria nella primavera scorsa. Chi ha letto quanto ho scritto su questo punto (in particolare, il libro “A che cosa serve il sindacato?” e il saggio “Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore” ) sa perché considero indispensabile questo ampliamento dello spazio della contrattazione aziendale per aprire maggiormente il nostro sistema all’innovazione e agli investimenti stranieri, che sono il solo modo per ottenere un forte aumento delle nostre retribuzioni.
A dire il vero, nel mio libro testé citato non propongo che la facoltà di deroga venga attribuita a qualsiasi coalizione sindacale che sia maggioritaria nella singola azienda: propongo invece l’istituzione di un filtro ulteriore, costituito dall’appartenenza dei sindacati stipulanti al livello aziendale ad associazioni radicate in almeno tre altre Regioni. Questo al fine di evitare possibili degenerazioni del meccanismo, soprattutto nel Mezzogiorno. Credo che adottare questo filtro ulteriore in questo accordo interconfederale non sarebbe stato male (e le parti sono ancora in tempo per farlo); ma sono altrettanto convinto che in questa materia la possibilità di degenerazioni marginali non debba indurre a paralizzare o appesantire eccessivamente l’intero sistema nazionale.”
IL SETTORE PUBBLICO
Ho, invece, forti perplessità sulla possibilità di buon funzionamento del nuovo assetto della contrattazione collettiva nel settore pubblico. Fino a che non sarà stato attivato il sistema di valutazione indipendente e trasparente delle performance delle singole amministrazioni previsto dal disegno di legge approvato nel dicembre scorso dal Senato e attualmente in discussione alla Camera, non vedo come la contrattazione decentrata possa svolgere correttamente, in questo settore, la funzione di collegamento delle retribuzioni all’andamento gestionale.
Pietro Ichino dal sito Lavoce.info
Accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali

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Pietro Ichino risponde a Donata Gottardi

Rispondo analiticamente alle osservazioni critiche e agli interrogativi sul “progetto per la transizione a un sistema di flexsecurity”, proposti da Donata Gottardi nel documento distribuito ai membri della Consulta del Lavoro e del Welfare del Pd in preparazione della sessione del 4 febbraio prossimo. In che senso parliamo di “dualismo” del nostro mercato del lavoro e tessuto produttivo?
Essenzialmente nel senso della distinzione tra lavoratori stabili, a tempo indeterminato, da una parte, e, dall’altra, lavoratori a termine, precari, in posizione di sostanziale dipendenza economica dall’azienda, quale che sia la qualificazione formale del loro rapporto, e aspiranti-lavoratori.
In questa divisione, come consideriamo i lavoratori “in somministrazione”?
Propongo di considerare stabili i lavoratori dipendenti dall’agenzia fornitrice a tempo indeterminato (che vengano utilizzati sia per una sequenza di “missioni” a termine, sia per rapporti di staff leasing), precari quelli assunti soltanto per la singola missione, in tutto e per tutto equiparabili ai lavoratori a termine dipendenti direttamente dall’impresa utilizzatrice.
E come consideriamo gli apprendisti?
Oggi sono dei lavoratori a termine. Secondo il progetto l’apprendistato diventa una clausola eventuale di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (con la conseguenza che se, al termine l’impresa intende licenziare il lavoratore, essa è libera di farlo – salvo che per motivi discriminatori ‑ ma in tal caso deve pagargli la relativa indennità e garantirgli assistenza per la fase di ricerca della nuova occupazione attraverso l’ente a ciò preposto). Questa, però, come tutte quelle che seguono, è soltanto la mia proposta per una sorta di “canovaccio” del disegno di legge, sul quale credo debba svolgersi una vera e propria trattativa politica tra rappresentanti dei lavoratori e delle imprese circa il contenuto del disegno di legge: chiamiamo da qui in poi questa trattativa, per rapidità, “negoziato preliminare”.
Perché esentare dalla nuova disciplina le collaborazioni continuative autonome con retribuzione annua lorda superiore ai 40.000 euro?
È una proposta dettata da considerazioni puramente pragmatiche: al di sopra di un certo livello di reddito si può presumere una forza contrattuale effettiva del lavoratore tale da giustificare una minor protezione inderogabile. Ovviamente, anche la soglia dei 40.000 euro deve essere oggetto di verifica nel negoziato preliminare sul contenuto del disegno di legge: nulla in contrario, da parte mia, ad alzarla a 60.000, per esempio; oppure anche ad alzare la soglia fino al limite minimo delle retribuzioni dirigenziali applicandola anche al lavoro subordinato. Se si opta per quest’ultima soluzione, sarà comunque opportuno fare in modo che anche i dirigenti (per lo meno il low e middle management) possano fruire del nuovo sistema di sicurezza nel mercato.
Che interesse possono avere le piccole imprese, cui oggi non si applica l’articolo 18 St.lav., a scegliere il nuovo regime con il “contratto di transizione”?
Interesse scarso, se non c’è un finanziamento pubblico dell’ente bilaterale o consortile. Per questo il progetto prevede tale finanziamento, nella misura dello 0,5% del monte salari relativo ai nuovi assunti (sui criteri di determinazione di questa misura rinvio alla relazione introduttiva al disegno di legge). Si calcola che, nel caso estremo (e sicuramente non probabile, almeno nei primi anni di applicazione della nuova legge) in cui tutti i 3 milioni di dipendenti di piccole imprese fossero interessati da “contratti di transizione” al nuovo regime, il costo aggiuntivo per l’Erario ammonterebbe a circa 500 milioni.
Se le piccole imprese non saranno coinvolte, di quale superamento di dualismo stiamo parlando?
Il finanziamento pubblico di cui si è detto costituirà un incentivo rilevante alla stipulazione del “contratto di transizione” anche nel settore delle piccole imprese. Il che significa anche nuovi spazi di azione del sindacato in un settore nel quale oggi la sua presenza è molto debole. Non dimentichiamo, comunque, che le imprese con meno di 16 dipendenti costituiscono, sì, una larga maggioranza nel nostro tessuto produttivo rispetto al numero totale delle imprese; ma i loro dipendenti costituiscono soltanto un terzo del totale nel settore privato: circa due terzi dipendono da imprese alle quali l’articolo 18 si applica (intorno ai 6 milioni).
Perché proprio dal Partito democratico dovrebbe provenire la riproposizione del superamento della tutela forte contro i licenziamenti, dopo il suo accantonamento per mancanza di interesse da parte delle stesse imprese e del Governo di destra?
Questa iniziativa spetta a noi per due motivi di grande rilievo: 1) perché essa costituisce il passaggio indispensabile per superare il dualismo tra protetti e precari di cui si è detto all’inizio; 2) perché nel nostro programma elettorale abbiamo indicato in modo molto netto l’obiettivo di “combattere la precarietà del lavoro in tutte le sue forme, contrastare l’ingiustizia dell’esclusione di milioni di lavoratori dalla protezione della sicurezza del lavoro e del reddito, assumendo come modello quello della migliore flexicurity europea; questo significa coniugare il massimo possibile di flessibilità e adattabilità delle strutture produttive con la libertà delle scelte di vita e con il massimo possibile di eguaglianza di opportunità, di sicurezza e benessere per tutti i lavoratori, nessuno escluso” (manifesto “Per dare valore al lavoro”, 14 marzo 2008). Che il Governo Berlusconi non abbia interesse a questo obiettivo è soltanto una conferma del fatto che questa iniziativa non ha alcun carattere di cedimento a istanze di destra. Quanto all’interesse delle imprese, questo dipende dal buon equilibrio di tutti gli elementi del progetto, che va verificato mediante il negoziato preliminare di cui si è detto all’inizio.
Abbiamo dimenticato la grande manifestazione di Roma del 23 marzo 2003 contro le modifiche dell’articolo 18 proposte allora dal Governo Berlusconi?
Quell’iniziativa del Governo Berlusconi mirava soltanto a depotenziare l’articolo 18. Questo progetto si propone invece la transizione a un modello di protezione che tutti – sinistra estrema compresa – riconoscono come il migliore al mondo per la sicurezza dell’impiego e del reddito: quello che nei documenti dell’Oecd è indicato come il “modello danese”.
Le riforme dovrebbero semplificare, ma non uniformare o massificare. Siamo in un mondo sempre più complesso, con esigenze multiformi, non solo provenienti dalle imprese, ma anche dalle lavoratrici e dai lavoratori. Una regola uguale per tutti, mi pare un principio non adatto al ‘mondo liquido’.
