sabato 10 gennaio 2015

Renzinomics: consumi, investimenti, lavoro e spesa

Articolo di Michele Salvati pubblicato sul Corriere della Sera il 9 gennaio 2015
È invalso l’uso di aggiungere il suffisso «nomics» al nome del capo dell’esecutivo per indicare la politica economica adottata da un Paese, e così, ad esempio, si parla di Obanomics e Abenomics per gli Stati Uniti e il Giappone. Possiamo parlare di Renzinomics per l’Italia? Possiamo farlo senz’altro: siamo all’inizio del 2015, è passato quasi un anno dalla nomina di Renzi a presidente del Consiglio e i tratti di fondo della sua politica economica dovrebbero essere evidenti. Per valutarli, però, è necessaria un’avvertenza. In tutti i Paesi democratici il rispetto degli equilibri politici e la necessità di un continuo consenso elettorale pongono forti limiti a quanto è possibile fare al fine di perseguire un disegno efficace di politica economica, e in questo non c’è differenza di principio con l’Italia, ma solo di intensità e di contingenza storica. Ma gli Stati Uniti e il Giappone, per limitarci agli esempi di più sopra, sono Stati pienamente sovrani, in grado di adottare le politiche monetarie e fiscali che ritengono opportune. Non è così per l’Italia. I trattati e gli accordi della moneta unica, nonché le decisioni prese dalle istituzioni europee preposte alla loro attuazione, creano per gli Stati membri vincoli che uno Stato sovrano non conosce: c’è una pallina in più che il giocoliere nazionale deve tenere sospesa in aria, non solo il disegno di politica economica e il consenso politico interno, ma anche il rispetto degli accordi presi e una strategia per interpretarli in modo favorevole ai suoi interessi. E purtroppo le traiettorie si intersecano, le palline rischiano di urtarsi e cadere a terra.
In questo contesto difficile, il governo non è riuscito a dare agli italiani una spiegazione convincente di quanto andava facendo, in parte per fretta e improvvisazione, ma soprattutto perché una narrativa seria avrebbe dato del nostro Paese un’immagine assai più cupa di quanto Renzi riteneva conveniente dare ai cittadini. Tuttavia, se si valutano i provvedimenti presi e quelli abbozzati — la Renzinomics, appunto — la narrativa emerge e con essa una consapevolezza adeguata della gravità dei problemi in cui siamo immersi. Emerge la critica dell’analisi ordo-liberale tedesca e delle sue prescrizioni di austerità, e un orientamento assai più vicino ai suggerimenti d’oltreatlantico: il tutto nella fedeltà al progetto europeo e nel rigetto di suggerimenti demagogici di uscita dalla moneta unica. Ma emerge anche la consapevolezza dei guasti che affliggono la nostra economia e dunque della necessità di un programma ambizioso e di lunga lena di riforme strutturali, sia perché lo richiede comunque una ripresa dello sviluppo su basi solide, sia, nell’immediato, come strumento di negoziazione in Europa. Al di là dello stile di leadership , c’è una evidente continuità tra ciò che fa Renzi e ciò che Monti e Letta hanno fatto o dichiarato di voler fare: la «piccola» differenza è che l’attuale governo può investire nel suo disegno una forza politica assai maggiore (…al momento) dei governi precedenti.
Quattro, mi sembra, sono i pilastri della Renzinomics.
1. Interventi a sostegno di domanda e consumi (i tanto criticati 80 euro ne sono un esempio) cui far seguire politiche a sostegno degli investimenti (riduzione Irap e politiche fiscali nella stessa direzione).
2. Riforma della Pubblica amministrazione e cambiamento della composizione della spesa pubblica, sia per aumentare l’efficacia e l’efficienza della prima, sia per liberare risorse da utilizzare a sostegno della ripresa economica e a difesa dei ceti più deboli.
3. Una revisione profonda del mercato del lavoro (Jobs act), per renderlo più efficiente e adatto alla competizione internazionale, ma anche più equo se si troveranno risorse adeguate.
4. Riforme elettorali, istituzionali e costituzionali. Per materia queste non fan parte dell’economia e dunque della Renzinomics. Ma lo scopo è ottenere un governo più durevole ed efficace, in grado di affrontare un compito di ricostruzione economica del Paese che dovrà estendersi ben oltre questa legislatura.
Ognuno dei pilastri, e delle singole misure che contengono, sono stati criticati, non di rado a ragione. Ma si è trattato quasi sempre di critiche a singoli alberi, non alla foresta, non al disegno complessivo e all’interazione tra le sue parti, alle tre esigenze che il governo deve soddisfare congiuntamente: una politica economica improntata alla riparazione dei guasti strutturali del Paese, un continuo consenso politico, condizioni di forza per ottenere un indirizzo orientato allo sviluppo in Europa, il tutto con le deboli risorse economiche e organizzative di cui il governo ora dispone. Soddisfarle tutte e tre insieme implica che nessuna delle tre, presa singolarmente, è soddisfatta al massimo grado: è questo che talora dimenticano i critici a singole misure.
Il presidente del Consiglio, archiviato l’incidente (?) del decreto fiscale, dovrà affrontare la difficile prova dell’elezione del capo dello Stato e poi un lungo periodo di attesa per ultimare la prima tappa del disegno riformistico che ha impostato, un periodo in cui il consenso che gli arride è quasi sicuramente destinato a calare, a meno di una improbabile ripresa dell’occupazione.
Se la ricostruzione della Renzinomics che ho abbozzato è corretta, a me sembra condivisibile quanto basta per augurargli di poterla continuare… senza troppi incidenti.

