giovedì 28 febbraio 2013

Percorso credibile per essere ascoltati in Europa

Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 27 febbraio 2013
Un voto anti austerità, un voto contro l'Europa. Molti, in casa ma anche tra i commentatori anglosassoni,hanno interpretato così il risultato elettorale. Gli italiani si sarebbero ribellati a un'Europa che ci impone più tasse e più rigore di spesa e così ci condanna a una recessione prolungata, alla perdita di posti di lavoro e, per molti, alla povertà. Legata a questa interpretazione è anche l'idea secondo la quale gli elettori si sarebbero anche ribellati al dover subire leggi imposte dai nostri creditori. In particolare dalla Germania, dipinta in campagna elettorale come il Paese che detta regole alla periferia dell'Europa, traendo, in tal modo, anche un vantaggio economico che le dà la forza per alzare la voce nell'Unione. A Bruxelles e a Francoforte, soprattutto, le «capitali» dell'Ue tanto lontane dalla nostra realtà, così poco comprese e in cui si ha l'impressione che la voce dell'Italia non si senta. Ci sarebbe insomma rabbia, comprensibile, per la sovranità ceduta in nome della moneta unica.
C'è un po' di vero in questa storia. Il voto italiano è un messaggio non solo per Mario Monti e Pier Luigi Bersani, ma anche per Francoforte e Bruxelles. Chiedere di aggiustare i conti attraverso regole di bilancio troppo aspre e nel mezzo di una stretta del credito ha un costo moto alto. Una ricetta più efficace, in linea teorica, si sarebbe potuta basare su un aggiustamento diluito nel tempo per i Paesi indebitati e un'espansione della domanda nei Paesi creditori. L'Europa non ha preso questa strada, optando per scelte più dolorose. Io non credo si tratti di un calcolo cinico della Germania, ma della sostanziale mancanza di fiducia verso la credibilità di un patto alternativo. Un patto che si sarebbe dovuto reggere sulla concessione di un risanamento più dilazionato a fronte dell'impegno italiano a mettere in atto politiche per il consolidamento di bilancio nel medio periodo.
Questa mancanza di fiducia tra creditori e debitori, in Europa, ha radici lontane e ha percorso tutta la storia del negoziato sulla costruzione dell'Ue dal Dopoguerra; essa si basa su quella complessa esperienza. Ma la diffidenza si spiega proprio con la nostra debolezza fondamentale, cioè con la mancanza di coesione della nostra società e la mancanza di fiducia per chi ci governa. Che cos'è il nostro debito pubblico persistente se non il risultato di un processo sviluppato per creare consenso politico, attraverso sprechi e sussidi perché non si ha la forza e la lucidità di trovare un equilibrio diverso, basato sulla percezione di un interesse comune? Se uscissimo dall'Europa questa causa fondamentale delle nostre difficoltà non sarebbe rimossa. Il disagio si manifesterebbe sotto altre forme e l'inevitabile aggiustamento dei conti si farebbe ricorrendo a svalutazioni di cambio e inflazione. Questo forse ci darebbe, sul breve, un po' di fiato, ma ci renderebbe nel tempo più poveri, condannandoci a competere ai margini di un'economia globale in cui i Paesi emergenti stanno facendo un'altra scommessa, e cioè quella della tecnologia, del capitale umano, del rinnovamento delle istituzioni. Proprio quella che noi, «sovranamente», non riusciamo a fare.
È giusto chiedere di contare di più in Europa ed è giusto portare avanti l'idea di un coordinamento delle politiche economiche tra nazioni basato sia sul consolidamento dei conti per i debitori, sia sull'espansione della domanda per i creditori. Tutto ciò,però, non può bastare a farci ripartire e in ogni caso rimarrà richiesta inascoltata. Acquistare voce in Europa significa saper scegliere un nostro percorso credibile capace di risolvere i problemi di lunga data, quei problemi che sono alla base della nostra stagnazione ventennale. La traccia di questo cammino è la condizione per riguadagnare piena voce in Europa, per ritrovare la fiducia al nostro interno, per superare la frammentazione. E ripartire. Nella consapevolezza, soprattutto, che la mancanza di sovranità oggi denunciata si spiega poco con i vincoli europei. Nasce, prima di tutto, dalla nostra debolezza.

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L’Istituto Cattaneo valuta il voto

Articolo pubblicato su la Repubblica Bologna il 26 febbraio 2013
Partito democratico (Pd) e Popolo della libertà (Pdl) hanno perso rispettivamente il 30% e circa la metà dell’elettorato che li aveva scelti nel 2008; Movimento cinque stelle ha ottenuto consensi, seppur con qualche differenza percentuale, in tutte le regioni, sia al Nord che al Sud. Sono queste le istantanee che per l'Istituto Cattaneo di Bologna fotografano meglio il voto nazionale del 24 e 25 febbraio.
Il Partito democratico. Il Pd ha perso 3.400.000 voti rispetto alle precedenti elezioni politiche, pari a una contrazione del 28%. Il calo è stato significativo e diffuso sull’intero territorio nazionale, ma con picchi superiori alla media nelle regioni meridionali (-37% rispetto al 2008) e del Centro. In particolare, sottolinea l'istituto Cattaneo, la perdita più importante si è avuta in Puglia (- 44,8%), Basilicata e Calabria (-39,4%), Abruzzo (-36,5%). Il partito di Bersani subisce un arretramento considerevole nell’area economicamente più dinamica del Centro-Sud. In controtendenza va il dato del Molise, unica regione dove il Pd ha migliorato la sua posizione guadagnando circa 7.000 voti, pari al 20% in più. Perdite inferiori, ma comunque nell'ordine di oltre un quinto dell’elettorato del 2008, si sono registrate nelle regioni settentrionali. Anche la ‘zona rossa’ ha conferito al Pd un numero assai minore di consensi, pari a un declino di oltre un quarto dei voti delle precedenti politiche (-26,3%).
Pdl. Il Pdl ha subito una riduzione dei consensi tra il 2008 e il 2013 pari a quasi il 50% (-46%, quasi -6.300.000 voti). In particolare nelle regioni centrali della penisola il partito di Berlusconi ha visto ridursi il proprio elettorato esattamente della metà (-50,1%), mentre nel resto delle aree considerate la variazione si è attestata tra il -44% e il -48%. L’unica area in cui il Pdl ha ‘contenuto’ la sconfitta è stato il Nord-est, in cui la riduzione dei voti è stata inferiore al 40% (-39% in media, -34% in Veneto).
Lega Nord. La Lega Nord ha perso oltre la metà dei consensi raccolti nel 2008 (-54%, -1.600.000 voti) con una riduzione molto superiore alla media nelle regioni della ‘zona rossa’ (-68%). L’evoluzione è stata più negativa nelle roccaforti del Nord-est (-61%), mentre nel Nord-ovest (-49%) il forte declino in Piemonte (-64,3 %) e Liguria (-68%) è stato solo parzialmente compensato da una perdita minore in Lombardia (“solo” il 44,2% in meno).

