sabato 28 dicembre 2013

Anna Maria Bigon: l’impegno nelle comunità locali

Anna Maria Bigon è avvocato e sindaco del comune di Povegliano Veronese per la seconda legislatura. Nel libro “C’è chi dice no”, Chiarelettere, 2013, gli autori, Di Polito Stefano, Robiati Alberto, Rossi Raphael, citano il Sindaco, Anna Maria Bigon, tra gli esempi dei comuni virtuosi e degli amministratori pubblici etici che si sono distinti per la gestione efficiente, efficace e trasparente dei servizi e delle attività amministrative rilevanti (mobilità, rifiuti, acqua, istruzione). Il giornalista Luca Martinelli nel suo libro “Le conseguenze del cemento”, Altreconomia, 2011, dedica una pagina ad Anna Maria Bigon, la quale “è l'unico primo cittadino d'Italia ad essere famoso non per aver inaugurato qualcosa, ma per averla rasa al suolo. In questo corto d'autore è protagonista la scuola elementare del paese, costruita dalla ditta incaricata con calcestruzzo di scarsa qualità."
Anna Maria Bigon è una donna concreta e riflessiva che non si fa coinvolgere dalle teorizzazioni astratte che non portano a nulla, è determinata e disponibile al dialogo e possiede un grande amore per Povegliano e per i suoi cittadini. Nell’intervista che ho realizzato Anna Maria Bigon si è posta in modo sincero, come le persone che non hanno nulla da nascondere, ed ha espresso le sue opinioni senza dietrologie, le quali sono utilizzate dai politici navigati per apparire diversi da quello che realmente sono. Il suo obiettivo è quello di migliorare la qualità della vita dei cittadini di Povegliano.
I comuni rappresentano il primo anello della catena istituzionale dove si realizzano i rapporti con i cittadini. Per un Sindaco, considerata la complessità dei problemi, non è facile essere riconfermato. Lei come ci è riuscita? Quali progetti sono stati apprezzati nel suo precedente mandato di Sindaco?
Credo che il mio paese mi apprezzi per quello che sono e per come sono. La semplicità e la competenza sono stati fondamentali caratteristiche per una riconferma.
Sono spesso a contatto con i miei cittadini, vivendo come loro, e per loro, il paese.
Le opere ed i progetti effettuati sono stati seguiti direttamente anche da me supportando, credo, gli uffici, in un modo corretto.
Ritengo che i progetti maggiormente apprezzati siano stati quelli relativi all’ampliamento della scuola elementare, la messa in sicurezza degli attraversamenti e del centro storico, la riqualificazione di una parte delle risorgive con percorsi pedonali.
E’ trascorsa metà legislatura del suo incarico. Che cosa ha realizzato e a quali problemi ha rivolto la sua attenzione?
In questi mesi è stata realizzata la ristrutturazione e messa a norma della palestra e degli spogliatoi della scuola elementare, il centro diurno per anziani, che sta per essere ultimato ed a breve verrà inaugurato. Sono stati realizzati gli orti comunali e il progetto lavoro a favore dei giovani, dei disoccupati e degli anziani pensionati ed effettuati i pagamenti dei crediti delle imprese per un importo di circa 1 milione di euro senza incidere sul patto di stabilità.
Prosegue inoltre il progetto di riqualificazione ambientale del territorio. Ma molti altri progetti in campo sociale e culturale sono stati realizzati.
La mia attenzione è da sempre rivolta verso una migliore qualità di vita.
Quali progetti intende affrontare prima della conclusione della legislatura?
Continuerà la ristrutturazione e la messa a norma degli edifici pubblici, prima le scuole e verrà ristrutturata anche la facciata del municipio. Altri progetti sono in previsione. Ma il messaggio e la linea politica intrapresa dall’amministrazione è la cosa più importante.
Con la fine della mia amministrazione Povegliano avrà un paese a misura d’uomo con un livello di qualità della vita (relazioni) elevato.
Tutto quello che abbiano fatto è stato rivolto al “centro commerciale naturale” ed alla persona:
- servizi in centro (quali: scuole elementari e medie, municipio, centro diurno, biblioteca, asilo nido e scuola materna, museo e villa);
- riqualificazione dei fabbricati storici che sono rimasti di proprietà pubblica;
- limitazione delle urbanizzazioni esterne preferendo la riqualificazione del centro;
- riqualificazione ambientale.
Ha realizzato rapporti di collaborazione con i comuni limitrofi per fare fronte a problemi comuni con maggiore efficacia ed efficienza? Ci può dare qualche esempio?
Siamo stati parte promotrice con altri comuni per la realizzazione delle piste ciclabili, pesatura dei rifiuti in relazione alla raccolta differenziata e per il diritto all’acqua pubblica.
Dobbiamo guardare oltre al limite territoriale, ma non è semplice confrontarsi e risolvere i problemi insieme.
Nell’attuale momento quali difficoltà incontra un’amministrazione comunale di piccole dimensioni nella gestione del territorio?
In questo momento di grave crisi economica e sociale con le conseguenti difficoltà finanziarie per gli enti locali le cose più importanti risultano essere i contributi regionali e statali. Qui giocano un ruolo fondamentale i nostri consiglieri regionali e i nostri parlamentari.
Perché avete scelto di costituire il Nucleo di valutazione anziché l’Organismo indipendente di valutazione della performance che offre più garanzie in materia di indipendenza ed autonomia e di professionalità per la scelta dei membri dell’organo stesso?
Abbiamo ritenuto che il Nucleo possa rispondere maggiormente alle esigenze di un piccolo comune con una popolazione inferiore ai 15.000 abitanti.
In prospettiva potrebbe essere valutata la costituzione dell’Organismo indipendente di valutazione in associazione con gli altri comuni limitrofi. Alcuni comuni già lo fanno. Stiamo esaminando la normativa e soprattutto i vincoli burocratici che la stessa pone.
Quali strumenti manageriali, previsti dal D. Lgs. n. 150/2009 (trasparenza, sistema di misurazione e valutazione della performance ecc), ha introdotto nel comune di Povegliano al fine di misurare, valutare e migliorare la performance?
Povegliano, pur essendo un comune al di sotto dei 15.000 abitanti e, quindi, non obbligato ad adottare alcuni strumenti di pianificazione, ha da sempre adottato il P.E.G. (Piano esecutivo di gestione) e P.D.O. (Piano dettagliato degli obiettivi) per misurare efficienza, efficacia ed economicità della struttura amministrativa.