Concordo pienamente. Proprio per questo preferisco non usare l’espressione “contratto unico”. Il senso della riforma proposta non è quello di imporre un modello unico rigido di rapporto di lavoro, ma di promuovere uno standard minimo di protezione della stabilità per tutti i lavoratori in posizione di dipendenza economica, lasciando che in quel “guscio” universale si collochino rapporti dei tipi più vari: dal part-time al job-sharing, dal lavoro in staff leasing al tele-lavoro dipendente, dall’apprendistato (come fase iniziale di un rapporto di lavoro ordinario) al praticantato professionale, e chi più ne ha più ne metta.
Si dovrebbe finalmente riflettere anche sul “contratto di attività”, proposto ormai un bel po’ di anni fa in Francia, ma che richiede una revisione complessiva del sistema di Welfare.
Giusto; ma anche questo mi sembra che possa e debba essere fatto rientrare nel “guscio” universale, se non vogliamo creare una nuova forma di precariato.
La contribuzione previdenziale viene rideterminata in misura uguale per tutti i rapporti. Ma questo, immagino, solo prendendo a riferimento la contribuzione nel rapporto tra lavoro subordinato e quella nel lavoro a progetto (e vecchie collaborazioni coordinate e continuative). Di nuovo mi chiedo: e l’apprendistato? E il lavoro domestico? E potrei continuare.
Giusta osservazione tecnica: sarà bene inserire nel disegno di legge una disposizione che faccia salvi i regimi speciali.
Perché parlare di “modello danese”, dal momento che ci separano da quel Paese dimensione territoriale, efficacia dei servizi, cultura del lavoro e della società.
Le dimensioni medie di una Regione italiana, che è l’istituzione pubblica competente per il collocamento, l’orientamento e la formazione professionale, non sono diverse da quelle della Danimarca. Il progetto, peraltro, affida totalmente all’autonomia collettiva (“contratto di transizione”) la scelta delle dimensioni territoriali dell’ente gestore dei servizi stessi. Quanto all’efficienza ed efficacia di questi servizi, il progetto punta sulla creazione ex novo di strutture moderne, pungolate da un forte incentivo economico (qui a pagare, se i periodi di disoccupazione si allungano oltre il necessario, non è più Pantalone), proprio con l’idea che esse si dotino fin da subito del know-how più avanzato. Quanto, infine, alla cultura civile e del lavoro, chi ha progetti ulteriori per farla maturare li proponga: sarà certo possibile coniugarli utilmente con questo di cui stiamo discutendo.
Basterebbe forse anche solo decidersi ad applicare la normativa che già abbiamo e che fonda le sue origini nelle riforme del primo governo Prodi, come nel caso dell’obbligo di accettare proposte di formazione e di lavoro.
Qui la mia risposta è, nettamente, “no, non basterebbe”: i nostri servizi pubblici attuali di collocamento, orientamento e formazione professionale sono troppo lontani dallo standard di efficienza minimo necessario perché su di essi possa incardinarsi credibilmente un processo di transizione verso il modello nord-europeo. Ed è ormai da più di un quarto di secolo che diciamo che occorre riqualificarli, e versiamo per questo fiumi di denaro pubblico, oltre che fiumi di inchiostro, con risultati troppo modesti. Rinvio, per il resto alla mia risposta – l’ultima in questo documento ‑ alla tesi analoga sostenuta da Luigi Mariucci.
Gli enti bilaterali, possono essere un utile strumento, ma è evidente che tanto più piccolo è l’ambito (settoriale) di riferimento, tanto minori possono essere le risorse a disposizione.
Poiché l’eventuale inefficienza dovuta a errore di dimensionamento grava sui bilanci delle imprese, si può supporre che queste faranno bene i loro conti nel determinare l’area di competenza di ciascun ente gestore. Non è male, peraltro, nella logica del try and go cui l’intero progetto si ispira, che anche su questo terreno si confrontino scelte diverse, in modo che i risultati possano essere confrontati.
SULLA RIFORMA DEL LICENZIAMENTO PER ESIGENZE DEL DATORE DI LAVORO
Se esiste la scorciatoia del pagamento di una indennità, già prequantificata, perché il datore di lavoro dovrebbe dichiarare che il licenziamento ha natura disciplinare, quando effettivamente ce l’ha?
Perché, se la mancanza grave del lavoratore può essere dimostrata, questo consente all’impresa di risparmiare per intero il firing cost proprio del licenziamento di natura economico-organizzativa (preavviso, indennità di licenziamento e scatto della tariffa bonus/malus nel contributo per il finanziamento dell’ente bilaterale o consortile). Non è poco. Inoltre perché il licenziamento disciplinare ha una finalità essenziale di deterrenza nei confronti dei possibili comportamenti scorretti futuri di altri dipendenti, che andrebbe in parte perduta se la natura sanzionatoria del provvedimento venisse occultata.
Dove si applicherà il nuovo sistema di protezione, vedremo ridursi in maniera esponenziale la conflittualità in giudizio per licenziamento individuale. Forse é questo l’obiettivo, data l’incombenza della recessione e della crisi occupazionale. Ma mi pare una risposta ‘strana’ nel momento ‘sbagliato’.
Non è affatto “il momento sbagliato”, per questa riforma: al contrario, è il momento migliore per farla. Infatti: a) per i lavoratori attualmente in organico, se essi non scelgono di aderire al nuovo regime, non cambia nulla della disciplina del licenziamento: non vi è dunque alcun pericolo che la riforma faciliti il loro licenziamento per crisi dell’impresa; b) viceversa, per i lavoratori che aspirano a entrare o rientrare al lavoro, la situazione di crisi rende difficilissimo l’accesso a un posto di lavoro a tempo indeterminato, nel vecchio regime; c) in questa situazione di crisi, quindi di marcata incertezza circa la situazione futura a breve e medio termine, le imprese che assumono sono molto più disposte a farlo a tempo indeterminato se si offre loro la possibilità di applicare ai nuovi assunti il nuovo regime, piuttosto che se le si costringe a operare nel vecchio. Per riassumere: resta la vecchia tutela rigida contro il licenziamento per l’insider che altrimenti vedrebbe aumentare il rischio di perdere il posto, ma si offre, con il nuovo regime, una prospettiva molto migliore per l’outsider che rischia altrimenti disoccupazione più lunga o precarietà. In altre parole, nella situazione attuale la promozione dei “contratti di transizione” costituisce, dal punto di vista macro-economico, una misura marcatamente anticiclica.
Per i licenziamenti disciplinari nel nuovo regime il progetto prevede che al giudice, quando abbia dato ragione alla persona licenziata, sia riservata la scelta tra la sanzione più grave che coniuga reintegrazione e risarcimento economico, oppure la sola reintegrazione, oppure il solo risarcimento. In realtà, dunque, il progetto depotenzia in qualche misura l’articolo 18 non solo nel caso di motivo oggettivo di licenziamento, ma anche nel caso di motivo soggettivo: ne siamo consci? È questo che vogliamo?
Come è detto nella relazione introduttiva al disegno di legge, questa disposizione è presa di peso dal progetto di legge n. 6835/2000, presentato alla Camera dai deputati Treu, Fantozzi, Salvati, Lombardi e numerosi altri del Gruppo dell’Ulivo il 3 marzo 2000: il riferimento è, in particolare, all’articolo 2 di quel progetto. Non si tratta, dunque, di nulla di demoniaco. Questa disposizione non fa che allineare il nostro ordinamento, per questo aspetto (e limitatamente al licenziamento disciplinare), a quello tedesco, che è pur sempre uno dei più protettivi del mondo.
Perché escludere dal nuovo sistema di protezione sul mercato del lavoro coloro che sono stati licenziati per motivi disciplinari (e il cui licenziamento non sia stato impugnato o sia stato ritenuto valido dal giudice)?
Perché il “contratto di ricollocazione”, sul quale si impernia la garanzia di sicurezza del lavoratore nel nuovo regime, costa abbastanza caro al sistema delle imprese, soprattutto a causa del trattamento di disoccupazione; e offrirlo a chi è stato licenziato per sua colpa sarebbe un premio indebito. L’osservazione critica, comunque, può essere accolta parzialmente, prevedendo che il lavoratore in questo caso abbia accesso ai soli servizi di riqualificazione e ricollocazione al lavoro, fruendo per il resto soltanto del trattamento di disoccupazione ordinaria a carico dell’Inps, secondo il vecchio regime generale.