Sinistra radicale. La Sinistra radicale segna una crescita seppur contenuta dei voti, dovuta soprattutto al risultato estremamente negativo del 2008, quando la débacle della Sinistra arcobaleno non permise di accedere alla rappresentanza parlamentare. L’avanzamento è stato di 400.000 votanti, pari a circa il 30% in più. Dal punto di vista geografico la progressione maggiore si è registrata al Sud. Il risultato è stato invece assai meno favorevole al Nord, e in particolare nelle regioni del Nord-ovest, dove la crescita si è limitata a poche migliaia di voti in più rispetto al risultato molto negativo del 2008.
Destra. I partiti riconducibili all’area politica della Destra sono passati da quasi 1 milione di voti a poco più di 400.000. La perdita - sottolinea l'Istituto Cattaneo - è stata quindi considerevole, in media del 60%, più marcata nelle regioni del Nord rispetto al Centro-Sud.
Monti. La nuova aggregazione di Centro, guidata da Mario Monti, ottiene poco meno di 2 milioni di voti, dei quali quasi la metà (800.000) concentrati nel Nord-Ovest e solo una minima parte al Sud. In generale il partito di Monti, che ha ereditato il consenso politico dell’Udc moltiplicandolo, mostra un baricentro assai differente da quello del partito di Casini. Le regioni in cui cresce maggiormente (rispetto all’Udc del 2008) sono infatti il Trentino - Alto Adige (+252,5%) la Lombardia (+207,9%), la Liguria (+172,5%), ma in tutto il Nord avanza più nettamente rispetto al dato medio nazionale.

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venerdì 22 febbraio 2013

Partito Democratico: unica alternativa reale a Berlusconi

Il Governo Berlusconi si è caratterizzato per l’incapacità di riconoscere ed affrontare la crisi con una politica economica all’altezza della condizione grave che vive il paese. Inoltre, Berlusconi si è distinto a differenza dei paesi occidentali per le promesse non mantenute, per le leggi ad personam che lo hanno garantito dalle inchieste giudiziarie, per le illusioni e fantasie che ha espresso anche in questa campagna elettorale e per lo scempio della credibilità internazionale che ha sempre contraddistinto l’azione dei governi che si sono succeduti nel tempo.
Nonostante tutto questo il PDL rappresenta, oltre alla coalizione del centro sinistra, la forza politica che potrebbe vincere le elezioni se gli elettori non prendono coscienza della gravità della crisi economica e finanziaria del paese e della mancanza di credibilità di Berlusconi e della coalizione di centro destra incapaci di avviare un cambiamento di direzione.
La crisi finanziaria internazionale ha avuto effetti devastanti in Italia per le condizioni di debolezza in cui ha trovato il paese dopo anni di gestione del centro destra che non ha avviato riforme strutturali che consentissero competitività, giustizia, equità e sostegno alle fasce più deboli del paese.
Occorre, quindi, effettuare una scelta consapevole alle prossime elezioni politiche in direzione di una alternativa democratica e del cambiamento, rappresentati dal Partito Democratico e dalla coalizione del centro sinistra, unici veri competitori della deriva berlusconiana.
Il Partito Democratico, insieme ai partiti del centro sinistra, è l’unico vero partito che ha intrapreso un percorso democratico con le primarie per la scelta del premier e dei parlamentari. Gli altri partiti o movimenti non rispettano l’art. 49 della Costituzione e presentano un carattere personalistico ed autoritario che calpesta la democrazia interna. Ha iniziato Berlusconi con il partito personale e subito dopo lo hanno seguito gli altri partiti pur alternativi.
I partiti, diversi dalla coalizione del centro sinistra, non sono in condizioni per i consensi che rappresentano di essere un’alternativa al centro destra e, pertanto, si rende necessario esprimere un voto che si contrappone alla polverizzazione dei consensi altrimenti si fa il gioco di Berlusconi.
Pur rispettando tutti i partiti che si presentano nella prossima competizione elettorale, occorre prendere atto dei limiti dell’attuale sistema elettorale che non consente facilmente la formazione di un Governo con una chiara e solida maggioranza parlamentare.
Sono tre le condizioni che concorrono a scegliere il Partito Democratico alle elezioni del 24 – 25 febbraio:
1) Rafforzare l’alternativa al centro destra che è rappresentata solo dal centro sinistra;
2) Esprimere una scelta elettorale contro la frammentazione dei consensi che favoriscono il centro destra;
3) Scegliere il programma del Partito Democratico e del Centro Sinistra, il quale non è stato costruito negli ultimi giorni ma nasce da un percorso democratico, laborioso ed approfondito su tutti gli argomenti che interessano la società civile. Ai primi punti del programma vi sono il lavoro, il contrasto alla corruzione e l’emersione delle grandi ricchezze. Le risorse ottenute dalla lotta all’evasione verranno utilizzate per abbattere la tassazione sul lavoro e sulle imprese.
Se effettivamente ciascuno di noi si pone in alternativa al centro destra per i guai che ha causato è necessario per il bene del paese votare per il Partito Democratico.
Gli altri partiti o movimenti, da Ingroia al Movimento 5 Stelle, nonostante gli urli, non hanno una cultura di Governo, un programma elettorale credibile e non rappresentano un’alternativa democratica per i consensi limitati che rappresentano.
Non basta l’analisi dei problemi o peggio ancora gli strilli e gli urli contro, i quali possono essere effettuati da chiunque, ma occorre un programma solido e condiviso che porti l’Italia fuori dalla crisi nella giustizia e nell’equità e che privilegi le classi più deboli che hanno pagato e pagano gli effetti della crisi e del malgoverno del centro destra.
Giuseppe Civati pone una domanda che esprime i limiti dei partiti diversi dal PD:  “Sì, ma se vincete le elezioni poi che cosa farete?”
Schede di programma del PD