Leggi tutto...

giovedì 26 dicembre 2013

Il Job Act di Matteo Renzi

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 21 dicembre 2013
Il cosiddetto Job Act sarà un importante banco di prova per Matteo Renzi. Si tratterà del primo esercizio programmatico concreto, dal quale potremo farci un’idea più precisa del «riformismo renziano sia nei metodi sia nei contenuti.
Data la drammatica situazione economica, il tema dell’occupazione era quasi obbligato. Ma fare proposte ambiziose, originali e insieme dotate di un certo grado di praticabilità politica non sarà certo facile. Avendo scelto di usare un’espressione inglese, Renzi farebbe bene a tener ben presente proprio l’esperienza anglosassone.
Gli Stati Uniti di Obama e il governo Cameron offrono infatti due modelli quasi speculari di come affrontare la sfida dell’occupazione dal punto di vista politico-strategico. Nel settembre 2011, Obama annunciò con la grancassa un piano molto ambizioso (chiamato, appunto, American Jobs Act: attenzione al plurale) per creare milioni di nuovi posti di lavoro.
I piatti forti del pacchetto erano la riforma dell’assicurazione contro la disoccupazione, crediti d’imposta per le nuove assunzioni, riduzione dei contributi sociali, un programma di investimenti straordinari in infrastrutture, incentivi per le piccole imprese.
Il provvedimento sarebbe costato circa 450 miliardi di dollari: una cifra molto elevata, ma grazie alla quale, secondo il presidente, «milioni di americani sarebbero tornati al lavoro e sarebbero arrivati più soldi nelle tasche di tutti i lavoratori».
Proprio per i suoi costi e per le sue eccessive ambizioni il progetto si impantanò immediatamente all’interno del Congresso e alla fine Obama si è dovuto accontentare di poco: qualche incentivo fiscale per i nuovi assunti e un nuovo schema per finanziare le piccole imprese.
Il Regno Unito ha seguito un metodo diverso per affrontare il tema lavoro: non un «Masterplan» onnicomprensivo e radicale, ma una serie di Employment Reviews revisioni delle politiche per l’impiego), volte a realizzare concretamente tre obiettivi strategici fissati da un conciso documento ad inizio legislatura: flessibilità, efficienza, equità. In questo modo sono state però introdotte varie misure innovative.
Muovendosi in largo anticipo rispetto alle raccomandazioni Ue, lo Youth Contract («contratto giovani») ha ad esempio offerto in due anni 500 mila opportunità di lavoro o formazione a giovani fra i 18 e i 24 anni, mentre il Workprogramme («Programma lavoro»), introdotto nel 2011, ha aiutato oltre 200 mila disoccupati di lungo corso a ritrovare lavoro.
Sul piano della strategia politica, la differenza fra il modello americano e quello inglese è chiarissima. Obama voleva far colpo con un progetto «di rottura», in vista della campagna per la rielezione che avrebbe preso avvio all’inizio del 2012.
Il Congresso ha bocciato gran parte del Jobs Act , ma Obama ha vinto le elezioni, anche grazie ai suoi annunci sul fronte del lavoro. Forte del successo elettorale e del patto di coalizione, il governo Cameron-Clegg ha scelto un approccio meno roboante, ma più efficace in termini di risultati, ponendosi in un orizzonte di legislatura.
Le revisioni annuali sono un importante momento di confronto politico sulle riforme fatte e su quelle annunciate, ma nessun leader si presenta come taumaturgo. Che formula adotterà Renzi per sottoporsi al giudizio degli elettori?
La tentazione di far colpo con proposte di rottura e provocazione sarà forte: il neosegretario è in cerca di visibilità e popolarità, nel prossimo anno ci sarà almeno una conta elettorale rinnovo del Parlamento europeo) e la disoccupazione è una delle prime preoccupazioni delle famiglie italiane.
In questo momento al nostro Paese sarebbe tuttavia più utile una strategia all’inglese. Facciamo bene il punto sulla riforma Fornero, realizziamo al meglio la garanzia-giovani, attuiamo pienamente l’Aspi, interroghiamoci su come promuovere nuove attività economiche ad alta intensità di lavoro.
E definiamo su questa base un’agenda di cambiamenti pragmatici e realistici. Invece di un «Act» alla Obama, Renzi elabori insieme alla sua squadra un più modesto, ma molto concreto policy paper in stile inglese. Con un orizzonte temporale disteso e credibile, confermando così il suo impegno non solo per le riforme, ma anche per la governabilità.