Mi pare manchi nella proposta un collegamento con il licenziamento collettivo per riduzione di personale.
Non manca: v. il sesto comma dell’articolo 7 del disegno di legge: “Il datore di lavoro che occupi più di 15 dipendenti nell’ambito della stessa provincia, quando il numero dei licenziamenti per motivi economici od organizzativi sia superiore a 4 nell’arco di 120 giorni, è tenuto ad applicare la procedura di informazione ed esame congiunto preventivo in sede sindacale e amministrativa prevista dalla disciplina comunitaria della materia”.
Sotto il profilo comunitario: il Parlamento europeo – che non è a maggioranza di sinistra, come è noto – rifiuta l’idea che si possa scambiare minore flessibilità in entrata con maggiore flessibilità in uscita. Proprio questo scambio, invece, sembra essere l’essenza del progetto.
Non è così: il progetto non scambia affatto la maggiore flessibilità in uscita con una “minore flessibilità in entrata” (quest’ultima resta sostanzialmente immutata: la disciplina dei contratti a termine attiene all’uscita e non all’entrata), bensì scambia la maggiore flessibilità in uscita con un dispositivo di sicurezza ispirato ai migliori modelli nord-europei.
Il varco del lavoro autonomo e delle libere professioni (bastando l’iscrizione all’albo) potrebbe diventare di nuovo un’autostrada per mantenere il dualismo.
Francamente, questo non mi sembra un rischio serio. Se lo fosse, comunque, la strada maestra per contrastarlo consisterebbe in un robusto sfrondamento della giungla degli albi e ordini istituiti nel corso dell’ultimo mezzo secolo: a questo sarei fortemente favorevole.
Pietro Ichino dal sito http://www.pietroichino.it/?p=1509

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giovedì 29 gennaio 2009

Tito Boeri e Pietro Ichino a I nostri soldi


Questa puntata si occupa di lavoro, della crisi del lavoro.
Ma quali possono essere le soluzioni? Il parere di due tra i più noti giuslavoristi italiani: il professor Pietro Ichino, della Statale di Milano e il professor Tito Boeri della Bocconi di Milano.

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mercoledì 28 gennaio 2009

Giuseppe Civati con i pensionati INPS

I consiglieri regionali Giuseppe Civati, Sara Valmaggi, Carlo Spreafico e Antonio Viotto interrogano la Giunta Regionale della Lombardia e l’Assessore competente al fine di intervenire presso l’INPS per conoscere la quantità e gli importi dei conguagli a favore dei pensionati suddivisi per anni di riferimento e classificati per ogni provincia della Lombardia. Inoltre, viene chiesto di intervenire al fine di velocizzare e conseguire un’adeguata gestione corrente del pagamento dei conguagli stessi. Interrogazione
Si rammenta che sul pagamento dei conguagli ai pensionati INPS gli on.li Donata Lenzi, Federico Testa e Lucia Codurelli del Partito Democratico hanno presentato il 12 dicembre 2008 una interrogazione parlamentare al Ministro Maurizio Sacconi, il quale non ha ancora dato risposta al quesito posto dai parlamentari del Partito Democratico.
Successivamente il consigliere regionale Franco Bonfante ha presentato una interrogazione alla Giunta Regionale del Veneto al fine di conoscere le giacenze del prodotto in questione nelle province del Veneto e velocizzare il tempo di pagamento dei conguagli stessi.
Il silenzio del Ministro Sacconi (anche dell'INPS) è molto eloquente e lascia intravedere che le giacenze dei conguagli da porre in pagamento ai pensionati INPS, titolari di una pensione collegata al reddito, non sono normali e rappresentano un prodotto consistente.
La tanto decantata trasparenza, prevista dal disegno di legge delega sulla Pubblica Amministrazione, non è rispettata dal Ministro Sacconi e dall'INPS che è in condizioni di conoscere in poco tempo le giacenze dei conguagli in questione, classificati per anni e per provincia.
In un momento di grave crisi economica che colpisce le famiglie con redditi bassi (pensionati e lavoratori dipendenti) occorre che l’INPS intervenga immediatamente per sostenere i pensionati, i quali vivono un momento di estrema difficoltà nell’affrontare i problemi quotidiani della loro sopravvivenza.
Non è possibile constatare che lo Stato è un cattivo pagatore nei confronti delle imprese con circa 60 miliardi di debiti per i lavori e le forniture ricevute e dei pensionati che aspettano il pagamento dei conguagli scaturiti dal ricalcolo delle pensioni in rapporto al reddito dichiarato.
Gli interventi a sostegno delle persone che vivono il disagio sociale della crisi economica in atto devono contenere l’elemento della velocità per essere efficaci altrimenti non incidono sui bisogni delle persone e sulla domanda di consumo che continua a scendere.
Le previsioni dell’economia non sono rosee in quanto si prevede il calo del PIL di due punti e l’aumento del tasso di disoccupazione all’8,2% con 600 mila posti di lavoro in meno.
A differenza della carta acquisto e del bonus famiglia che hanno incontrato notevoli difficoltà e problemi organizzativi i conguagli se posti in pagamento dall'INPS sono immediatamente esigibili dai pensionati, i quali potranno utilizzarli secondo i propri bisogni.
Famiglia Cristiana attacca il governo e Berlusconi, il quale sembra preoccupato più di Fiorello che passa a Sky e della cessione di Kakà anziché della crisi economica.
Famiglia Cristiana

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domenica 25 gennaio 2009

Con Pietro Ichino contro le nuove BR

Nel processo a carico delle nuove Brigate rosse, in corso a Milano, gli imputati presenti in aula hanno contestato il senatore Pietro Ichino definendolo massacratore degli operai.
Oggi nel mondo contemporaneo occorre coniugare tante cose insieme: la liberta di pensiero, la democrazia, la testimonianza politica, la legalità e tante altre cose. Spesso è molto difficile creare un quadro coerente di valori, di obiettivi e di condizioni sociali. Questo dovrà essere il nostro impegno.
Per quanto riguarda Pietro Ichino non è difficile creare un quadro coerente delle cose che ho indicato in quanto il terrorismo e le relative minacce sono da condannare per chi crede nei valori della democrazia e la testimonianza politica non può essere al servizio dello status quo che non permette di realizzare il cambiamento facendosi carico dei problemi emergenti.
Pietro Ichino ha indicato con il suo impegno politico il cambiamento in un’area pericolosa soggetta a rischi imprevedibili, a minacce ed intimidazioni terroristiche poiché nell'attuale situazione politica la tutela dei lavoratori nel quadro normativo esistente è in pericolo ed occorre reinventarla in un rapporto coerente con l'evoluzione del pianeta e del mondo del lavoro.
Su Facebook è stato costituito da Annalisa Chirico, membro dell’assemblea nazionale dei giovani del Partito Democratico, il gruppo “Pietro Ichino, una battaglia per la libertà di pensiero”, di cui si riporta la presentazione:
“La libertà di passeggiare in bicicletta per le strade di Milano, di uscire all'ultimo momento e di non pianificare il proprio tempo libero.
Di tutto questo Pietro Ichino sente la mancanza, ma, nonostante questo, va avanti nella sua battaglia politica e culturale, convinto che la libertà di pensiero in una società libera non possa essere negoziata o limitata a causa delle "intimidazioni permanenti" perpetrate da terroristi.
Perché in Italia "chi tocca lo Statuto muore", e il professore, bersaglio dei terroristi, lo sa bene.
Perché in Italia il tema del lavoro può costare ancora la vita a dei pensatori liberi, giuslavoristi e politici, che sfidano i tabu del passato e propongono una visione riformista, già ampiamente assorbita in altri Paesi Europei.
Cogliamo l'occasione per rivolgere un pensiero a Ezio Tarantelli, Massimo D'Antona, Marco Biagi e a quanti hanno subito la pena di morte per le idee liberamente professate.
Esprimiamo solidarietà a tutti gli uomini politici che oggi sono impegnati a riformare il lavoro per garantire maggiore tutela e diritti, e rischiano la vita per questo loro impegno.
Diciamo al professore ed ai suoi colleghi di andare avanti. Noi gli siamo vicini.”