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giovedì 21 febbraio 2013

La Lega Nord alla prova dei fatti e dei risultati

di Gianluca Passarelli e Dario Tuorto
Dopo un triennio di partecipazione al governo Berlusconi (2008-2011), il ricambio di leader e di (parte della sua) classe dirigente, un anno di opposizione frontale al governo Monti, la Lega Nord che si presenta al voto del 24-25 febbraio 2013 è un partito consapevole della decisività di questo test. Se la rinnovata quanto accidentata (e potenzialmente fatale) alleanza elettorale con il centro-destra non sarà probabilmente sufficiente a vincere le elezioni, il concomitante appuntamento per il rinnovo del consiglio regionale lombardo rappresenta un terreno di competizione più accessibile per il segretario Maroni, direttamente in campo per la carica di governatore. In questa partita il segretario leghista ha saputo giocare su tavoli diversi,vincolando le alleanze locali a quelle nazionali dentro una strategia politica in cui, palesemente, il livello nazionale (il rapporto con il Pdl) è stato lo strumento attraverso cui il Carroccio ha provato a reinventare presenza, ruolo,prospettive di azione.
Tutto questo sarà sufficiente alla Lega per rimanere in gioco e continuare a contare come forza politica di rottura? Le incognite sono numerose e l’avverarsi di scenari negativi foschi, impensabili sino a un anno fa, non più una remota possibilità. La vittoria a Roma e in Lombardia – scenario di difficile realizzazione ma ipotizzabile laddove le performance nazionali del partito fossero rilanciate proprio dal valore aggiunto del voto lombardo – testimonierebbe, indipendentemente dal risultato del Pdl, la vitalità di un partito capace di risollevarsi dall’impatto mortifero degli scandali e della transizione di dirigenti e leader. Ma anche una vittoria confinata alle sole elezioni regionali lombarde finirebbe per rafforzare la leadership maroniana, capace di costruire una forza piccola ma determinante, in grado di di imporre tre governatori leghisti nella principali regioni del Nord: sogno per i cuori leghisti, incubo per gli altri partiti e per la diplomazia europea.
Ovviamente, la doppia sconfitta sul piano nazionale e locale aprirebbe, con ogni probabilità, una grave crisi per il partito, con la messa in discussione della segreteria, la possibile rottura delle alleanze con il Pdl e l’inizio di una forte (e probabilmente definitiva) spinta centrifuga delle periferie. L’esito negativo in Lombardia,anche in un quadro di sostanziale quanto improbabile tenuta del partito a livello nazionale, disegnerebbe infine uno scenario altrettanto problematico, in cui si paleserebbero con rinnovato vigore le storiche divisioni tra fazioni regionali, in primis tra gruppo veneto e lombardo, ma anche il ritorno sulla scena della vecchia classe dirigente bossiana defenestrata o depotenziata. La querelle tra Liga Veneta e Lega Lombarda, e le malcelate antipatie e diffidenze tenute a bada con pugno di ferro dal carisma e dal potere di Bossi, sarebbe la prospettiva plausibile. Una versione aggiornata dei duelli tra fratelli coltelli Bossi-Rocchetta, ma senza la presenza del leader fondatore e con un bacino elettorale assai esiguo rispetto ai roboanti risultati dello scorso triennio.
Sullo sfondo, resta l’incognita Tosi, unico leader in grado di sostituire l’attuale segretario partendo da una posizione personale di successo, ma che potrebbe anche cercare fuori dalla Lega lo spazio politico per un suo rilancio. Un leader, Tosi, capace con un triplo carpiato di lasciarsi alle spalle o negli armadi lo scheletro dell’imbarazzante e mai abiurata militanza nelle fila della Verona bene/nera, e di farsi artefice della nuova rappresentanza di un territorio orfano di interlocutori dai tempi della “Balena bianca”. Una mossa intelligente e abile quella di Tosi,consapevole ma negata sfrontatamente, tesa a riallacciare i legami con le tessere e l’elettorato ex-democristiano. Elettorato che potrebbe in magna pars confluire su Grillo, anche in ragione della non brillante alternativa offerta da PD & Company, troppo lenti a comprendere che la ‘questione settentrionale’ rimane aperta anche senza una LN con percentuali di voto a due cifre.
Tra il Carroccio a guida Bossi e quello dei barbari sognanti (rampanti) di Maroni molto è cambiato in termini di candidature, personale politico e temi. Maroni ha saputo focalizzare l’azione politica attorno a un progetto chiaro e circoscritto: un partito «territoriale» normale. Purtroppo, del tentativo di emulare la CSU tedesca o i partiti catalani è rimasta solo qualche enunciazione, e degli Stati generali convocati a Torino uno sfocato ricordo e il sostanziale fallimento di un meritevole tentativo. La campagna elettorale sottotono, volta a presentare il partito come una moderna forza regionalista/conservatrice, ha rapidamente subito una torsione a favore di messaggi rassicuranti, ma antichi, vecchi. Il razzismo edulcorato è ben visibile nei messaggi audio/video della propaganda leghista. Maroni pare rimasto in mezzo al guado, posizione esiziale per un politico. Da un lato il passato che non passa, le camicie verdi e le ampolle del Po,saggiamente archiviati insieme al raduno mangereccio di Pontida, dall’altro l’approdo verso una destra moderna. Le idee di macro/euroregione e i vaneggiamenti su una moneta locale hanno tradito un richiamo alla dottor Stranamore. La presenza ingombrante di Formigoni e Berlusconi alleati ha infine sugellato l’imbarazzo del nuovo corso maroniano e depresso l’entusiasmo della base, spesso prevaricata, illusa ma sempre tenace e vero asse portante del Carroccio. Per garantire la sopravvivenza del partito tutto questo “fare” di Maroni potrebbe non essere sufficiente. E l’alleanza con Berlusconi, oltre a generare imbarazzate smentite (vedi condono fiscale), rischia di sancire un canto del cigno, mentre dilaga l’insidiosa sfida ‘populista’ rappresentata dal Movimento 5 stelle. Pochi giorni e sapremo cosa resta di Lega & Padania.

Gianluca Passarelli e Dario Tuorto sono gli autori di Lega & Padania. Storie e luoghi delle camicie verdi, Il Mulino 2012.
"La Lega è un “Partito tradizionale che cavalca i temi cari all’estrema destra, come l’immigrazione e la sicurezza; partito territoriale sul modello della Csu bavarese e degli autonomisti catalani; o, ancora, forza politica trasversale alla destra e alla sinistra, destinata a scompaginare i vetusti schieramenti ereditati dal Novecento. C’era un solo modo per sciogliere simili dubbi: dare la parola ai leghisti. È quello che fa il libro. Ripercorsa la storia del movimento, sfogliato l’atlante del suo insediamento elettorale, tracciati gli organigrammi interni (fazioni, posizionamento rispetto a Bossi), si delinea, al di là dei miti e delle fantasie giornalistiche, il popolo leghista. Militanti, eletti, ceto politico vivono oggi – con la crisi economico-finanziaria – una sofferta transizione, mentre ritornano i temi carsici del partito, dalla Padania alla secessione”.
Gianluca Passarelli assegnista di ricerca nel Dipartimento di Scienza politica dell’Università di Bologna e ricercatore dell’Istituto Cattaneo; fa parte di Itanes. Tra le sue pubblicazioni «Monarchi elettivi?» (Bononia University Press, 2008) e «Presidenti della Repubblica» (a cura di; Giappichelli, 2010).
Dario Tuorto è ricercatore in Sociologia presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna; fa parte di Itanes. Ha pubblicato per il Mulino «Apatia e protesta. L’astensionismo elettorale in Italia» (2006).