Leggi tutto...

lunedì 23 dicembre 2013

Il lavoro che cambia

Articolo di Ivan Scalfarotto pubblicato su Europa il 21 dicembre 2013
Le aziende aprono e chiudono con molta più rapidità di un tempo: quali garanzie al lavoratore nel passaggio da un impiego all'altro?
Cerchiamo di capire su cosa giri questa famosa e antichissima polemica sull’articolo 18. La questione, messa giù brutalmente, è se consentire agli imprenditori di assumere senza il vincolo dell’inamovibilità sia garanzia di un aumento dell’occupazione. Comprendere, in altre parole, se i datori di lavoro sarebbero più disposti ad assumere se sapessero di poter liberamente licenziare. Finora si è molto ragionato sul fatto che già oggi la maggior parte dei lavoratori non viene assunta con un contratto di lavoro a tempo indeterminato di quelli coperti dall’articolo 18. I contratti atipici, nonostante la stretta della legge Fornero, sono ancora lo strumento con il quale si entra più facilmente nel mondo del lavoro. E ovviamente bisogna tener conto del fatto che l’articolo 18 non si è mai applicato alle imprese con meno di 15 dipendenti. Questo provoca quell’”apartheid” che Pietro Ichino ha sempre denunciato con impeccabile puntualità.
E tuttavia la crisi devastante che stiamo attraversando ha cambiato profondamente lo scenario: articolo 18 oppure no, è evidente che con un mercato che costringe alla chiusura molte imprese, qualsiasi garanzia scritta sulla carta si ferma davanti al datore di lavoro che tira giù la serranda. La discriminazione tra lavoratori protetti e non protetti scolorisce davanti alla livella della disoccupazione, che rende alla fine tutti ugualmente indifesi. Il problema che si pone davanti a noi diventa dunque soprattutto quello di aumentare i posti di lavoro cosicché chi lavora per un’azienda, possa all’occorrenza trasferire facilmente le proprie conoscenze verso un’impresa concorrente. Sia che ci si trovi davanti a una crisi, o che si voglia semplicemente cambiare lavoro per cogliere una migliore opportunità professionale, l’obiettivo dev’essere quello di assicurare la migliore allocazione possibile della forza lavoro, il che procura un effetto benefico tanto per i singoli lavoratori che – a causa delle forza attrattiva delle aziende sane rispetto a quelle più deboli – all’economia nel suo complesso.
Qualche tempo fa ero ospite in una trasmissione televisiva e, in collegamento da Cassina de’ Pecchi, vicino Milano, c’erano gli impiegati della Nokia (già Italtel e poi Siemens) i cui posti di lavoro sono in questo momento gravemente messi a rischio. Perché questo accade è ovvio: ciascuno di noi fino a qualche anno fa aveva un cellulare Nokia in tasca e oggi non è più così. La Nokia, che era un’azienda floridissima, è ora entrata nell’orbita della Microsft che aspira a rilanciarla posizionandosi attraverso di essa nel ricco mercato degli smartphone accanto ad Apple e a Samsung-Google. La domanda che si pone è dunque: se Nokia chiude a causa della crisi, perché Samsung o Apple o qualsiasi altro concorrente non arriva di corsa a Cassina de’ Pecchi, dove ci sono tanti italiani capaci di fare i telefoni e non costruisce un nuovo business mettendo a frutto quel talento?
Il fatto è che né la Nokia né i suoi concorrenti pensano a fare tutto questo. E ciò accade per gli stessi motivi che hanno portato i 24 miliardi di euro investiti dagli stranieri in Italia nel precipitare alla metà nel 2012. Mancanza di infrastrutture, una burocrazia strangolante, un fisco cervellotico, a livelli altissimi di corruzione, la presenza della criminalità organizzata, e anche – non esclusivamente, ma è certamente parte del problema – una legislazione del lavoro incomprensibile per gli stranieri. Chi volesse fare un investimento aprendo uno stabilimento in Italia, vorrebbe certamente sapere in quanto tempo quello stabilimento potrebbe essere chiuso e quale sarebbe il costo relativo alla cessazione dei rapporti di lavoro (c.d. “severance cost”).
L’esigenza che abbiamo di fronte è dunque quella di pianificare adeguatamente e di non spostare sulle aziende il peso di un welfare assente e di sistemi di formazione e riqualificazione professionale che da noi sono fallimentari. Possiamo dire con una qualche serenità che i centri per l’impiego, in Italia, servono ad impiegare giusto coloro che ci lavorano. In più, il sistema attuale autorizza le aziende a ridurre i livelli occupazionali solo quando la crisi è acclarata, e impedisce di usare la leva della riduzione dei costi al fine di impedire la crisi produttiva, salvando così posti di lavoro. Detto in altre parole, non si può licenziare nessun lavoratore fino a quando non ci si trova nella condizione di dover necessariamente licenziarli tutti.
Il problema è dunque quello di ripensare interamente il ciclo di vita del lavoro e delle garanzie per i lavoratori nel nostro paese. Il fatto è che oggi, come dimostra la vicenda della Nokia, i prodotti e le imprese hanno un ciclo di vita molto più breve di quello di un tempo.
Il mio primo datore di lavoro è stata la gloriosa Banca Commerciale Italiana: quando fui assunto, nel 1991, la banca era lì da 100 anni e io ero sicuro che sarebbe stata lì, in Piazza della Scala a Milano, in saecola seculorum. E invece io sono ancora qui, ancora relativamente giovane e in salute, mentre la Comit non c’è già più. Se è andata così a me, immagino cosa abbiano provato i colleghi che negli stessi anni venivano assunti dal Banco di Napoli, che stava lì dal 1539 e anch’esso, dopo quattro secoli e mezzo, non esiste più. Insomma, se un tempo era legittimo aspettarsi che il proprio datore di lavoro sarebbe sopravvissuto a generazioni di propri dipendenti, o che almeno avrebbe avuto la bontà di stare sul mercato in buona salute finanziaria per i 35 anni utili a maturare la nostra pensione, ora non è più così. L’obsolescenza dei prodotti e delle tecnologie, la progressiva creazione di un mercato meno protetto e più aperto alla concorrenza e le concentrazioni tra attori economici fanno sì che chi entra nel mercato del lavoro abbia un’aspettativa di cambiare lavoro molte volte: c’è chi dice almeno 7, nel corso di una carriera.
Allora il tema non è davvero più l’articolo 18, il tema è pensare come garantire i lavoratori nel passaggio che ineluttabilmente ci sarà tra una posizione di lavoro e un’altra. Come sostenerli dal punto di vista del reddito, come formarli per consentire loro di sfruttare nuove occasioni professionali e come incoraggiare la creazione di nuovi posti e occasioni di lavoro per ricollocare i lavoratori adeguatamente riqualificati. Chi credesse di poter limitarsi ad agire sull’articolo 18 dimostrerebbe di non ever capito che quello che è necessario è un approccio al problema non semplicemente migliorativo, ma totalmente nuovo. La sfida del Pd non è quella di migliorare il mercato del lavoro o di rivedere qualche clausola contrattuale, ma di prendere atto della rivoluzione che è in atto e di provare a ridisegnare i cicli e il mondo del lavoro sin dalle fondamenta.

