mercoledì 18 dicembre 2013

Il debito condiziona l’unione bancaria

Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 16 dicembre 2013
Nei giorni scorsi l’Unione Europea ha trovato un accordo sul secondo pilastro della unione bancaria. Il primo, ovvero la supervisione comune delle grandi banche, era stato stabilito circa un anno fa. Ma ora sono stati finalmente delineati i criteri del secondo: l’istituzione di regole per far fronte al problema di insolvibilità, qualora si dovesse manifestare. La prossima settimana il vertice dei capi di Stato a Bruxelles ne sancirà i principi. Da qui dovrebbe partire un nuovo pezzo della costruzione europea.
Il problema principale è quello di sempre: chi paga se una banca fallisce? Chiarire questo punto è condizione fondamentale per la stabilità finanziaria, ma anche per quella politica poiché, dal 2008, i cittadini europei hanno pagato circa 500 miliardi di euro per salvare le loro banche e questo non ha certo giovato al progetto della moneta unica e alla sua popolarità. Sono fattori che pesano molto, alla vigilia dell’esercizio di ispezione dei bilanci delle grandi banche dell’eurozona condotto dalla Bce e in un clima politico sempre piu antagonista al progetto europeo, come rischiano di dimostrare le prossime elezioni.
L’accordo stabilisce due principi importanti. Il primo è quello del cosiddetto bail-in: se una banca fallisce i creditori più senior, principalmente gli azionisti, dovranno pagare una parte dei costi. Il secondo stabilisce la nascita di un «fondo di risoluzione comune», alimentato dalle banche stesse.
I principi sono giusti. Si è fatto un passo avanti, certo. Ma quella unione bancaria ritenuta da tutti un passo essenziale per la costruzione europea, necessaria a fare ripartire l’economia, rivitalizzare l’integrazione finanziaria, stimolare le banche a far credito, è ancora ben lontana. La ragione è molto semplice: c’è troppo debito in giro e finché non si risolverà il problema di questa zavorra in parte ereditata dalla crisi, non ci sono le condizioni politiche per un accordo coraggioso.
Il fondo di risoluzione verrà consolidato nell’arco di dieci anni, avrà un «tesoro » di soli 55 miliardi e non è previsto un meccanismo di paracadute che intervenga in caso di crisi per ricapitalizzare le banche e prevenire un collasso dell’economia reale. Senza paracadute comune si rafforza così quel processo, gia in atto da tempo, di segmentazione nazionale dell’attività finanziaria. I bilanci delle banche europee sono sempre piu «nazionali» sia per quel che riguarda gli attivi, sia per i passivi. Avendo difficoltà a ricapitalizzarsi, per rafforzare i loro bilanci le banche diminuiscono il credito e acquistano titoli dei loro Paesi. Se lo Stato è debole, lo diventano anche loro.
La nazionalizzazione dei bilanci rivela come le istituzioni finanziarie abbiano già capito che un vero fondo comune per la ricapitalizzazione sia ben lungi da venire. E’ infatti chiaro che se la esposizione al rischio di una banca è legata al mercato nazionale, diventa più probabile che lo Stato intervenga per salvarla. Le banche europee, che prima della crisi si diceva fossero internazionali in vita e nazionali nella morte, stanno diventando nazionali nella vita e lo saranno anche nella morte (anche se speriamo sia lontana).
Questo ultimo negoziato, nonostante i progressi, dimostra ancora una volta che ogni meccanismo che preveda un fondo comune tra nazioni, e quindi una possibile mutualizzazione del debito, non è nelle carte, almeno fino a che non si pulisca l’aria dallo stock del debito esistente. Il potenziale costo di tale meccanismo per gli Stati piu virtuosi come la Germania, è infatti ancora troppo alto. Si può quindi accettare la supervisione unica e anche un fondo di risoluzione, se piccolo, nel futuro. Ma non un paracadute comune in grado di mettere il sistema in sicurezza e ridurre la frammentazione dei mercati finanziari.
Per uscire da questa impasse l’Europa dovrebbe affrontare con coraggio il problema della ristrutturazione di una parte del debito e, una volta presa una decisione su questo problema, ragionare infine sulla costruzione di una architettura comune che deve essere certo basata sulla condivisione del rischio, ma non sul trasferimento sistematico di risorse da alcuni Paesi ad altri.
L’architettura del Trattato di Maastricht si è rivelata inadeguata. Qual è quella del futuro? In mancanza di una riflessione e una azione conseguente su questo tema ci sono due scenari possibili. Il primo, quello ottimista, è che l’architettura europea si costruirà gradualmente, pezzo per pezzo, nella speranza che la ripresa favorisca la stabilità senza altri incidenti. Ma il secondo scenario prefigura che l’eccessiva lentezza nelle riforme porterà ad una ulteriore instabilità ed incertezza,che potranno essere affrontate solo «ritornando a casa», ovvero tornando a focalizzarci sulle istituzioni nazionali. Questo è vero per le banche come per tutto il resto.

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