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martedì 19 febbraio 2013

L’Italia giusta



"L’Italia ce la farà se ce la faranno gli italiani. Se il paese che lavora, o che un lavoro lo cerca, che studia, che misura le spese, che dedica del tempo al bene comune, che osserva le regole e ha rispetto di sé, troverà un motivo di fiducia e di speranza".
Adesso più di prima occorre uno scatto di orgoglio e di difesa della dignità da parte degli italiani per fare naufragare l’obiettivo di Berlusconi di ritornare al potere per continuare a fare i propri interessi e quelli delle grandi ricchezze.
Solo con il Partito Democratico può essere avviato un grande cambiamento per l’Italia giusta dove i più deboli potranno essere sostenuti da un paese equo e solidale.
Per tali motivi il 24 - 25 febbraio vota Partito Democratico.

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lunedì 18 febbraio 2013

Migliorare la democrazia in Italia

Articolo di Michele Salvati pubblicato sul Corriere della Sera il 17 febbraio 2013
Nella celebre battuta di Winston Churchill ? «La democrazia è il peggior sistema di governo... tranne tutti gli altri» ? l'attenzione è attratta dalla seconda parte della frase, dove risiede l'effetto spiazzante della battuta. Ma anche la prima parte merita attenzione: la democrazia rappresentativa, la scelta dei rappresentanti ? e del governo,direttamente o indirettamente ? mediante suffragio universale può rivelarsi in molti casi un cattivo sistema, anche in Paesi avanzati, anche dove sono presenti le istituzioni di uno Stato di diritto, figuriamoci in quelli in cui tali istituzioni non esistono. La battuta di Churchill non dev'essere dunque letta in modo consolatorio, come se raccomandasse: teniamoci in ogni caso la democrazia come effettivamente funziona, anche se funziona male, visto che gli altri sistemi sono comunque peggio. Al contrario, essa va letta soprattutto come un invito a migliorare la qualità della democrazia e a renderla compatibile con un buon governo. Un governo che sappia identificare in modo lungimirante gli ostacoli reali che si frappongono al benessere dei cittadini (e dei loro figli e nipoti) e sappia muoversi con determinazione e continuità per superarli. La scelta non è dunque tra democrazia e non-democrazia, ma tra democrazie di diversa qualità.
La nostra democrazia, bene o male impiantata in uno Stato di diritto, appartiene al novero delle buone democrazie. Non delle migliori, però. «Quanto sono buone, le buone democrazie?», si chiede Stein Ringen in What democracy is for (Princeton, 2007). E risponde che la nostra è la peggiore tra quelle prese in considerazione. Dei criteri e degli indicatori adottati da Ringen si può discutere. Ma non del fatto che essi rimandino anche a tratti profondi e antichi del nostro «State and Nation building», alla profonda spaccatura territoriale del nostro Paese, al disegno inadeguato delle sue istituzioni, alla cattiva qualità delle sue amministrazioni pubbliche e di molte private, all'illegalità, alla criminalità, allo scarso civismo, alla corruzione, tutti fenomeni sociali più diffusi in Italia che in altre «buone democrazie». E tutti tratti istituzionali che ostacolano le politiche pubbliche rivolte a migliorare la cattiva situazione in cui versiamo, a contrastare il declino cui sembriamo condannati, e che inducono per ragioni di urgenza a insistere più sul rigore che a promuovere crescita in condizioni di equità.Mario Monti ha raccolto in eredità un Paese logorato, nel quale, dopo la prima grande ondata di crescita economica, a partire dalla seconda fase della Prima Repubblica e per gran parte della Seconda, si era fatto assai poco per estirpare quei fenomeni sociali e quei tratti istituzionali che presto o tardi avrebbero soffocato il nostro sviluppo: con l'inflazione, i disavanzi e il debito degli anni 70 e 80 avevamo solo dilazionato il redde rationem. Si è allora reso conto di quanto necessaria, ma anche lunga e difficile sia la cura, se deve aggredire fenomeni sociali e tratti istituzionali così profondamente radicati. Si è reso conto inoltre che una lotta politica centrata su una opposizione violenta e rissosa tra destra e sinistra, come quella che abbiamo vissuto e tuttora stiamo vivendo nella Seconda Repubblica, sia più un ostacolo che un aiuto ad affrontare obiettivi di riforma nei confronti dei quali destre e sinistre civili non dovrebbero opporsi, ma unirsi in una lotta comune. Quest'ultima convinzione, a volte espressa con ingenua brevità, ha suscitato sia scetticismo che scandalo.
Lo scetticismo è quello espresso dalla famosa battuta, attribuita a Mussolini, secondo cui tentare di cambiare la testa agli italiani non è difficile, è inutile. Ma combattere la corruzione, l'illegalità e la criminalità, migliorare la pubblica amministrazione, non equivale a «cambiare la testa» a nessuno. Non si ambisce a costruire l'«Uomo nuovo» cui volevano arrivare i regimi totalitari di un infausto passato, tant'è vero che quell'obiettivo è stato raggiunto in molti Paesi impeccabilmente liberali e democratici. E altrettanto fuori luogo è lo scandalo. Come ho cercato di argomentare in un mio recente articolo su La Lettura, non credo proprio che Monti giudichi irrilevanti le sacre categorie di destra e sinistra. Al contrario, l'obiettivo è quello di migliorare la qualità della nostra democrazia, far svolgere l'eterno confronto tra destra e sinistra in un contesto civile, nel quale i caratteri demagogici e populistici che lo inquinano oggi nel nostro Paese siano stati attenuati, se non sradicati.