Leggi tutto...

sabato 21 dicembre 2013

Le prospettive per il lavoro

Articolo di Tito Boeri pubblicato su La Repubblica il 20 dicembre 2013
Doveva la "legge di stabilità della svolta per il lavoro". Ma il testo che verrà oggi votato alla Camera è riuscito addirittura ad aumentare il costo del lavoro nelle imprese che hanno maggiori potenzialità di creare occupazione. Tra i nuovi contributi per la Cig in deroga e l'accelerazione dell' aumento delle aliquote per gli iscritti alla gestione separata Inps, il cuneo fiscale, soprattutto nelle piccole imprese, è destinato ad aumentare ulteriormente.
C'è solo la premessa di alleggerirlo in futuro con i risparmi della spending review. Ma come si può pensare che un governo che ha impiegato7 mesi per avviarla, che ha già lasciato da solo Carlo Cottarelli (mai menzionato nel discorso del "nuovo inizio") a passare in rassegna la spesa e che non riesce neanche a fare quei tagli su cui avrebbe tutto il sostegno dell' opinione pubblica (l' abolizione del finanziamento pubblico ai partiti rischia di essere a saldo zero per il contribuente, come documentato su lavoce.info) riesca davvero a tagliare la spesa pubblica? Tra l' altro il cosiddetto fondo taglia cuneo dovrà prioritariamente finanziare la Cassa Integrazione e i contratti di solidarietà ancora non coperti per il 2014, come ammesso dallo stesso relatore della maggioranza. E servirà eventualmente per ridurre anche le tasse sulle pensioni, quindi le improbabili coperture per abbassare le tasse sul lavoro verrebbero comunque ulteriormente diluite, perché sparse su di una platea molto più ampia dei soli lavoratori.
Quali altri dati devono uscire per convincere il nostro Parlamento che il lavoro è il problema numero uno? Il tasso di disoccupazione è al 12,5 per cento, raddoppiato nel giro di 7 anni, e per più della metà rappresentato da persone che sono senza lavoro da almeno un anno. La disoccupazione giovanile è ormai saldamente al di sopra del 40 per cento. E tra i pochi giovani occupati, quasi il 50 per cento ha un lavoro temporaneo, duale. Le persone in condizione di grave deprivazione materiale, soprattutto a seguito della perdita di un lavoro, sono in Italia raddoppiate nel giro di soli tre anni. Certo questi dati si spiegano con le due gravi recessioni, il bollettino di guerra ieri tracciato dal Centro studi di Confindustria. Ma è proprio partendo dal lavoro che si può cominciare l' opera di ricostruzione. La riforma del lavoro è stata la grande incompiuta del governo Monti. È cruciale anche perché, a differenza di molte altre cose da fare, ha il pregio di conciliare equità e rilancio della nostra economia. Il lavoro rappresenta la strada maestra per ridurre la povertà quando ci sono pochi soldi da spendere. E riducendo le disparità di trattamento fra diverse categorie di lavoratori, ci si può meglio preparare alla ripresa, se mai questa verrà. C' è qualcosa di profondamente sbagliato quando nello stesso settore, magari nella stessa azienda, si licenziano fino al 20-30 per cento di lavoratori duali, mentre altri lavoratori, che hanno lo stesso livello di istruzione, età ed esperienza, ma un contratto a tempo indeterminato, mantengono non solo il loro salario, ma anche tutti i fringe benefits che avevano prima della crisi. Da noi la disoccupazione dal 2007 è raddoppiata, ma i salari dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato, secondo i dati Istat sulle forze lavoro, sono aumentati in entrambe le recessioni (2008-9 e 2011-13) mentre i lavoratori temporanei venivano falcidiati (il loro numero si è ridotto del 12% nella prima recessione e dell' 8% nella seconda). Non ci dovrebbe esser bisogno di strumenti ad hoc perché riduzioni dei salari di molti salvino il posto di lavoro di qualcuno. Bisognerebbe invece facilitare la creazione di nuovo lavoro altrove, dove potrebbe essere maggiormente valorizzato. E oggi il capitale umano (oltre che il credito alle imprese) è sistematicamente concentrato proprio in quelle imprese e settori che hanno più bassa produttività. Secondo le stime di Hassan e Ottaviano, anche solo una distribuzione casuale del lavoro tra imprese, aumenterebbe la produttività del nostro settore manifatturiero del 6 per cento. Infine, facilitare l' ingresso nel mercato del lavoro dalla porta principale fa aumentare la copertura dei nostri ammortizzatori sociali, che oggi danno un reddito solo a un terzo di coloro che perdono l' impiego, perché il rischio di trovarsi in quella condizione è concentrato su chi ha carriere troppo brevi per accedere ai sussidi. Non è vero che oggi non si può fare nulla per il lavoro perché non ci sono soldi. Al contrario, si possono fare tre cose in contemporanea. Primo, cambiare le regole di ingresso per i nuovi assunti con contratti a tempo indeterminato, come da tempo suggerito con il contratto a tutele progressive a tempo indeterminato a tutele progressive senza entrare in inutili dispute ideologiche sull' eliminazione completa dell' articolo 18.
È un' operazione che unifica gradualmente il mercato del lavoro senza intaccare i "diritti acquisiti" di chi ha già un contratto a tempo indeterminato. Secondo, si può introdurre un salario minimo e prevedere un sussidio condizionato all' impiego per chi ha salari appena al di sopra di questo livello minimo, ad esempio garantendo almeno 5 euro all' ora, un modo per favorire occupazione di chi oggi è disoccupato e di contrastare la povertà con bassi costi per lo Stato. Questa operazione sarebbe in parte finanziata dall' emersione di lavoro oggi sommerso. Terzo, si possono ridurre in modo significativo e permanente le tasse che gravano sui contratti a tempo indeterminato, finanziando queste minori entrate con tagli dei trasferimenti alle Ferrovie dello Stato e al sistema delle imprese e, in parte, con riduzioni dei contributi previdenziali che, come già chiarito su queste colonne, si autofinanziano nel sistema contributivo. Un simile pacchetto integrato di riforme e di tagli delle tasse sul lavoro sarebbe accettabile a livello europeo anche se inizialmente fa aumentare il disavanzo perché vuole davvero riformare quello che oggi è il peggiore mercato del lavoro dell'Unione europea.