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lunedì 5 gennaio 2015

Gli effetti positivi del Jobs Act

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 3 gennaio 2014
La riforma del mercato del lavoro ha suscitato incertezze e timori: ma il contratto a tutele crescenti e la protezione universale contro la disoccupazione sono un passo avanti necessario per poter superare la risi.
In meno di un anno, il Jobs act è passato dal libro dei desideri alla Gazzetta Ufficiale. Lo scarno sommario di punti «formulato insieme ai ragazzi della segreteria» ( eNews di Matteo Renzi, 8 gennaio 2014) ha dato luogo ad un’ampia riforma, approvata con la legge delega dello scorso 10 dicembre. Il cammino è stato difficile e turbolento: aver tagliato il traguardo è un indubbio segnale positivo. Verso l’Europa, i mercati finanziari e gli investitori stranieri. Ma soprattutto verso l’interno. Il nostro mercato del lavoro può ora diventare più efficiente e più equo.
Come tutti i grandi cambiamenti, il Jobs act ha suscitato incertezza e qualche timore nell’opinione pubblica e dure critiche da parte sindacale. È perciò utile richiamare alcuni elementi di fatto di questa riforma e interrogarsi sui suoi probabili effetti.
Iniziamo col ripetere che per chi oggi ha un posto a tempo indeterminato non cambierà nulla. Il cosiddetto contratto a tutele crescenti (uno dei piatti forti della riforma) si applicherà solo ai nuovi rapporti di lavoro e offrirà a moltissimi precari, soprattutto giovani, la possibilità di assunzione in forma stabile. Non un posto fisso garantito, a prova di licenziamento. Ma un impiego senza scadenza pre-fissata, questo sì.
Rispetto alla situazione attuale, sarà un grande miglioramento. Con una prospettiva temporale lunga i giovani possono impostare piani di carriera e di vita che non sono neppure immaginabili quando si è costretti a ragionare di mese in mese.
La revisione degli ammortizzatori sociali (altro pilastro fondamentale della riforma) offrirà dal canto suo quella protezione universale contro la disoccupazione che l’Italia non ha mai avuto. È davvero strano che le dispute sul Jobs act in seno al Pd e ai sindacati abbiano trascurato questo aspetto, che dagli inizi del Novecento è stato al centro dei programmi e delle lotte politiche di tutte le sinistre europee. La Naspi (Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego) corrisponderà a chi perde il lavoro una indennità pari a circa il 75 per cento dello stipendio per un massimo di 24 mesi. Verranno inoltre sperimentati due sussidi aggiuntivi: l’assegno di disoccupazione (Asdi) per quei lavoratori con carichi di famiglia e senza altre fonti di reddito che non sono ancora riusciti a ricollocarsi alla scadenza della Naspi; e un assegno (chiamato Dis-Coll) per i collaboratori a progetto che restano senza lavoro.
Quando saranno a regime, gli ammortizzatori sociali italiani diventeranno i più inclusivi e per molti aspetti i più avanzati d’Europa. Certo, serviranno risorse adeguate. Ma nel bilancio pubblico i margini ci sono, soprattutto se si riuscirà a riportare la Cassa integrazione alle sue funzioni «fisiologiche».
Per una valutazione completa del Jobs act bisogna ovviamente aspettare i decreti delegati mancanti. Occorre varare un codice semplificato del lavoro, che sfrondi l’attuale pletora di forme contrattuali (in particolare le «co-co-pro» fasulle). E serve al più presto un’Agenzia nazionale che coordini i servizi per l’impiego e la formazione professionale.
Ma veniamo ai possibili effetti del Jobs act. Crescerà l’occupazione? Questo è ciò che importa agli italiani. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha azzardato una stima: 800 mila posti di lavoro in tre anni. Se così accadesse, sarebbe un bel successo. Tutto dipenderà però dal comportamento delle imprese e, più in generale, dall’andamento dell’economia.
Superato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le piccole aziende salteranno il fatidico «fossato» dei 15 dipendenti e ne assumeranno altri utilizzando il contratto a tutele crescenti? Con maggiore flessibilità e forti incentivi fiscali, le imprese medie e grandi smetteranno di delocalizzare e torneranno a creare posti di lavoro stabili in Italia? Arriveranno gli investitori stranieri? E, soprattutto, ripartiranno gli ordini e i consumi? Le risposte a queste cruciali domande non dipendono solo dall’azione di governo: si tratta in ultima analisi di scelte e comportamenti dei vari soggetti economici. Il Jobs act va perciò visto come una condizione necessaria, ma non sufficiente per superare la crisi e far crescere il lavoro.
Agli inizi di un nuovo anno, è giusto mostrare un po’ di ottimismo. Grazie al Jobs act, possiamo dire che il bicchiere delle riforme ha cominciato a riempirsi. Non aspettiamoci miracoli; piuttosto, come ha giustamente detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, «ciascuno faccia la sua parte al meglio». Se la legge delega verrà attuata in tutti i suoi tasselli, è lecito però sperare che nel 2015 l’assillo della disoccupazione allenti la sua morsa, soprattutto sui giovani e le fasce più fragili della nostra società. Con l’aria che tira, sarebbe una realizzazione non da poco.

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