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martedì 12 febbraio 2013

Il Paese bloccato per i giovani

Articolo di Giuseppe Bedeschi pubblicato sul Corriere della Sera l’11 febbraio 2013
I dati relativi alla crisi economica che ha investito da alcuni anni il mondo industriale occidentale si intrecciano in Italia con i dati relativi al declino che nel nostro Paese era iniziato già da molto tempo. E si tratta di un intreccio impressionante, come ben mostra, con ricchezza di documentazione, Alessandro Rosina (professore di demografia e statistica sociale all'Università cattolica di Milano), nel suo saggio L'Italia che non cresce. Gli alibi di un Paese immobile (Laterza). Vediamo alcuni di questi dati.
In Italia il Pil (Prodotto interno lordo) è passato da una crescita media del 3,6% negli anni Settanta, al 2,4% negli anni Ottanta, all'1,6% negli anni Novanta, fino al modestissimo 1,1% negli anni pre-crisi del primo decennio di questo secolo. Tutto ciò è avvenuto nel quadro di una forte crisi demografica, unica in Europa per la sua gravità: siamo stati i primi al mondo a vedere gli over-65 superare gli under-15; e di questo passo entro il 2050 gli anziani raggiungeranno il peso di una persona su tre. Naturalmente questa crisi demografica ha uno stretto rapporto con le bassissime risorse che l'Italia ha destinato alla famiglia, sicché molti servizi essenziali (a partire dagli asili-nido) sono stati drammaticamente insufficienti. Basti pensare che, per quanto riguarda la spesa sociale, alla voce Famiglia, l'Italia destina l'1,3% del Pil: è il valore più basso dell'Europa occidentale (la media europea è del 2,1%).
Un osservatore straniero, che venisse da noi da lontane contrade, potrebbe attendersi che in una situazione di questo genere i nostri giovani, le cui schiere si sono così assottigliate, abbiano molte strade aperte e buone prospettive. Ma le cose, purtroppo, non stanno affatto così: anzi il nostro Paese è quello, in Europa, che più emargina i giovani. Tra il 2001 e il 2010 l'Italia ha perso circa un milione e mezzo di occupati nella fascia d'età compresa fra i 15 e i 34 anni. È il peggior crollo di lavoro giovanile in Europa.
In realtà, la questione giovanile è la questione più drammatica della situazione italiana, ed è il concentrato di tutte le sue storture, il riassunto più eloquente di tutte le sue ingiustizie. Per intendere la gravità della condizione dei giovani bastano alcune cifre: tra il 2008 e il 2010 la crisi economica ha ridotto del 13% l'occupazione dei nostri giovani (mentre ha ridotto del 3% quella dei giovani tedeschi). L'Italia è anche uno dei Paesi con la percentuale più alta di under-30 che dipendono economicamente dai genitori. La cosa non può stupire se si tiene presente che su circa 7,8 milioni di giovani, quelli pienamente inseriti nel mercato del lavoro sono non più di 2,2 milioni (meno del 30%); se si tolgono gli studenti, si arriva a poco più del 40%. Ciò significa che la grande maggioranza dei giovani che hanno concluso gli studi è esclusa o mal inserita. Inoltre c'è non solo una forte instabilità nel lavoro dei giovani all'ingresso (la grande maggioranza dei contratti per i giovani è a breve scadenza: nel 2011 il numero dei cosiddetti precari si attestava intorno ai 3,3 milioni), ma c'è anche una riduzione delle possibilità successive di stabilizzazione. In questo quadro non può meravigliare il deterioramento delle condizioni retributive del nostro mondo giovanile: i salari dei giovani italiani risultano mediamente più bassi rispetto a quelli dei coetanei europei. All'origine di questa disastrata condizione giovanile italiana ci sono anzitutto due fattori: la mancata crescita economica o una crescita irrisoria (che dura ormai da più di un quindicennio), e il dualismo del mercato del lavoro. Il dualismo si basa sul fatto che gli anziani occupati godono di tutti i diritti e di tutte le protezioni, mentre i giovani non hanno nessuno di quei diritti e nessuna di quelle protezioni. I giovani sono così colpiti dalla brevità dei loro contratti, dalla inferiorità dei loro salari, dalla atroce instabilità del loro lavoro (è infinitamente più facile non rinnovare il contratto di un giovane che licenziare un lavoratore maturo, anche quando il primo è più produttivo del secondo); per non parlare poi delle misere prospettive delle pensioni future.
Per porre rimedio alla estrema gravità della situazione giovanile italiana occorre certamente aumentare (come dice Rosina) la spesa sociale a favore delle nuove generazioni, che da noi è la più bassa in Europa; occorre investire in formazione; occorre istituire un raccordo efficace fra scuola e mondo del lavoro (oggi molte imprese non riescono a soddisfare le loro necessità di manodopera tecnica), ecc. ecc. Ma occorre superare, prima di tutto, il dualismo del mercato del lavoro, che punisce così gravemente i nostri giovani. Così come occorre, naturalmente, riavviare la crescita, promuovendo quelle liberalizzazioni, quella rimozione di privilegi corporativi, quelle riduzioni della spesa pubblica in settori parassitari per abbassare le tasse e finanziare investimenti produttivi, che fino ad oggi ci sono state promesse, ma che non sono mai state realizzate.