Leggi tutto...

mercoledì 18 dicembre 2013

Il debito condiziona l’unione bancaria

Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 16 dicembre 2013
Nei giorni scorsi l’Unione Europea ha trovato un accordo sul secondo pilastro della unione bancaria. Il primo, ovvero la supervisione comune delle grandi banche, era stato stabilito circa un anno fa. Ma ora sono stati finalmente delineati i criteri del secondo: l’istituzione di regole per far fronte al problema di insolvibilità, qualora si dovesse manifestare. La prossima settimana il vertice dei capi di Stato a Bruxelles ne sancirà i principi. Da qui dovrebbe partire un nuovo pezzo della costruzione europea.
Il problema principale è quello di sempre: chi paga se una banca fallisce? Chiarire questo punto è condizione fondamentale per la stabilità finanziaria, ma anche per quella politica poiché, dal 2008, i cittadini europei hanno pagato circa 500 miliardi di euro per salvare le loro banche e questo non ha certo giovato al progetto della moneta unica e alla sua popolarità. Sono fattori che pesano molto, alla vigilia dell’esercizio di ispezione dei bilanci delle grandi banche dell’eurozona condotto dalla Bce e in un clima politico sempre piu antagonista al progetto europeo, come rischiano di dimostrare le prossime elezioni.
L’accordo stabilisce due principi importanti. Il primo è quello del cosiddetto bail-in: se una banca fallisce i creditori più senior, principalmente gli azionisti, dovranno pagare una parte dei costi. Il secondo stabilisce la nascita di un «fondo di risoluzione comune», alimentato dalle banche stesse.
I principi sono giusti. Si è fatto un passo avanti, certo. Ma quella unione bancaria ritenuta da tutti un passo essenziale per la costruzione europea, necessaria a fare ripartire l’economia, rivitalizzare l’integrazione finanziaria, stimolare le banche a far credito, è ancora ben lontana. La ragione è molto semplice: c’è troppo debito in giro e finché non si risolverà il problema di questa zavorra in parte ereditata dalla crisi, non ci sono le condizioni politiche per un accordo coraggioso.
Il fondo di risoluzione verrà consolidato nell’arco di dieci anni, avrà un «tesoro » di soli 55 miliardi e non è previsto un meccanismo di paracadute che intervenga in caso di crisi per ricapitalizzare le banche e prevenire un collasso dell’economia reale. Senza paracadute comune si rafforza così quel processo, gia in atto da tempo, di segmentazione nazionale dell’attività finanziaria. I bilanci delle banche europee sono sempre piu «nazionali» sia per quel che riguarda gli attivi, sia per i passivi. Avendo difficoltà a ricapitalizzarsi, per rafforzare i loro bilanci le banche diminuiscono il credito e acquistano titoli dei loro Paesi. Se lo Stato è debole, lo diventano anche loro.
La nazionalizzazione dei bilanci rivela come le istituzioni finanziarie abbiano già capito che un vero fondo comune per la ricapitalizzazione sia ben lungi da venire. E’ infatti chiaro che se la esposizione al rischio di una banca è legata al mercato nazionale, diventa più probabile che lo Stato intervenga per salvarla. Le banche europee, che prima della crisi si diceva fossero internazionali in vita e nazionali nella morte, stanno diventando nazionali nella vita e lo saranno anche nella morte (anche se speriamo sia lontana).
Questo ultimo negoziato, nonostante i progressi, dimostra ancora una volta che ogni meccanismo che preveda un fondo comune tra nazioni, e quindi una possibile mutualizzazione del debito, non è nelle carte, almeno fino a che non si pulisca l’aria dallo stock del debito esistente. Il potenziale costo di tale meccanismo per gli Stati piu virtuosi come la Germania, è infatti ancora troppo alto. Si può quindi accettare la supervisione unica e anche un fondo di risoluzione, se piccolo, nel futuro. Ma non un paracadute comune in grado di mettere il sistema in sicurezza e ridurre la frammentazione dei mercati finanziari.
Per uscire da questa impasse l’Europa dovrebbe affrontare con coraggio il problema della ristrutturazione di una parte del debito e, una volta presa una decisione su questo problema, ragionare infine sulla costruzione di una architettura comune che deve essere certo basata sulla condivisione del rischio, ma non sul trasferimento sistematico di risorse da alcuni Paesi ad altri.
L’architettura del Trattato di Maastricht si è rivelata inadeguata. Qual è quella del futuro? In mancanza di una riflessione e una azione conseguente su questo tema ci sono due scenari possibili. Il primo, quello ottimista, è che l’architettura europea si costruirà gradualmente, pezzo per pezzo, nella speranza che la ripresa favorisca la stabilità senza altri incidenti. Ma il secondo scenario prefigura che l’eccessiva lentezza nelle riforme porterà ad una ulteriore instabilità ed incertezza,che potranno essere affrontate solo «ritornando a casa», ovvero tornando a focalizzarci sulle istituzioni nazionali. Questo è vero per le banche come per tutto il resto.