“Tornano gli insulti e le minacce contro Pietro Ichino, dichiara Walter Veltroni in un messaggio inviato al gruppo, da parte delle nuove Br. E’ un fatto gravissimo, tanto più grave perché avviene nell’aula di un tribunale. Ad Ichino torno, personalmente e a nome di tutto il Pd, a rinnovare la solidarietà, come rinnoviamo il pieno impegno contro il rischio di un ritorno del terrorismo e di ogni elemento di violenza e intolleranza politica.” Anche Piero Fassino ha scritto al gruppo: “Condivido e apprezzo la sua iniziativa a sostegno del prof. ichino, che ho la fortuna di conoscere da anni."
Donata Gottardi, parlamentare europeo e docente di diritto del lavoro all’Università di Verona, ha dichiarato che “Le minacce a Pietro Ichino sono un fatto gravissimo. Non possiamo pensare che possa riaprirsi la scia di sangue lasciata dai giuristi del lavoro. La ferita del terrorismo non deve riaprirsi. Tra qualche mese ricorderemo che sono passati dieci anni dall’uccisione di Massimo D’Antona. Allora eravamo tutti sconvolti e attoniti, non riuscivamo a capire, a comprendere come poteva essere successo. Dopo pochi anni è stato ucciso anche Marco Biagi. E di nuovo la domanda: perché? Perché un giurista del lavoro rischia la vita quando è chiamato a scrivere in testo normativo le idee che mette a disposizione? E’ un dramma per il nostro Paese e per la democrazia. E’ un dramma per tutti noi.”
Il mio amico Paolo Ferrario, docente di Politica dei servizi sociali, che mi ha informato immediatamente della notizia dichiara che “non è un paese normale quello in cui un professore di diritto deve vivere privato della libertà di movimento - e in tensione quotidiana per le eventuali ritorsioni nei confronti dei suoi familiari - solo perché un gruppo pericoloso di militanti della sinistra eversiva lo ha messo sotto tiro e non vede l'ora di sparagli alle spalle.
Il professor Pietro Ichino e gli assassinati Marco Biagi e Massimo D'Antona, continua Paolo, hanno avuto il merito di interpretare al momento giusto le trasformazioni del mondo del lavoro e proporre proposte adatte a regolarne i diritti nella nuova situazione. C'è tutta una cultura politica, quella della sinistra politica e sindacale, che si è fondata sul lavoro dipendente che dura tutto un ciclo di vita.
Oggi la situazione non è più la stessa: ognuno cumula lavori diversi ed estremamente variabili in cicli estremamente corti. E costoro non hanno tutele e attività di compensazione e salvaguardia nelle fasi di transizione.
Il lavoro di questi giuslavoristi è proprio quello di estendere diritti sociali anche a queste categorie, includendo l'elementare diritto della ricongiunzione pensionistica di fattispecie lavorative di natura giuridica differente.
Questo è il lavoro intellettuale e politico del professor Pietro Ichino.”
“Ed è intollerabile che il nostro sistema politico, conclude Paolo Ferrario, sappia balbettare solo parole si leggera solidarietà a chi deve pagare, lui da solo, i costi umani dell'essere preso di mira da persone che nel loro albero genealogico hanno la sinistra ideologica e massimalista. Occorrerebbe una grande e corale solidarietà nei confronti di Ichino. Spero solo che le voci che gli arriveranno riducano almeno di poco il peso che devono portare lui ed i suoi familiari.”
Il terrorismo non è giustificabile in una società democratica e gli spazi di partecipazione e di espressione libera vadano ampliati sempre di più nelle organizzazioni sindacali, nei partiti politici ed in tutte le altre aggregazioni. Il terrorismo non c'è bisogno di rievocarlo lo si vede concretamente nelle espressioni, nei comportamenti e nel caso di Ichino nelle aule dei Tribunali.
A maggior ragione in uno stato democratico vi sono gli strumenti di partecipazione democratica che possono essere ampliati ma mai sostituiti dalle ideologie terroristiche.
Purtroppo alcune testimonianze ed alcune dichiarazioni irresponsabili alimentano l'odio, la violenza e la lotta violenta. Molti di noi nella vita vissuta fino ad oggi hanno avuto delle occasioni per effettuare delle scelte sbagliate, per diventare mafioso o terrorista eppure molti (ed io tra questi) le hanno respinte con convinzione e tenacia pur vivendo in una situazione di debolezza senza garanzie.
In questi due giorni, dall’apertura del gruppo ad oggi, ho ricevuto in Facebook tanti messaggi di solidarietà al senatore Ichino dopo aver comunicato l’accaduto. Alcune persone hanno risposto (pochi per fortuna) con lo stesso linguaggio dei terroristi ed ho rievocato gli anni 70 e 80, dall’assassinio di Moro al giudici Falcone e Borsellino. Nel rispondere a questi personaggi ho rappresentato che i loro comportamenti verbali offrivano spazio alle nuove brigate rosse ed usavano il loro stesso linguaggio.
Tra i messaggi che esprimevano solidarietà al senatore Ichino desidero citare quello di Benedetto Gugliotta perché semplice, sincero e genuino: “Ichino merita rispetto per il suo coraggio e ammirazione per le soluzioni che propone con grandissima lucidità, trasversalità di pensiero e, ovviamente, competenza. Oltre alle BR, sono comunque troppe le persone che lo ostacolano, ed è vergognoso.”
La solidarietà da esprimere al senatore Ichino non può essere di cortesia che si spegne in un attimo ma di impegno politico e democratico accanto a lui e per lui perché questi uomini di grande valore non debbano essere uccisi dalla solitudine e dalla esclusione.
"Le minacce al prof Ichino, dichiara l'on. Federico Testa, puntano a riportarci al clima di intolleranza e violenza di anni addietro. Proprio nei giorni dell'anniversario dell'uccisione di Guido Rossa, esigono da tutti noi scelte chiare e senza ambiguità a difesa della democrazia e della libertà di espressione, che proprio da siffatti atteggiamenti possono essere messi in discussione."
"Senatore Ichino, solo poche parole per farle sapere che io sono con lei, dichiara Alessandro Cascone." "La società civile, continua Alessandro, trova ragione di sopravvivere grazie a persone come lei e al suo modo di sentire e vedere lo Stato di diritto nel quale, nonostante tutto, viviamo. Tutto cio' che sarà in mio potere fare faro' per tenere le luci ben accese su quanto accaduto a Milano e non consentire all'ignavia dei tanti, politici compresi, di mettere la sordina a quanto accaduto. Sappia che ella è, per una persona come me, uno dei pochissimi fari di speranza sulle tenebre del sistema Italia; sappia che è grazie a persone come lei che persone come me credono che anche in Italia si potrebbe dire yes, we can; per tutto cio' io dico 10, 100, 1000 Ichino."

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Pietro Ichino: Riforma del mercato del lavoro

Si riporta la bozza di relazione del senatore Pietro Ichino sulla riforma del mercato del lavoro e la transizione alla flexsecurity.
“Il nostro Paese deve affrontare una emergenza grave nel suo mercato del lavoro: la situazione di vero e proprio apartheid che divide i 9 milioni di lavoratori protetti (dipendenti pubblici e dipendenti da aziende private cui lo Statuto dei lavoratori del 1970 si applica nella sua interezza), dagli altri 9 milioni di lavoratori sostanzialmente dipendenti, che oggi portano tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno. Due facce della stessa medaglia, entrambe prodotto di un ordinamento il cui alto grado di protettività è inversamente proporzionale all’estensione della sua area di applicazione effettiva.