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domenica 10 febbraio 2013

Ambrosoli contro il localismo in Lombardia

Lettera di Piero Bassetti pubblicata sul Corriere della Sera il 9 febbraio 2013
Caro direttore, voglio manifestare al Corriere una preoccupazione da cittadino, a pochi giorni da elezioni regionali della cui importanza nessuno può dubitare, ma che vedono in gioco, tra i possibili candidati, anche un rappresentante della Lega Nord.
La mia esperienza di convinto autonomista e regionalista, nonché di primo presidente della Regione Lombardia, mi portano infatti a ritenere che la proposta fatta ai lombardi per la costruzione nell'Italia del Nord, in alleanza con Piemonte e Veneto, di una grande regione padana intrinsecamente secessionista perché intenzionata a trattenere per sé gran parte delle risorse fiscali che lo Stato italiano riscuote, possa apparire suggestiva. Tanto più perché affidata alla proposta di votare una persona come Roberto Maroni, ex ministro e incontestabile rinnegatore delle peggiori rozzezze del leghismo prima maniera. Proprio per questo sono profondamente preoccupato: perché se gli elettori lombardi cadessero nella trappola leghista, non solo farebbero un madornale errore storico ma potrebbero segnare una svolta gravemente pericolosa per l'intero nostro Paese. Un Paese nel quale è innegabile l'esistenza di una grave «questione settentrionale», per risolvere la quale è assolutamente necessario cominciare a pensare a come intendiamo gestire la fine dello Stato nazionale accentrato la cui inaccettabile inefficienza - e ormai anche insussistenza - è sotto gli occhi di tutti, compresi quelli del nostro capo dello Stato quando viene a Milano a visitare le «sue» carceri. Ma un conto è proporsi di superare l'attuale Stato centralista, retaggio degli errori risorgimentali del 1862, per prepararsi all'Europa in modo da valorizzare le diversità regionali che da sempre caratterizzano la storia della nostra Penisola, un conto è proporre a Piemonte, Lombardia, Veneto di chiudersi su se stesse, isolandosi in una nuova versione di localismo a scala aggiornata. E questo in una grande regione che giustamente si vanta di essere tra le più ricche d'Europa, ma che sa anche di esserlo perché da sempre aperta non solo al resto d'Italia ma soprattutto all'Europa e al mondo.
I lombardi sanno infatti benissimo che l'incivilimento, il capitale sociale, la ricchezza non si costruiscono isolandosi e mettendo i soldi sotto il proprio materasso, bensì investendoli, facendone affluire il più possibile da fuori, coltivando la nostra atavica capacità di aprirci, di essere realmente «terra di mezzo» e di esserlo non soltanto tra Nord e Sud della Penisola ma soprattutto tra Nord e Sud dell'Europa, tra Nord e Sud del mondo. Così come sanno che in una regione di più di 9 milioni di persone, nella quale Milano ne conta solo un po' più di un milione e nella quale più della metà degli abitanti sta su territori ormai urbanizzati, il rapporto con l'Europa e col mondo riguarda quasi tutti noi e non è più mediato solo dal capoluogo o da Roma - la questione delle quote latte dovrebbe pure averlo insegnato ai leghisti! - ma semmai da potenti interessi funzionali spesso multinazionali. Quello che forse sanno meno è che, proprio in considerazione di tutto ciò, l'Europa ha già scelto di impostare il suo futuro sviluppo sulla rete delle grandi aree urbane che da sempre la innervano, e che proprio alla glocal city a sud delle Alpi sta affidando il compito di fare da cerniera tra Europa del Nord e Mediterraneo.
Ma è qui che una classe dirigente che voglia essere tale è chiamata a inserirsi. Per spiegare quanto grave sarebbe che dalle urne uscisse un verdetto fatalmente destinato a mettere l'ente Regione in conflitto con la rete dei Comuni chiamati a gestire il loro sviluppo urbano, fatalmente smart oltre che «glocale».
Perché se veramente vogliamo riordinare la statualità dell'Italia cominciando dalla nostra Regione, tutto dobbiamo volere tranne che un bagno di neolocalismo, per cogliere invece - con la grande novità di rapporto tra forze politiche tradizionali e forze nuove di diretta emanazione civica - la proposta di nuovo sviluppo che il patto civico di Umberto Ambrosoli contiene. La vera sfida per la Lombardia di oggi non è certo quella di separarci dal resto dell'Italia e del mondo, ma semmai quella di porre le basi per un nuovo Risorgimento: un risorgimento all'Europa. Un Risorgimento non solo scevro dagli errori di centralismo che furono del primo, ma nel quale la Lombardia e Milano sappiano ritrovare il ruolo allora mancato. Qualcosa del genere si è già intravisto a Milano nel 2011: il 51% per una linea di progresso fu allora raggiunto. L'augurio è che qualcosa di simile possa ripetersi per evitare alla Lombardia i rischi di soluzioni localistiche o condominiali.

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sabato 9 febbraio 2013

IMU: illusione o realismo

Prima di entrare in merito al dibattito che si è aperto sull’Imu ritengo utile tenere presente due considerazioni:
-"Gli italiani hanno bisogno della verità delle cose, senza sconti, senza tragedie, ma anche senza illusioni", afferma il cardinale Bagnasco, la gente non si fa più abbindolare da niente e da nessuno";
- Nel 2011, secondo il rapporto Istat, in Italia le famiglie in condizione di povertà relativa sono 2 milioni 782 mila (l'11,1% delle famiglie residenti) corrispondenti a 8 milioni 173 mila individui poveri, il 13,6% dell'intera popolazione.
Per quanto riguarda il primo punto il campione delle promesse non mantenute e delle illusioni è Silvio Berlusconi, il quale negli ultimi giorni è portatore di proposte difficilmente realizzabili per il quadro finanziario del paese, tra le quali si indica l’eliminazione dell’IMU sulla prima casa.
Il secondo punto che riguarda la povertà deve essere considerato dai politici, impegnati nella campagna elettorale, nella formulazione delle proposte di politica economica altrimenti l’equilibrio del paese rimane stabile ed inalterato a discapito delle fasce più deboli e della nuova povertà.
Nell’ultimo periodo Silvio Berlusconi per motivi esclusivamente elettorali ha proposto illusioni e promesse: l’abolizione dell’IMU sulla prima casa a partire dal 2013, la restituzione dell’IMU sulla prima casa pagata dai contribuenti, il condono tombale ed edilizio e 4 milioni di posti di lavoro.
La proposta viene illustrata dall’ex ministro Renato Brunetta, il quale non affronta i limiti esposti da analisti ed esperti. Inoltre l’obiettivo di sostenere la domanda di consumo è discutibile in quanto sono privilegiati i più ricchi la cui domanda di consumo è ininfluente in rapporto alla situazione economica del paese. Per sostenere la domanda di consumo occorre abbassare la tassazione sui redditi di lavoro e di impresa.
La proposta dell’IMU di Berlusconi è stata molto criticata per due motivi principali:
- la copertura finanziaria di circa 8 miliardi proposta da Berlusconi è incerta (accordo con la Svizzera sulla tassazione dei capitali italiani esportati)e appesantisce il debito pubblico con il pagamento degli interessi (anticipazione della Cassa Depositi e Prestiti e del sistema bancario);
- il considerevole beneficio per i contribuenti più ricchi in un momento in cui hanno bisogno di sostegno i contribuenti più poveri.
L’analisi del deputato del PD Antonio Misiani, pubblicata su Nens, sulla proposta Berlusconi sull’abitazione principale sottolinea “un forte benefico per il 20% dei contribuenti più ricchi,che beneficerebbero nel 2013 di uno sgravio pari a 3,572 miliardi di euro. Il beneficio sarebbe invece minimo per il 20% dei contribuenti più poveri, che pagherebbero 406 milioni di euro in meno. Una cifra di 8,8 volte inferiore allo sgravio garantito ai più ricchi”.
Ancora una volta le proposte di Berlusconi privilegiano i più ricchi e non tengono in considerazione la sofferenza sociale dei più poveri sui quali grava maggiormente la crisi italiana.
“Le ingenti risorse necessarie,afferma Misiani, per esentare le abitazioni principali di valore più elevato potrebbero infatti essere meglio finalizzate utilizzandole per ridurre il carico fiscale sui redditi da lavoro e da impresa”.
Il Partito Democratico per bocca di Bersani propone di innalzare la detrazione da 200 a 500 euro sulle abitazioni principali. In questo caso il finanziamento dell’agevolazione avverrebbe con un prelievo graduale sui grandi patrimoni immobiliari a partire da almeno tre milioni di euro di valore commerciale. La proposta del PD sull’Imu è illustrata  in modo chiaro e completo da Stefano Fassina.
Il senatore Marco Stradiotto  in uno specifico documento afferma che con l’innalzamento della detrazione dai 200 euro attuali ai 500 euro proposti dal PD i contribuenti soggetti all’Imu sarebbero circa 4 milioni e che l’80%, circa 16 milioni di proprietari di prima casa, non pagherebbe l’Imu.
La proposta del PD è migliore rispetto a quella di Berlusconi, è facilmente realizzabile, non presenta problemi di copertura finanziaria ed è progressiva in rapporto al patrimonio immobiliare dei soggetti.
In questo momento di grave crisi economica del paese occorre pensare ai ceti più deboli ed ai nuovi poveri e per tale motivo ritengo che la detrazione sull’IMU andrebbe applicata ai proprietari della sola casa di abitazione o rapportata al valore del patrimonio immobiliare. Non bisogna fare l’errore di favorire i grandi patrimoni immobiliari per stabilire dei privilegi a favore dei più poveri.