Leggi tutto...

venerdì 13 dicembre 2013

Michele Salvati scrive a Matteo Renzi

Lettera di Michele Salvati a Matteo Renzi pubblicata sul Corriere della Sera l’11 dicembre 2013
Caro Matteo,
concludevo un articolo a te dedicato (Corriere, 22 ottobre) con verso del tuo grande concittadino: “Qui si parrà la tua nobilitate”. In realtà di nobilitate, come politico puro, ne hai già dimostrata molta, e la vittoria nelle primarie lo conferma.
Non hai seguito consigli interessati (“Non presentarti alle primarie per la segreteria del partito, presentati solo a quelle per la candidatura a capo del Governo …. Quando sarà il momento”).
E non hai consigli sbagliati, come quello che ti avevo dato io in occasione delle ultime elezioni («presentati come Lista Renzi alleata al Pd, proprio come fa Sel sul lato sinistro: svuoterai il Pd di Bersani, certo, ma avrai un grande successo e l’insieme risulterà vincente»). Era un consiglio che ti davo a malincuore, ma avevo perso ogni speranza che il Pd, nelle mani di un sindacato di controllo iper conservatore, potesse mai diventare il partito di sinistra moderna per il quale mi ero speso.
Anch’io avevo creduto nel Pd, come intellettuale prestato alla politica. E, da bravo intellettuale, avevo tenuto nota delle mie battaglie. Quelle dentro il Pds, i Ds e l’Ulivo dal 1996 al 2001 - in sintonia con Andreatta, Prodi e Parisi sul versante cattolico - le ho raccontate in un libro: Il partito Democratico: all’origine di una idea politica , Il Mulino, 2003. Finito il prestito alla politica e ripreso il mio mestiere, sono tornato più volte a ribadire la mia idea di Partito democratico. Ad esempio nel libro Il partito democratico per la rivoluzione liberale , Feltrinelli, 2007, nonché in un lungo articolo che fece scalpore, soprattutto perché pubblicato su Il Foglio, «Appello per il partito democratico» (10/4/2003): è qui che sono andato vicino alla tua idea di rottamazione, quando consigliavo a D’Alema e Marini, che dall’interno dei Ds e dei Popolari remavano contro, a fare un passo indietro. Ma gli avversari politici, quando sono tosti, non si consigliano, si sconfiggono, ed è questo che hai fatto, caro Matteo, da vero politico. Io, dopo l’ultima battaglia per Veltroni, mi ero scoraggiato e solo ora sta tornando un pò di speranza.
Adesso però viene la parte difficile del tuo lavoro, quella in cui dovrai mostrare una «nobilitate» ancor maggiore. Nobilitate da politico oggi, già nelle prossime settimane. Nobilitate da statista dopo, se riuscirai ad arrivare alle elezioni e le vincerai. Non mi soffermo sulle difficoltà dell’oggi, aggravate da una sentenza della Corte che sembra tracciare una via facile per un sistema elettorale proporzionale: i giornali te le ricordano un giorno sì e l’altro pure. Come può reagire un politico che si è sempre speso per un sistema maggioritario? Al cui progetto un sistema maggioritario è essenziale? La via di un’alleanza con Berlusconi e Grillo è impercorribile: spaccherebbe il partito che hai appena conquistato e lo metterebbe in balia di soggetti inaffidabili. Ma riuscirai ad ottenere da Napolitano e Letta, e soprattutto da Alfano, un impegno serio e in tempi rapidissimi per un maggioritario decente, e un impegno altrettanto serio per avviare il lungo processo necessario alla riforma costituzionale del Senato? Riuscirai a ottenerlo in questo Parlamento, del quale dubito che i leader appena menzionati, e tu stesso, abbiate il controllo?
Se riuscirai a trovare una via d’uscita, ad arrivare alle elezioni con un sistema maggioritario, i problemi più duri verranno dopo e riguarderanno il programma elettorale e poi, se vincerai, la tua attività di governo. Troppo lontano e incerto quel momento? Non credo. In realtà, oltre all’impegno a voltar pagina nel partito, tu hai parlato quasi solo di questo nel tuo discorso di Firenze: sembrava l’inizio di una campagna elettorale, contro Grillo e le destre. Sembrava di sentire parlare un leader americano o inglese, che al loro partito o all’intero Paese rivolgono lo stesso discorso. Il tuo era di entusiasmo e di speranza, simile a quello di Veltroni nel 2008. Ma allora la crisi finanziaria americana era appena scoppiata e non se ne misuravano le conseguenze. Né si aveva idea di quanto profonde, e difficili da rimediare, siano le debolezze del nostro Paese. Oggi tener insieme realismo e speranza, proposte adeguate alla gravità della crisi ed il continuo consenso necessario a sostenerle, è ancor più difficile di allora. Predicare sudore e lacrime, invocare sacrifici, non è mai stato un buon modo per vincere le elezioni, ed in particolare per entusiasmare cittadini animati da disprezzo e rancore contro i politici. A meno che un gran numero di loro siano disposti a fare eccezione per te e tu riesca a convincerli che le promesse altrui sono ingannevoli, che tu sei diverso dagli altri, le tue possibilità di successo sono scarse.
Ma non voglio fasciarmi la testa pensando alle difficoltà del domani, del domani immediato e del domani futuro e possibile, e voglio restare ancora per un poco nello stato d’animo che ieri ha suscitato in me la notizia della tua vittoria nelle primarie. Una vittoria della politica - di destra, centro o sinistra che sia - e non solo del Partito democratico.