Un Paese moderno, attento alla comparazione con le esperienze offerte dei Paesi stranieri più civili, dove un simile fenomeno non si manifesta o si manifesta in misura enormemente inferiore, non può rassegnarsi alla perpetuazione del modello del mercato del lavoro duale. Innanzitutto perché quel modello è iniquo: esso genera infatti da una parte posizioni di rendita, dall’altra situazioni di precarietà di lunga durata, per ragioni che hanno poco o nulla a che vedere con il merito delle persone interessate o con esigenze tecnico-produttive. Ma anche perché esso è inefficiente: per un verso, scoraggia l’investimento nella formazione dei lavoratori che ne avrebbero più bisogno, i precari; per altro verso, nella parte più protetta del tessuto produttivo, genera una cattiva allocazione delle risorse umane; per altro verso ancora, espone gli imprenditori più scrupolosi alla concorrenza differenziale di quelli più spregiudicati nell’utilizzo della manodopera al di fuori del tipo-legale del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. A questi motivi – di per sé più che sufficienti per giustificare un intervento incisivo di riforma – se ne aggiunge oggi uno ulteriore: la fase di recessione che stiamo attraversando. È ragionevole prevedere che, se l’ordinamento resta quello attuale, nel biennio o triennio di grande incertezza che ci attende la maggior parte delle centinaia di migliaia di persone che nella crisi stanno perdendo il vecchio lavoro, ne ritroveranno uno, se pure lo ritroveranno, nelle forme più instabili e meno protette. L’incertezza sul futuro porterà ad aumentare la quota del lavoro di serie B o C, in tutte le sue forme, compresa quella del lavoro nero. È proprio in un periodo di crisi economica, cioè di grave incertezza sul futuro, che le imprese sono più riluttanti a compiere nuove assunzioni con garanzie rigide di stabilità; proprio in questo periodo, dunque, è indispensabile trovare il modo di coniugare la flessibilità di cui le imprese hanno bisogno con una nuova forma di protezione della stabilità del lavoro e del reddito dei lavoratori, se vogliamo evitare che si allarghi l’area del lavoro precario.
Una nuova tecnica legislativa ‑ Il disegno di legge qui illustrato si propone rispondere a questa esigenza vitale. Ma si propone di farlo adottando una strategia di riforma e una tecnica normativa in parte nuove nel panorama delle politiche del lavoro sperimentate nel nostro Paese: ‑ non con un improvviso – e improbabile ‑ mutamento drastico della disciplina del mercato del lavoro e dei servizi in esso disponibili, bensì innescando un processo di superamento graduale del vecchio regime, secondo il metodo che proprio per questo tipo di riforma è stato proposto quindici anni or sono da un autorevole economista (G. SAINT PAUL, On the Political Economy of Labor Market Flexibility, intervento alla NBER Macroeconomic Annual, 1993, Cambridge Mass., Mit Press, 1993) e che nel linguaggio dei politologi è indicato con il termine layering: istituire un nuovo ordinamento applicabile soltanto alle fattispecie – in questo caso: i rapporti di lavoro – che vengono a esistenza da un dato momento in poi; ‑ puntando non su di una palingenesi istantanea del sistema, ma sul metodo del try and go, dove la sperimentazione è oggetto di scelta contrattuale tra impresa e sindacato, cui la legge si limita a offrire una guida e una sponda; ‑ scommettendo, sì, sulla superiorità effettiva di un nuovo regime, quello ispirato ai migliori modelli della flexsecurity nord-europea, rispetto al nostro vecchio regime di protezione; ma su di una superiorità che non viene presunta a priori, bensì assoggettata alla verifica della negoziazione tra le parti e della sperimentazione concreta; ‑ puntando, dunque, non sull’imposizione autoritativa, ma sull’accordo spontaneo tra le parti interessate, auspicabilmente destinato - se la scommessa verrà vinta - a estendersi a macchia d’olio dopo le prime esperienze positive; ‑ puntando non, come sempre in passato, sull’impegno di risorse pubbliche, ma sulla capacità del sistema di relazioni industriali di attivare autonomamente, e senza oneri per la collettività, un nuovo gioco a somma positiva nel quale i lavoratori stabili già in organico non hanno alcunché da perdere, mentre i new entrants e le imprese hanno molto da guadagnare; ‑ last but not least, puntando, non su di un improbabile scatto di efficienza dei servizi pubblici di formazione e collocamento al lavoro, ma sull’attivazione da parte delle imprese stesse di nuove strutture di servizi fortemente incentivate (anzi: a ben vedere costrette dal vincolo economico) a essere efficienti.
Alla scelta del metodo del layering si obietta che, in questo modo, ai nuovi rapporti di lavoro verrà ad applicarsi un regime diverso rispetto ai vecchi e che anche questa è una forma di dualismo del tessuto produttivo. E’ vero; ma è anche vero che il nuovo “dualismo” è destinato a essere gradualmente superato, via via che i nuovi assunti sostituiranno i vecchi. Inoltre ‑ e soprattutto ‑ il vecchio sistema duale separa i lavoratori “di serie A”, nettamente privilegiati, da quelli “di serie B e C”, nettamente svantaggiati; con il “contratto di transizione” al nuovo regime, invece, queste “serie” inferiori vengono drasticamente abolite (perché le imprese rinunciano ad assumere con contratti di “lavoro a progetto” e, salve poche eccezioni, con contratti a termine). E non è irrealistico prevedere che, quando il nuovo regime incomincerà a essere concretamente sperimentato, anche i vecchi dipendenti si renderanno conto che il sistema “alla danese” funziona meglio, offre una protezione migliore; e chiederanno ai loro sindacati di negoziare l’estensione del nuovo regime a tutta l’azienda. Dove questo accadrà, il superamento del dualismo sarà immediato.
“Contratto unico a stabilità crescente” ‑ Il progetto cui il disegno di legge si ispira rientra fra quelli comunemente indicati con l’espressione “contratto di lavoro unico a stabilità crescente”, dei quali l’ultimo è quello proposto da Marco Leonardi e Massimo Pallini (Contratto unico contro la precarietà, nel sito web NelMerito.com, 19 febbraio 2008); ricordiamo anche, all’origine, quello proposto dal primo firmatario di questo disegno di legge (Il lavoro e il mercato, Milano, Mondadori, 1996, cap. V), cui si ispirò il disegno di legge 4 febbraio 1997 n. 2075, presentato dal senatore Franco Debenedetti. Tra questi progetti, il più noto, oggi, è quello proposto dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi in un libro pubblicato recentemente (Un nuovo contratto per tutti. Per avere più lavoro, salari più alti e meno discriminazione, Milano, Chiarelettere, 2008); rispetto a questo, il progetto qui delineato si differenzia principalmente per i tre aspetti seguenti: i) il progetto di Boeri e Garibaldi prevede soltanto una flessibilizzazione del rapporto di lavoro subordinato tradizionale nel suo triennio iniziale, ma lascia in vita le vecchie forme di lavoro precario; ii) la flessibilizzazione prevista da Boeri e Garibaldi riguarda soltanto i primi tre anni del rapporto di lavoro, mentre in questo progetto essa si estende ai primi venti; iii) il progetto di Boeri e Garibaldi non collega immediatamente la riforma della disciplina del licenziamento all’attivazione di nuovi ammortizzatori sociali e servizi di riqualificazione; iv) la tecnica proposta da Boeri e Garibaldi adotta anch’essa il metodo del layering, ma per il resto ricalca ancora quella dell’intrervento legislativo tradizionale, che modifica immediatamente e autoritativamente la disciplina ai rapporti di lavoro, mentre il progetto qui presentato condiziona il mutamento della disciplina inderogabile a un’opzione compiuta in sede di autonomia collettiva e a un impegno operativo e finanziario delle imprese coinvolte, sul terreno degli ammortizzatori e dei servizi.
Il “contratto di transizione” – Istituto cardine della riforma qui proposta è dunque il contratto collettivo, previsto dagli articolo 1 e 2 del disegno di legge, col quale un’impresa o un gruppo di imprese e una o più organizzazioni sindacali istituiscono un ente bilaterale a gestione paritetica, oppure un consorzio fra le imprese stesse, al fine di garantire ai lavoratori nuovi assunti, nel caso di perdita del posto, sostegno del reddito e assistenza intensiva nel mercato del lavoro secondo standard non inferiori a quelli indicati nel successivo articolo 3.
La previsione che il passaggio al nuovo regime avvenga per mezzo di un contratto collettivo risponde alla necessità di coinvolgere almeno un sindacato nella costituzione dell’ente cui verrà affidata la gestione dell’indennità di disoccupazione e dei servizi di riqualificazione e ricollocamento. Considerato, tuttavia, che il contratto collettivo stesso non tocca gli interessi dei dipendenti già in forza presso le imprese firmatarie, l’articolo 2 consente che esso venga stipulato anche con una parte soltanto dei sindacati attivi presso le imprese stesse, purché ovviamente non si tratti di “sindacati di comodo” (vietati dall’articolo 17 St. lav.).