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mercoledì 6 febbraio 2013

Vincenzo Visco: l’illegalità sistematica

Articolo di Bianca Di Giovanni pubblicato su l’Unità del 5 febbraio 2013
«Torna il modello dell`illegalità sistematica». Vincenzo Visco non sa proprio come reagire alle ultime esternazioni di Silvio Berlusconi sul condono tombale. Che fanno seguito a quelle sull`Imu, sull`accordo con la Svizzera, sulla criminalizzazione di Equitalia. Una miscela populista ad alto grado di irresponsabilità. «Cose che hanno dell`incredibile», esclama Visco. Il modello è lo stesso del 1994, poi del `96, poi del 2001, poi del 2008. Fino a oggi, il 2013.
Quasi 20 anni con la stessa proposta fiscale.
«Quella che ha portato il Paese al disastro», commenta l`ex ministro del Tesoro.
Professore, è sempre la stessa musica.
«Certo, è il modo in cui hanno governato e hanno portato il Paese vicino al default. Berlusconi continua a prospettare un modello che si basa sull`illegalità sistematica a diversi livelli: quello fiscale, quello della lotta alla corruzione che diventa tolleranza. Fare i condoni è il modo migliore per non risanare il bilancio. Si esercitano su misure spot e sulle dismissioni del patrimonio pubblico: e naturalmente non risanano nulla. Il condono è un principio contro ogni legalità internazionale: non credo proprio che faccia bene al Paese. Se si vuole portare il Paese al default la linea di Berlusconi è ottima».
Solo per il condono?
«Certo che no. Anche, per esempio, per tutte quelle dichiarazioni sul ritorno alla lira. Berlusconi deve sapere che uscire oggi dall`euro equivale al fallimento di tutte le banche con un impoverimento di tutto il Paese e il fallimento delle imprese. Non si fa una cosa così, con l`integrazione europea in corso».
Sono slogan elettorali.
«Difatti la campagna elettorale è surreale. Si parla di cose irrilevanti, o senza senso, e non si parla di quello di cui il Paese avrebbe bisogno: una seria spending review, provvedimenti per l`industria, per la creazione di lavoro, per l`edilizia. Invece tutti parlano di Imu, di Irap, di condoni. C`è da restare allibiti».
Per la verità anche Monti ha utilizzato questa strategia.
«Lo stavo per dire: in questo si è distinto anche lui, in un certo senso rinnegando se stesso. Era arrivato con un messaggio di serietà, di responsabilità, di consapevolezza. Oggi mi sembra lontano da quel livello. In più ci sono i media, che invece di chiedere le cose più serie, si acconciano alla demenzialità degli slogan. Possibile che nessuno si chieda: che modello di sviluppo c`è nei condoni? Che modello di sviluppo è quello che dice che non si riscuotono le imposte?».
Il messaggio berlusconiano non è mai stato così articolato.
«No di certo: il suo è tutto un ammiccamento. Prima ha strizzato l`occhio ai fascisti, poi agli evasori. È una fitta serie di messaggi devianti. Poi questo si sovrappone a Grillo, che a sua volta si sovrappone a Ingroia. Così procediamo allegramente verso il disastro. La verità è che in Italia se si fa casino la gente ti viene dietro».
Beh, questo è il populismo. È così un po` dappertutto.
«Non è vero. In altri Paesi i cittadini chiedono anche di avere una prospettiva, non solo un vantaggio a breve termine, immediato. Da noi si continuano a perpetuare divisioni tra diversi lavoratori, e non si pensa al bene comune. L`unico che non segue questa linea è Bersani, e vedo che qualcuno comincia pure a rimproverarglielo. Roba da pazzi».
Forse il mondo a cui si rivolge oggi è limitato: il lavoro dipendente non è più così centrale.
«C`è un mondo in crisi, in cui i dipendenti perdono lavoro e le imprese falliscono. Bisogna ridare prospettive a tutto il Paese nel suo insieme, invece il centrodestra perpetua la divisione tra evasori e chi paga i servizi».
Un modello già sperimentato.
«Infatti, si conferma che è un modello sbagliato perché ha portato a un`involuzione. Il Paese non ha alcuna strategia per il futuro. Il momento per voltare pagina è questo. Bisognerebbe dire: basta con il passato e rimettiamoci al lavoro. Invece di fronte a questi vecchi slogan non vedo nessuna ribellione».
Anche il Pd non appare molto innovativo.
«Dipende da cosa s`intende per innovazione. In Europa vuol dire andare oltre gli interessi nazionali per favorire l`integrazione. Berlusconi non può realizzare questo perché ormai in Europa è un paria. Poi c`è la questione interna, che richiede un risanamento morale, con regole non asfissianti ma di civiltà. Infine l`economia, che richiede il consolidamento dei conti, e poi interventi mirati per attirare capitali (e qui servono nuove regole giuridiche) e per avviare politiche espansive rispettando i vincoli. Il che vuol dire modificare la composizione del bilancio: un lavoro duro, molto faticoso. Servirebbe una transizione che finisca con una buona ripresa economica. Solo così il Paese manterrà il ruolo internazionale, uscendo dalla decadenza e l`irrilevanza in cui lo ha confinato il berlusconismo».
Come giudica l`accordo con la Svizzera, che Brunetta considera vicino?
«Ma non avevano detto che facevano gli scudi per far tornare i capitali dall`estero? Invece sono ancora lì, e con il caso Mps sappiamo a chi hanno fatto favori. Quanto all`intesa, con il mantenimento del segreto mi pare difficile. E poi la Francia non la vuole e la Germania l`ha bloccata. Di cosa parliamo?».