Leggi tutto...

giovedì 12 dicembre 2013

Pietro Ichino scrive a Matteo Renzi

Caro Matteo,

oggi, con il nettissimo successo che hai ottenuto nelle primarie, prendi solidamente in mano un partito che negli ultimi tempi ha fatto per lo più l’esatto contrario di quello che tu predichi fin dall’inizio della tua battaglia: non credo di esagerare dicendo che in questo momento esso è di gran lunga il più conservatore tra i partiti italiani. Alcuni degli altri partiti, è vero, propugnano l’innovazione in direzioni profondamente sbagliate; ma è un fatto che a questi il PD ha risposto fin qui con la conservazione dell’esistente, anche nei suoi aspetti deteriori.
È il PD che nel giugno 2012 rifiutò la proposta di riforma elettorale e istituzionale alla francese avanzata dal PdL, che oggi viene (opportunamente) riproposta dal gruppo di lavoro bi-partisan guidato dal ministro Gaetano Quagliariello. Un anno e mezzo perso.
È il PD che, per paura di toccare i vecchi tabù, ormai da un anno sta bloccando persino la sperimentazionepiù limitata di qualsiasi modifica del diritto del lavoro vigente che possa favorire il rilancio dell’occupazione nel periodo più nero della crisi economica più grave del secolo.
È stato il PD – esclusi alcuni suoi parlamentari – il principale sostenitore del decreto “stabilizzazioni” ideato dal ministro D’Alia, che costituisce l’esatto contrario di quello che andrebbe fatto secondo i principi della spending review e di quanto andrebbe fatto per offrire una prospettiva di occupazione seria alle decine di migliaia di precari delle amministrazioni pubbliche.
È il PD il principale sostenitore del disegno del ministro della Difesa mirato aprepensionare 27.000 militari a 50 anni, ignorando le esperienze – tra cui quelle, eccellenti, britannica e australiana – che mostrano come mediante i buoni servizi di outplacement e il metodo del “contratto di ricollocazione” si possa, eccome!, reinserire decine di migliaia di militari nel tessuto produttivo generale.
È il PD che sta impedendo al Governo di adempiere l’impegno assunto in Parlamento il 10 ottobre scorso per l’avvio della sperimentazione regionale della collaborazione tra servizio pubblico e servizi privati centrata sul contratto di ricollocazione, perché “se ci sono risorse vanno investite solo sulla struttura pubblica” (anche se sono i privati ad avere il know-how per i servizi cosiddetti “di seconda generazione”).
È il PD che, con il suo ministro dell’Istruzione Carrozza, oggi minaccia di bloccare il programma Invalsi per lavalutazione nella scuola pubblica mediante i test standardizzati. E l’elenco potrebbe continuare.
Se ora tu riuscirai, come riuscì Toni Blair con il Labour Party, a trasformare questo PD da freno a mano della macchina per le riforme in motore, ti conquisterai – oltre che un posto nella storia - la gratitudine e l’appoggio anche di milioni di italiani che oggi non sono andati ai seggi a votarti: un appoggio ampio, che ti aiuterà a vincere le resistenze, dentro e fuori del partito. Ma non farti illusioni: dati gli immediati precedenti, non sarà affatto una passeggiata. E l’esito della battaglia è quanto mai incerto. In ogni caso, un cordialissimo augurio: chiunque abbia a cuore la “riforma europea” dell’Italia – quale che sia la sua collocazione nell’arco delle formazioni oggi esistenti - non può che auspicare il tuo successo, e con esso una profonda trasformazione dell’intero sistema politico italiano.

Leggi tutto...

lunedì 9 dicembre 2013

Primarie, vince il PD e Renzi

Alle primarie del PD hanno partecipato circa tre milioni di persone tra iscritti ed elettori. Una grande vittoria per il PD che nonostante le difficoltà del paese suscita ancora entusiasmi ed attenzione. Pertanto, si può dire tranquillamente che il PD ha vinto ed è stato capace di coinvolgere tantissimi cittadini nonostante la propaganda e le previsioni contrarie. Il merito va anche ai candidati: Cuperlo, Renzi e Civati.
Ha vinto Matteo Renzi che ha raccolto il consenso di circa il 68% degli elettori, considerando che alle primarie votano tante persone che esprimono liberamente e responsabilmente la loro scelta in un momento così difficile senza farsi intruppare dalla nomenclatura.
Il risultato di Gianni Cuperlo è stato deludente  in quanto la sinistra che rappresenta non è più in sintonia con il paese e con gli elettori. Questa sinistra per ambire alla segreteria del PD deve rifondarsi cosa che non ha fatto fino a questo momento, pagando lo scotto. Gianni Cuperlo è una persona di cultura ed intelligente e, pertanto, avrebbe dovuto capire che la sua missione era impossibile.
Giuseppe Civati, nonostante le sue posizioni politiche su alcuni problemi, ha recuperato consensi per se e per il PD da un’area non facilmente entusiasta ed incline a dare fiducia facile e completa al PD di ieri.
Adesso occorre lavorare insieme senza tradire il mandato degli elettori e rifondare il Partito Democratico che fino a questo momento si è dimostrato incapace di affrontare i problemi concreti delle persone dalla povertà al lavoro con nuovi strumenti efficaci. Pertanto, è necessario abbandonare le anacronistiche visioni che hanno portato alla sconfitta di Cuperlo ed introdurre nuove innovazioni e strumenti non condizionati dalle ideologie e dai vecchi equilibri del passato al fine di non procrastinare i problemi del paese.
I valori fondativi del PD valgono ancora anche se occorre tradurli nella realtà del terzo millennio con metodi e strumenti nuovi. Inoltre, non è da sottovalutare il modello organizzativo del PD da troppo tempo trascurato  che non corrisponde più alla domanda di partecipazione e di democrazia della società. Le primarie sembrano un corpo avulso dal contesto del partito e per tale motivo occorre rinnovarlo nelle persone e nelle strutture.
Il modello organizzativo di una organizzazione esprime i valori, le strutture e gli obiettivi che si vogliono perseguire. Per tali motivi non è da sottovalutare.
Questo risultato straordinario delle primarie, il quale ha premiato Matteo Renzi al di là di qualsiasi previsione positiva, ci lascia ben sperare in un grande cambiamento che coinvolga la società, il Governo ed il Partito Democratico. La speranza, l’ottimismo e l’impegno ci devono accompagnare in questo cammino insidioso rivolto al bene del paese.
Matteo Renzi per attuare il cambiamento che si è proposto considera due fattori molto importanti: la valutazione del tempo ed il senso dell’urgenza. Infatti l’Italia non può più aspettare.
Occorre inoltre recuperare alla democrazia tutti coloro che erroneamente hanno creduto alle favole di Berlusconi ed alla prospettiva che i problemi del paese potessero essere risolti con il leader carismatico ed autoritario, rappresentato da Berlusconi, e con un partito personale senza democrazia interna, rappresentato dal PDL.