Un controllo di rappresentatività della coalizione sindacale stipulante si rende invece indispensabile per la validità dell’eventuale pattuizione collettiva con la quale il nuovo regime venga esteso ai lavoratori già in forza presso l’azienda o le aziende interessate: a questa esigenza risponde il terzo comma dell’articolo 2, ponendo alternativamente a) il requisito del carattere maggioritario acquisito dalla coalizione stessa in una consultazione elettorale che si sia svolta entro il triennio precedente, oppure b) il requisito di una approvazione referendaria da parte dei dipendenti dell’azienda.
Stanti i suoi effetti assai incisivi sulla disciplina applicabile ai rapporti di lavoro, a norma del primo comma dello stesso articolo, il “contratto di transizione”, per poter acquistare efficacia, deve essere pubblicato, mediante deposito presso il CNEL. Da questo adempimento formale dipende e decorre temporalmente la sua efficacia.
Il “contratto di ricollocazione al lavoro” – Secondo istituto cardine della riforma è il contratto che, nel nuovo regime introdotto dal “contratto di transizione”, deve essere offerto al lavoratore dipendente dall’ente bilaterale o consortile preposto alla fornitura dell’assistenza necessaria nei processi di aggiustamento industriale (articolo 3).
Il trattamento di disoccupazione dovuto al lavoratore licenziato, ispirato particolarmente all’esperienza danese (cioè a quella che, per universale riconoscimento, offre ai lavoratori lo standard di sicurezza più elevato su scala mondiale), ammonta al 90 per cento dell’ultima retribuzione per il primo anno e va scalando del 10 per cento in ciascuno dei tre anni successivi al primo. Nel caso più sfortunato, nel quale il lavoratore rimanga disoccupato per tutto il quadriennio, il trattamento ammonta dunque al (90% + 80% + 70% + 60% =) 300% dell’ultima retribuzione annua lorda, cioè a tre annualità; poiché, però, su questa erogazione non grava la contribuzione previdenziale, il costo che ne consegue a carico dell’ente bilaterale o consorzio (quindi a carico delle imprese firmatarie del “contratto di transizione”) è pari a poco più di due annualità di costo aziendale del rapporto.
Al sostegno del reddito si aggiunge, nel “contratto di ricollocazione”, un servizio di assistenza intensiva per la ricerca della nuova occupazione “programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore” (per la quale è presumibile che l’ente bilaterale o consortile attingerà utilmente al patrimonio di know-how accumulato negli ultimi due decenni dalle società che oggi svolgono nel mercato del lavoro attività di outplacement). Inoltre servizi di formazione o riqualificazione professionale mirate a sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e appropriati in relazione alle capacità del lavoratore. Più questi servizi saranno efficienti, più corto sarà il periodo di disoccupazione, quindi più basso il costo per le imprese: ecco un forte incentivo a far funzionare bene il meccanismo, attivabile proprio in quanto i servizi stessi sono “autogestiti” dalle imprese interessate. La qualità dei servizi di riqualificazione erogati dagli enti sarà comunque controllata attraverso la rilevazione sistematica del relativo tasso di coerenza con gli sbocchi occupazionali effettivi (secondo comma dell’articolo 3).
Per converso, il “contratto di ricollocazione impone al lavoratore l’obbligo di porsi a disposizione dell’ente per le iniziative di riqualificazione e avviamento al nuovo lavoro, secondo un orario settimanale corrispondente all’orario di lavoro praticato in precedenza; e assoggetta l’attività da lui svolta nella ricerca della nuova occupazione al potere direttivo e di controllo dell’ente, il quale lo esercita di regola attraverso un tutor cui il lavoratore viene affidato. In questo modo si intende garantire una mobilitazione piena ed effettiva del lavoratore disoccupato, evitandosi il rischio che il robusto trattamento di disoccupazione erogatogli possa rallentarne o addirittura addormentarne l’attività di riqualificazione e di ricerca della nuova occupazione.
Il lavoratore sarà, ovviamente, del tutto libero non solo di accettare o rifiutare il “contratto di ricollocazione”, ma anche di recedere dal contratto stesso prima che sia cessato il suo stato di disoccupazione, senza necessità di motivazione e anche senza preavviso (terzo comma). L’ente bilaterale o consorzio, dal canto suo, sarà legittimato a recedere dal contratto, anche prima che sia cessato lo stato di disoccupazione del lavoratore, nel caso di inadempimento grave da parte del lavoratore o di rifiuto ingiustificato da parte sua di un’opportunità di lavoro o di iniziative di riqualificazione che gli siano state proposte (quarto comma).
Il meccanismo di finanziamento dell’ente – Il finanziamento dell’ente bilaterale o consorzio erogatore dei trattamento economico e dei servizi ai lavoratori licenziati è interamente a carico dell’azienda o gruppo di aziende firmatarie del contratto istitutivo. La determinazione dell’entità del contributo è disciplinata dallo Statuto dell’ente, il quale è vincolato tuttavia a prevedere un meccanismo bonus/malus che premi le imprese più capaci di praticare il manpower planning o comunque una gestione del personale che eviti i licenziamenti, e determini, viceversa, una penalizzazione delle imprese le cui politiche del personale portino a un più frequente ricorso ai licenziamenti (commi primo e secondo). Il finanziamento dell’ente esonera l’impresa dalla contribuzione all’Inps per l’assicurazione contro la disoccupazione (comma terzo). Il quarto comma pone a carico dell’Erario quello che si ipotizza essere il costo medio, a regime, del nuovo sistema di protezione del lavoratore che perde il posto di lavoro, per le sole aziende firmatarie del “contratto di transizione” che in precedenza si collocassero al di sotto della soglia dimensionale necessaria per l’assoggettamento alla tutela reale contro il licenziamento ex art. 18 St. lav.: tale costo medio viene determinato nella misura dello 0,5 per cento del monte-salari relativo ai rapporti assoggettati al nuovo regime. La stima si basa sull’ipotesi di un tasso annuo di licenziamento per motivi economico-organizzativi pari al 5 per cento (un tasso molto più elevato rispetto a quello attuale, anche nel settore delle aziende con meno di 16 dipendenti: ma occorre tenere conto anche degli scioglimenti di rapporto che oggi avvengono per scadenza del termine e che nel nuovo regime dovranno avvenire per recesso dell’imprenditore) e di una durata media del periodo di disoccupazione pari a tre mesi; in questa ipotesi, il finanziamento della differenza fra il nuovo trattamento di disoccupazione e il vecchio richiede, a regime, un contributo medio pari allo 0,375% della retribuzione lorda; il contributo medio ulteriore dello 0,125% deve essere destinato a integrare i finanziamenti regionali e comunitari per le attività di riqualificazione professionale gestite dall’ente bilaterale o consorzio.
La nozione di “lavoro dipendente” e la disciplina del licenziamento applicabile alle nuove assunzioni – Il primo comma dell’articolo 5 individua la ragion d’essere della protezione della stabilità del rapporto nella posizione di “dipendenza economica” del lavoratore, definendo questa come la posizione di chi tragga più di metà del proprio reddito di lavoro complessivo dal rapporto con una determinata azienda, salvo che (essendo la prestazione lavorativa svolta in condizione di autonomia), la retribuzione annua lorda superi i 40.000 euro, oppure il prestatore sia iscritto a un albo o un ordine professionale. Quando dunque il lavoratore si trovi nella posizione di dipendenza così definita, il contratto deve considerarsi sempre stipulato a tempo indeterminato, salvi i casi elencati nel secondo comma dello stesso articolo 5. Più che di “contratto unico”, deve parlarsi a questo proposito di uno standard unico di stabilità, che deve essere rispettato quale che sia il tipo di contratto nel quale la prestazione lavorativa viene dedotta.
La disciplina generale del licenziamento applicabile al rapporto di “lavoro dipendente”, nel nuovo regime di protezione applicabile a seguito della stipulazione del “contratto di transizione”, è dettata dall’articolo 6, che fissa in sei mesi la durata massima del periodo di prova per tutti i rapporti (secondo comma) e – superato tale periodo ‑ limita l’applicazione della vecchia “tutela reale” al licenziamento disciplinare e a quello del quale il giudice ravvisi un motivo determinante discriminatorio o “di mero capriccio” (terzo e quarto comma). Il vecchio apparato sanzionatorio dettato dall’articolo 18 St. lav. viene tuttavia temperato mediante la previsione della possibilità che il giudice – tenuto conto delle circostanze ‑ disponga la sola reintegrazione nel posto di lavoro con azzeramento o riduzione del risarcimento del danno, oppure il solo risarcimento del danno (qui il disegno di legge attinge a quello proposto alcuni anni or sono dai deputati Treu, Fantozzi, Salvati, Lombardi e numerosi altri, 3 marzo 2000 n. 6835: il riferimento è, in particolare, all’articolo 2 di quel progetto). La reintegrazione è comunque esclusa nelle organizzazioni di tendenza e nelle aziende di piccole dimensioni già escluse dall’applicazione della tutela reale (quinto comma).