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martedì 5 febbraio 2013

ISEE riformato per il Welfare

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 3 febbraio 2013
Sulla spesa pubblica non è più tempo di furbizie. Chi riceve prestazioni sociali collegate alla situazione economica deve rispettare le regole; lo Stato deve dotarsi di uno strumento più efficace per selezionare i veri bisognosi. Senza progressi in queste direzioni non può esserci equità né giustizia sociale.
Le dichiarazioni “infedeli” per accedere a prestazioni agevolate sono numerosissime. Milioni di italiani riescono così a non pagare i ticket sanitari, i contributi per gli asili nido, le mense scolastiche, l’assistenza domiciliare; a fruire di sconti sulle bollette o sulle tasse universitarie; a ottenere borse di studio o sussidi assistenziali. A seguito di recenti verifiche, è risultato che il 10% dei beneficiari della cosiddetta social card era privo dei requisiti previsti. Come è possibile tollerare ancora questa situazione?
Lo strumento per selezionare i veri bisognosi si chiama Isee: indicatore della situazione economica equivalente. Fu introdotto da Livia Turco nel 2000, ma la sua efficacia è limitata. Nel 2012 il sottosegretario al welfare del governo Monti ha svolto un lavoro certosino per calibrare meglio l’indicatore, ascoltando chiunque avesse proposte e suggerimenti. Il provvedimento di riforma è pronto, ma la sua approvazione da parte del governo è in forse. Rimandare sarebbe un terribile errore: non è detto che si ripresenti l’occasione.
La riforma dell’Isee serve innanzitutto a contrastare sprechi e frodi. Perché agevolare chi dichiara il falso e probabilmente ha già evaso le imposte? Se usato bene, questo strumento potrebbe portare anche a un recupero dell’evasione, ad esempio concentrando una quota di accertamenti fiscali proprio fra la platea di “agevolati”. Nel medio periodo il nuovo indicatore potrà tuttavia essere usato per filtrare l’accesso a tutta la gamma di prestazioni già oggi collegate alla condizione economica, ma con regole caotiche e spesso inique. Integrazioni al minimo, assegni di invalidità civile, pensioni ai superstiti, maggiorazioni di varia natura: perché i beneficiari di questi trattamenti debbono godere di vantaggi (come la sola considerazione del reddito individuale, per giunta con varie esenzioni) rispetto a chi richiede la social card o l’assegno di maternità? L’interrogativo è sensato anche perché i dati segnalano che una quota consistente di denaro “assistenziale” arriva a persone che certo povere non sono. Prendiamo la pensione sociale, pensata per gli “ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito”. Quasi il 5% dei beneficiari possiede redditi familiari superiori ai 45 mila euro annui: un controsenso. La percentuale sale a quasi il 15% nel caso delle indennità di accompagnamento, che non sono (ma dovrebbero essere) collegate al reddito.
E’ difficile stimare i risparmi conseguibili attraverso l’applicazione del nuovo Isee e la sua estensione a tutte le prestazioni oggi soggette a requisiti economici. In prima approssimazione si può parlare di almeno 10, forse 15 miliardi di euro l’anno (quasi un punto percentuale di PIL). E’ quasi superfluo sottolineare che una simile cifra aprirebbe in seno al bilancio pubblico margini consistenti per finanziare quel “nuovo welfare” di cui parliamo da almeno quindici anni: politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione (soprattutto dei bambini), asili di qualità, formazione, conciliazione, non autosufficienza.
Chi è contrario al nuovo Isee e perché? Per quale ragione non ha parlato durante il lungo periodo di consultazione? Si tratta di una delle tante riforme “da cacciavite” di cui il nostro Stato ha enorme bisogno. Attenzione a boicottarla: ci priveremmo di una “leva d’Archimede” con cui sollevare il mondo del welfare italiano, rendendolo più equo ed efficace.

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lunedì 4 febbraio 2013

Berlusconi sempre più bugiardo

Berlusconi e di conseguenza il Pdl non affrontano i veri problemi della crisi economica italiana ma si dedicano alla propaganda ed alle bugie per aumentare i consensi.
I nodi della crisi riguardano: la spesa pubblica, il debito pubblico, le risorse, la creazione di ricchezza,l’evasione fiscale, la corruzione. L’obiettivo nell’affrontare i temi indicati sono:aumentare l’occupazione e la competizione delle imprese italiane, attrarre gli investimenti esteri e coniugare il rigore con lo sviluppo, tenendo presente che “l’austerità ed il rigore è la condizione dello sviluppo e non l’obiettivo”, come afferma Bersani.
Oggi in Italia vi è una forte sperequazione e disuguaglianza e, pertanto,occorre sostenere le fasce più deboli e ridistribuire la ricchezza tra le classi sociali attraverso una riforma fiscale equa: “Chi ha di più paghi di più”. Tutto questo è praticabile attraverso l’emersione delle ricchezze e dell’economia sommersa e la eliminazione degli sprechi che tolgono risorse al paese ed impoveriscono sempre di più classe media ed ceti più deboli. Per i motivi indicati non è giusto parlare di detassazione della prima casa, di cui beneficeranno le grandi ricchezze patrimoniali, ma di rimodulazione dell’Imu in modo progressivo,tenendo conto di coloro che sono proprietari della sola casa di abitazione.
Berlusconi è peggiorato con l’età nei suoi tratti essenziali: bugiardo più di prima, incapace di proporre una strategia economica per uscire dalla crisi che il suo Governo ha determinato,incline a proporre situazioni fantasiose e non realizzabili, profittatore delle sofferenze dei ceti più deboli per esentare i più ricchi dalla tassazione dell'Imu sulla prima casa. Inoltre, per la copertura finanziaria della detassazione dell'Imu sulla prima casa Berlusconi propone di scudare i capitali esportati illegalmente in Svizzera.
Se facciamo due conti semplici comprendiamo che Berlusconi continua a privilegiare le grandi ricchezze e non certamente coloro che soffrono di più a causa della crisi tutta italiana,originata dal contagio della crisi finanziaria internazionale che ha trovato un terreno fertile per le condizioni in cui ha trovato il paese.
Tante sono state le promesse di Berlusconi, dalla rivoluzione liberale all’abbassamento delle tasse puntualmente enunciate ad ogni campagna elettorale, non mantenute e, nonostante questo, continua imperterrito a prendere in giro gli italiani.
Il Governo Berlusconi si è sempre richiamato allo slogan “Cambiare tutto per non cambiare nulla”. Ha cambiato solo le cose che lo interessavano direttamente attraverso le leggi ad personam come il falso in bilancio, i termini della prescrizione, il legittimo impedimento e la legge anticorruzione.
Le conseguenze della crisi finanziaria non ci sarebbero state se il nostro paese fosse stato governato in modo efficace e responsabile perché non siamo tra gli Stati che hanno subito direttamente la speculazione finanziaria dei privati e delle banche.
Adesso più di prima occorre uno scatto di orgoglio e di difesa della dignità da parte degli italiani per far naufragare gli intenti di Berlusconi di ritornare al potere per continuare a fare i propri interessi e quelli delle grandi ricchezze.

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