Leggi tutto...

mercoledì 4 dicembre 2013

Matteo Renzi: ripensare il futuro dell’Italia

Il partito Democratico svolge l’8 dicembre le primarie per la scelta del segretario. Un avvenimento molto importante al quale partecipano gli iscritti al PD e gli elettori, i quali potranno affermare di aver contribuito a disegnare il futuro del PD e dell’Italia.
Per tale motivo occorre partecipare in massa e scegliere uno dei tre candidati:  Giuseppe Civati, Gianni Cuperlo e Matteo Renzi. Il PD è l’unico partito nel panorama politico italiano a poter essere definito democratico perché tutti gli altri partiti sono una organizzazione personale ed è inesistente la democrazia interna e la trasparenza e dipendono da una leadership autoritaria e gerarchica. Questo non vuol dire che il PD ha concluso il proprio cammino con l’attuale forma di partito. Al contrario il Pd ha bisogno di essere rinnovato nelle persone, buona parte della classe dirigente proviene da schematismi ideologici superati che non aiutano ad affrontare i problemi emergenti della società moderna, e migliorato nel modello organizzativo, il quale conserva alcune caratteristiche del partito di massa pur essendo superato tale modello.
Il confronto diretto tra i tre candidati si è realizzato con correttezza nella trasmissione di Sky. Quello indiretto a distanza si è realizzato con colpi bassi da parte di Cuperlo (presidenzialismo, indebolimento del governo) e Civati (appesantito dalle correnti) nei confronti di Renzi. Inoltre, bisogna ricordare l’intervista a D’Alema e le accuse rivolte a Renzi da parte dei tifosi di Cuperlo e Civati: liberista, destra, continuità con Berlusconi. Tutte affermazioni che non si ritrovano nemmeno lontanamente negli scritti e negli interventi di Renzi. A queste accuse ha risposto in modo puntuale e brillante Matteo Renzi e, quindi, non c’è bisogno di replicare in questo articolo.
Cuperlo e Civati non hanno ancora capito che il cambiamento per essere realizzato ha bisogno di nuovi strumenti in quanto quelli usati fino a questo momento non hanno contribuito a risolvere il problema del lavoro e della povertà ed a realizzare un modello organizzativo di partito che corrisponda ai mutamenti della società del terzo millennio.
Il vero problema di Cuperlo e Civati è quello di non gradire che sia Renzi a prospettare la creazione di un nuovo equilibrio nella società italiana che attualmente si poggia sulla iniquità diffusa, sulla redistribuzione che aumenta le iniquità e favorisce le rendite,sui privilegi.
Gianni Cuperlo rappresenta la sinistra classica ed ortodossa legata ad un passato che è stato superato, oltre che dalla storia, dai comportamenti e dai bisogni degli elettori e che non ha prodotto risultati efficaci in materia di lavoro e di giustizia sociale. Nel PD ogni tentativo di realizzare una politica riformista nel mercato del lavoro è stata emarginata con il solo risultato di alzare le aliquote contributive per le partite Iva. Questa sinistra ha confuso l’equità con l’ugualitarismo.
Giuseppe Civati esprime una posizione politica di nicchia negli iscritti e negli elettori, rispetto agli altri due candidati, che va al di là dei valori fondativi del Pd. Le sue posizioni estreme (assenza alle due riunioni dei gruppi parlamentari e della Camera dei Deputati con all’odg la fiducia al Governo Letta per poi scoprire la disciplina di partito in occasione della mozione di sfiducia alla Cancellieri, matrimoni egualitari) non gli permettono di allargare i consensi e vincere le primarie. Con Civati Segretario il Pd si frantuma e rischia di perdere l’identità originaria alla quale siamo tutti legati.
Occorre una sinistra che si prenda carico dei problemi concreti del paese, che abbia una visione innovativa del PD e della società. Non più vecchi tabù ma una capacità di andare oltre gli equilibri esistenti per costruirne dei nuovi che si poggiano sull’equità e sulla giustizia sociale. Ad esempio è inaccettabile accettare il dualismo nel mercato del lavoro tra occupati e precari e non proporre una soluzione innovativa per risolvere il problema e ingiustificabile non consentire una riqualificazione dei Centri dell’impiego, i quali registrano 9.865 dipendenti e 464 milioni di costi, incapaci di realizzare una politica attiva del lavoro.
Attuare tutto questo significa essere di sinistra contro la sinistra parolaia che non ha avuto la capacità di leggere i tempi ed i cambiamenti intervenuti nel pianeta.
Matteo Renzi ha le capacità e la visione di uscire dagli abbracci soffocanti del passato e ricostruire un paese fermo da venti anni che ha bisogno di lavoro, di Europa e di riforme istituzionali, comprensive della nuova legge elettorale.
Per i motivi esposti, i quali possono essere approfonditi prendendo visione del documento congressuale di Matteo Renzi e leggendo il libro di Yoram Gutgeld, Più uguali più ricchi, Rizzoli, 2013, io voto alle primarie dell’8 dicembre Matteo Renzi.
Un cambiamento positivo dell’Italia e del PD può nascere solo con la vittoria di Matteo Renzi alle primarie.
Mozione di Matteo Renzi

Leggi tutto...