Il cuore della riforma è costituito dalla nuova disciplina del licenziamento che, non essendo qualificato come disciplinare dal datore di lavoro, e non essendo qualificato dal giudice come discriminatorio o meramente capriccioso, debba considerarsi dettato da motivo economico od organizzativo. Qui il progetto si fonda sul concetto del “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento come perdita attesa dall’imprenditore (nell’ipotesi di prosecuzione del rapporto) superiore a una determinata soglia: se questa è la nozione, la forma migliore di controllo della sussistenza del g.m.o. è costituita dall’imposizione all’imprenditore stesso di un costo pari alla soglia di perdita attesa ritenuta adeguata dal policy maker. Secondo l’impostazione del progetto elaborato dagli economisti Olivier Blanchard e Jean Tirole per incarico del Governo francese (Contours of Employment Protection Reform, relazione elaborata per il Conseil Français d’Analyse Economique, 2003, trad. it. Profili di riforma dei regimi di protezione del lavoro, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2004, pp. 161-211), riteniamo che il criterio di determinazione della soglia debba essere costituito dall’accollo all’impresa che licenzia del costo sociale medio del licenziamento. L’impresa dovrà dunque indennizzare il lavoratore di un danno in cui confluiscono due componenti: il danno normalmente conseguente all’interruzione del rapporto, consistente nella dispersione di professionalità specifica e nella perdita di rapporti personali con colleghi e interlocutori esterni all’azienda, e il danno eventuale correlato al periodo di disoccupazione conseguente alla perdita del posto. In considerazione degli standard europei, riteniamo che la prima componente del danno possa essere coperta da un’indennità dovuta in ogni caso di licenziamento per motivi economico-organizzativi, in ragione di una mensilità di retribuzione per anno di anzianità (secondo comma dell’articolo 7); la seconda componente del danno può e deve, invece, essere coperta dall’assicurazione contro la disoccupazione fornita dall’ente bilaterale o consortile finanziato dalle imprese interessate secondo il meccanismo bonus/malus, di cui si è detto in riferimento agli articoli 3 e 4. La protezione degli interessi immateriali della persona normalmente coinvolti nel rapporto di lavoro è completata dalla facoltà che viene attribuita a chi abbia subito il licenziamento di convertire almeno in parte – fino al massimo di dodici mesi ‑ la suddetta indennità di licenziamento in periodo di preavviso lavorato (primo comma dell’articolo 7). Indennità di licenziamento e periodo di preavviso si dimezzano nelle imprese di piccole dimensioni attualmente non soggette al regime della tutela reale contro i licenziamenti e nel caso in cui il lavoratore licenziato abbia maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità o di vecchiaia (quarto comma).In coerenza con l’opzione per la tecnica di controllo di cui si è detto, ma anche con la massima giurisprudenziale consolidata nel senso dell’insindacabilità delle scelte d’impresa. il quinto comma dell’articolo 7 esclude esplicitamente la motivazione economico-organizzativa del licenziamento dal sindacato giudiziale, salvo ovviamente il controllo circa la sussistenza di motivi discriminatori determinanti o di mero capriccio, quando il lavoratore ne faccia denuncia. Tuttavia, in considerazione della necessità di una tutela rafforzata del lavoratore anziano, lo stesso comma reistituisce a carico del datore di lavoro l’onere della prova circa il giustificato motivo economico, tecnico od organizzativo del licenziamento quando questo riguardi un lavoratore che abbia maturato venti anni di anzianità di servizio. La necessaria coniugazione della nuova disciplina del licenziamento per motivi economico-organizzativi con quella comunitaria è precisata dal sesto comma dell’art. 7: là dove i contratti di lavoro che vengono risolti superino le soglie fissate dalla direttiva (cioè oltre i 4 licenziamenti per motivi economici od organizzativi entro il lasso di 120 giorni), le imprese con più di 15 dipendenti dovranno comunque adempiere l’onere della procedura di informazione ed esame congiunto preventivo in sede sindacale e in sede amministrativa.
Sulla questione di legittimità costituzionale e comunitaria dell’esenzione della motivazione economica del licenziamento dal controllo giudiziale ‑ Quanto al nostro ordinamento costituzionale, il principio sempre ribadito dalla giurisprudenza è quello, testé citato, dell’insindacabilità delle scelte aziendali economico-organizzative. Di fatto questo principio viene molto sovente disapplicato dai giudici del lavoro, i quali finiscono col controllare quelle scelte in modo anche assai penetrante; ma è incostituzionale semmai questa prassi giudiziale: non una norma legislativa ordinaria che – come fa il quinto comma dell’articolo 7 di questo disegno di legge ‑ confermi l’insindacabilità delle scelte imprenditoriali.Quanto all’ordinamento internazionale (O.I.L.) e a quello comunitario, il primo vincola - il secondo si prepara a vincolare in un prossimo futuro - gli ordinamenti nazionali soltanto a disporre un indennizzo a favore del lavoratore che risulti licenziato senza motivo giustificato. Poiché invece il disegno di legge dispone l’indennizzo a favore di tutti i lavoratori che subiscono il licenziamento per motivi economico-organizzativi, questo trattamento non può evidentemente considerarsi deteriore rispetto alle norme sovranazionali citate (per una argomentazione più compiuta su entrambe le questioni rinviamo al saggio su “La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore ordinario in materia di licenziamenti”, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2006, I, pp. 353-374).
Sull’idoneità del controllo giudiziale a proteggere adeguatamente il lavoratore contro i licenziamenti discriminatori o dettati da mero capriccio ‑ Dalla legge n. 125/1991 in poi, la nostra legislazione antidiscriminatoria ha disposto una nuova disciplina dell’onere probatorio in questa materia, che consente sostanzialmente al giudice di accertare la discriminazione vietata sulla base di presunzioni semplici. L’esperienza ormai quarantennale dell’applicazione dell’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori, d’altra parte, ha mostrato quanto i giudici del lavoro siano capaci di individuare in modo rapido ed efficace la discriminazione antisindacale nei luoghi di lavoro: tutto induce pertanto a ritenere che essi ‑ quando venga a cadere il diaframma oggi costituito dall’onere della prova a carico dell’imprenditore circa la sussistenza del giustificato motivo oggettivo ‑ saranno altrettanto capaci di individuare la discriminazione per motivi di sesso, di orientamento politico o religioso, di razza, di etnia, di età, o di disabilità, o di mero capriccio. A quest’ultimo proposito va osservato che la nostra giurisprudenza costituzionale da tempo considera anche il mero capriccio come motivo illecito di una scelta imprenditoriale: orientamento che trova puntuale riscontro nel quinto comma dell’articolo 7 del disegno di legge.
Occorre peraltro ricordare anche che, nella grande maggior parte dei casi giudiziali in materia di licenziamento per motivo oggettivo, neppure la difesa del lavoratore allega che si tratti di licenziamento discriminatorio o capriccioso: tutti questi casi possono pertanto essere utilmente sottratti al business forense e all’alea del giudizio, lasciando che sia il costo dell’operazione a filtrare le scelte dell’imprenditore.
Convenienza della transizione al nuovo regime per i new entrants – Gli ultimi dati statistici disponibili dicono che oggi oltre metà degli ingressi nel tessuto produttivo avvengono con rapporti di lavoro a termine; e che una parte considerevole dei giovani lavoratori che incominciano a lavorare in questo modo hanno gravi difficoltà, nel vecchio sistema, a conquistare una posizione stabile e protetta. Il nuovo regime di protezione cui dà luogo il “contratto di transizione” offre invece a tutti coloro che vengono ingaggiati in posizione di lavoro dipendente, da quel momento in avanti, un contratto a tempo indeterminato recante una protezione piena della salute e integrità fisica del lavoratore, nonché contro qualsiasi discriminazione, una congrua assicurazione per la malattia, un regime di protezione della continuità del rapporto che li colloca su di un piano di parità con tutti gli altri neo-assunti, senza la prospettiva della necessità di un rinnovo del contratto di lì a pochi mesi, con la prospettiva – invece – che se il rapporto procede bene esso andrà progressivamente stabilizzandosi col crescere dell’anzianità di servizio, per effetto del corrispondente aumento del costo del licenziamento per l’impresa. Con la prospettiva, infine, che, se le cose invece andranno male e il rapporto dovrà cessare per motivi economici od organizzativi, il licenziamento sarà accompagnato in ogni caso dal pagamento di un congruo indennizzo e da una copertura assicurativa contro la disoccupazione di livello nordeuropeo.
C’è chi, a proposito di questo progetto, ha parlato di “precarizzazione di tutti i new entrants”, come se l’unica alternativa al lavoro “precario” fosse la forma di protezione introdotta con l’articolo 18 dello Statuto del maggio 1970. Ma non è così: in nessun altro Paese europeo vige un regime di reintegrazione automatica nel posto di lavoro a seguito del controllo giudiziale del giustificato motivo economico-organizzativo del licenziamento; eppure nessuno potrebbe seriamente sostenere che i lavoratori francesi, spagnoli, olandesi, britannici, danesi o tedeschi operino tutti in un regime di precarietà. È un fatto, comunque, che in tutte le occasioni in cui abbiamo sottoposto a gruppi di giovani in procinto di entrare nel mercato del lavoro la possibilità di scelta tra il regime attuale di protezione “duale” e il regime ispirato al modello della flexsecurity nord-europea, la preferenza si è manifestata in modo univoco per questo secondo modello.
Se ne deve concludere che sussiste un forte interesse dei new entrants a poter accedere al (o rientrare nel) tessuto produttivo in un contesto di flexsecurity, piuttosto che in un contesto di protezione “duale”, quale quello che caratterizza oggi il nostro sistema.
Convenienza della transizione al nuovo regime per le imprese ‑ Quanto all’interesse delle imprese a impegnarsi con il “contratto di transizione”, abbiamo visto come, nell’ipotesi più pessimistica circa la durata del periodo di disoccupazione conseguente al licenziamento – durata massima di quattro anni ‑, il costo complessivo del trattamento dovuto al lavoratore sarebbe di poco superiore a due annualità di prosecuzione del rapporto: oggi questo è considerato, generalmente, un costo congruo, e al tempo stesso sostenibile, per l’incentivazione all’esodo di un dipendente da parte di un’impresa cui si applichi l’articolo 18 St. lav. Il modello nord-europeo cui il progetto si ispira, però, coniugando strettamente il sostegno del reddito del lavoratore con iniziative efficaci di riqualificazione mirata e assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione (efficaci perché gestite da chi ha un forte incentivo economico a conseguire la ricollocazione del lavoratore più rapida possibile), consente di fare affidamento su una durata media dei periodi di disoccupazione molto inferiore a quattro anni: quanto più, dunque, l’ente bilaterale o consorzio saprà essere efficiente, tanto più le imprese interessate godranno di un vantaggio rispetto ai costi attuali dell’aggiustamento industriale. Per esempio, se si riuscirà a contenere la durata media dei periodi di disoccupazione entro i tre mesi – obiettivo, questo, ragionevolmente perseguibile ‑, il costo medio della sostituzione o soppressione del posto di un dipendente con sei anni di anzianità di servizio sarà pari a 8,7 mensilità della sua retribuzione: sarà dunque di molto inferiore rispetto al firing cost oggi comunemente ritenuto accettabile, in un’impresa sana.
Vero è che la convenienza del “contratto di transizione” per le imprese medio-grandi deve essere valutata anche in riferimento ai rapporti di lavoro precario cui esse, con il contratto stesso, rinunciano: in particolare, i rapporti di “lavoro a progetto”, o comunque di collaborazione autonoma continuativa, oggi consentono la soppressione del posto o la sostituzione del lavoratore con un costo ridottissimo o nullo per il datore di lavoro. Qui la convenienza, nella logica della riforma, deve nascere da una combinazione di incentivi positivi e negativi, dove l’incentivo positivo è costituito dall’aumento a 6 mesi della durata del periodo di prova e dal costo assai ridotto del licenziamento del lavoratore con anzianità di servizio di soli uno o due anni; l’incentivo negativo, viceversa, deve essere costituito da una applicazione rigorosa e generalizzata dei limiti di durata complessiva dei contratti a termine, dei limiti assai restrittivi posti dalla legge Biagi per il “lavoro a progetto” (richiamiamo in proposito particolarmente le circolari del Ministero del Lavoro n. 16/2006 e n. 4/2008) e del divieto di simulazione del lavoro autonomo anche nella forma della “partita Iva”.
Quanto alle imprese di piccole dimensioni, alle quali oggi l’articolo 18 St. lav. si applica soltanto per i licenziamenti discriminatori, l’ultimo comma dell’articolo 4 prevede che lo Stato si faccia carico di un contributo in favore dell’ente bilaterale o consortile di entità mediamente pari allo 0,5% delle retribuzioni dei nuovi assunti alle dipendenze di imprese con meno di 16 dipendenti: in questo modo resteranno a carico di queste ultime soltanto il costo degli eventuali difetti di funzionamento dell’ente. Tale misura di sostegno rende vantaggioso il nuovo regime anche per le piccole imprese, riducendone drasticamente il costo e parificando la qualità dei rapporti di lavoro da esse offerti nel mercato, sotto il profilo della protezione della continuità del lavoro e del reddito, rispetto a quella delle imprese di maggiori dimensioni.
Nuovo regime della contribuzione previdenziale – Il contributo per l’assicurazione pensionistica oggi si aggira intorno al 31,5 per cento della retribuzione (escluso il trattamento di fine rapporto) per i lavoratori subordinati regolari, che nel settore privato sono circa 12 milioni. Lo stesso contributo grava invece oggi nella misura del 24,70 per cento sui compensi dei collaboratori autonomi continuativi e dei lavoratori a progetto, che sono circa un milione. Se gli obiettivi devono – come riteniamo debbano – essere quelli della parificazione delle due aliquote e al tempo stesso di una riduzione del “cuneo” previdenziale tra costo del lavoro e reddito netto, occorre che il punto di incontro venga trovato su di una aliquota intermedia, collocata un poco al di sotto della media ponderata tra le due aliquote originarie. Questo criterio ci porta a proporre la fissazione della nuova aliquota, per tutti i nuovi assunti nel nuovo regime, al 30 per cento della retribuzione, come attualmente in Francia e *** [integrare e verificare]. All’Erario, se ve ne saranno le disponibilità, il compito di contribuire a sua volta alla riduzione del “cuneo” con una riduzione dell’imposta almeno sui redditi di lavoro più bassi.
Copertura finanziaria – L’aggravio complessivo derivante per l’Erario dal contributo posto a suo carico a norma dell’ultimo comma dell’articolo 4 sarà, nella fase iniziale, ridottissimo, poiché è presumibile che nel primo periodo non saranno molti i “contratti di transizione” stipulati dalle imprese di minime dimensioni: si tratterà dunque di un costo suscettibile di essere ampiamente coperto mediante il maggior gettito prodotto dal prevedibile aumento delle assunzioni nel settore delle imprese di maggiori dimensioni, dove invece si può prevedere una diffusione più rapida dell’esperimento. Nell’ipotesi del tutto astratta in cui il nuovo regime fosse, invece, da subito applicabile a tutti i nuovi assunti delle imprese con meno di 16 dipendenti (le quali oggi danno lavoro a poco più di 3 milioni di lavoratori), l’onere complessivo nel secondo anno sarebbe stimabile in circa mezzo miliardo di euro annui; basterebbe, in tal caso un aumento di circa 250.000 posti di lavoro regolari, prodotto dalla diffusione del nuovo regime nell’area delle imprese maggiori, per produrre un aumento del gettito fiscale idoneo a coprire quel maggior onere. Sono queste le considerazioni su cui si basa la previsione negativa, contenuta nell’articolo 9, circa la necessità di una modifica del bilancio al fine della copertura finanziaria specifica della voce di spesa di cui all’ultimo comma dell’articolo 4.”
Pietro Ichino
Bozza del disegno di legge

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