sabato 31 ottobre 2009

Ancora sull’assenteismo

Nel mese di agosto e settembre si è registrato un aumento delle assenze per malattia: +16,7% nel mese di agosto e + 24,2% nel mese di settembre rispetto ai medesimi mesi del 2008.
L’aumento delle assenze per malattia coincide con la modifica delle fasce di reperibilità decisa a luglio. Tale provvedimento prevede che le fasce di reperibilità per i lavoratori pubblici, entro le quali devono essere effettuate le visite mediche di controllo in caso di malattia, tornano ad essere quelle già in vigore nel passato in linea con il settore privato: dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19 (e non più dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle 20).
Questa coincidenza fa ritenere al Ministro Brunetta che per ridurre l’assenteismo occorre allargare le fasce di reperibilità e pertanto si appresta a correggere la normativa in vigore con decreto ministeriale con le seguenti nuove fasce orarie:
- dalle 9,00 alle 13,00
- dalle 15,00 alle 18,00.
Ritengo che l’intervento di Brunetta ancora una volta contrasta i sintomi ma non le cause cosi come afferma l’amico economista di Pietro Ichino, il quale dichiara che “l’effetto aspirina ..... si riferisce al semplice contrasto dei sintomi, ma non delle cause: una volta tolto il fiato dal collo ai dipendenti pubblici, la situazione, ahimè, è tornata quella di prima”.
Ritengo che l’assenza per malattia vada combattuto utilizzando una pluralità di strumenti e non fossilizzandosi sull’allargamento delle fasce di reperibilità e sull’obbligatorietà delle visite mediche di controllo ai dipendenti pubblici cioè sui sintomi.
Obbligo delle visite mediche di controllo
Il management pubblico conosce o è nelle condizioni di conoscere chi abusa delle assenze per malattia e pertanto può intervenire in modo specifico ed opportuno con le visite di controllo su tali lavoratori.
I ricoveri ospedalieri attestati e valutati in modo corretto possono senz’altro essere esclusi dall’obbligatorietà dei controlli.
I lavoratori pubblici che non ricorrono in modo frequente all’assenza per malattia possono essere tenuti fuori dai controlli. Misure queste che eliminerebbero attività inutili che incidono in modo rilevante sui costi e restringerebbero l’area di non applicazione della normativa, considerato il fatto che le ASL non sono in condizioni di effettuare tutte le visite mediche di controllo richieste.
Per i lavoratori che presentano un tasso di assenza per malattia superiore ad un certo parametro vanno sottoposti a controllo. Occorre quindi stabilire un parametro oggettivo a cui il management pubblico dovrà fare riferimento.
Fasce di reperibilità
Coloro che ricorrono in modo frequente all’assenza per malattia in modo illegittimo sono quelli che più degli altri lavoratori rispettano le fasce di reperibilità, tranne alcuni casi eccezionali, in quanto sono coscienti della inesistenza della malattia e degli effetti che subiranno in caso di assenza alla visita medica di controllo.
Lo strumento della visita medica di controllo domiciliare è un deterrente ma non risolve in modo completo il fenomeno dell’assenza per malattia.
Cause dell’assenza
In un post precedente, intervista a Silvano Del Lungo, sono state indicate le cause dell’assenteismo che derivano dall’ambiente di lavoro, dalle mansioni assegnate, dal mancato coinvolgimento nei processi di lavoro, dal grado di appartenenza dei lavoratori nei confronti dell’impresa, dalle relazioni umane e da altre cause.
Tutte queste cause rientrano nelle responsabilità del management pubblico e sono la conseguenza del tipo di leadership che viene esercitata e dai modelli organizzativi che vengono applicati. Pertanto, occorre intervenire su tali fattori al fine di porre sotto controllo il fenomeno che stiamo esaminando.
Salario accessorio ed assenza per malattia
Occorre predisporre un piano di rientro dell’assenza per malattia con l’obiettivo finale di allinearlo a quello dei lavoratori delle imprese private. Può essere stabilito un parametro annuale di assenteismo da assegnare a ciascun ente, organo e dipartimento pubblico da conseguire nell’anno. Tale parametro dovrebbe essere affidato alla dirigenza e rapportato al salario di risultato che annualmente viene assegnato al management pubblico. Il mancato conseguimento o il conseguimento parziale dell’obiettivo dovrebbe influire sui premi e sul salario variabile del management pubblico.
Ritengo che questa soluzione sia giusta e corretta in quanto l’assenteismo dipende in larga misura da condizioni e responsabilità del management pubblico (condizioni ambientali, organizzazione, coinvolgimento). Tutto questo non significa che i lavoratori pubblici non abusano di tale diritto ma ritengo che togliere falsi alibi ai dirigenti ed ai lavoratori e creare nuove condizioni di lavoro influisce sicuramente sul tasso di assenteismo.
Attaccare solo i lavoratori pubblici significa deresponsabilizzare ancora una volta il management pubblico, il quale è troppo interessato al mantenimento dello status quo.
Brunetta non interviene sulle cause dell’assenteismo
L’assenza dal lavoro di Donata Gottardi

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lunedì 26 ottobre 2009

Pierlugi Bersani: segretario del PD

Il Partito Democratico ha dato una grande prova di democrazia con tre milioni di persone che hanno partecipato alle primarie. Non ho ancora letto i giornali e non conosco le analisi e le valutazioni espresse.
Mi sento di dire che Bersani è il mio, il tuo ed il segretario di tutti i democratici. Il 25 ottobre è stata una giornata importante per l'alta affluenza alle primarie ed il 26 ottobre è ancora più importante perchè da oggi occorre ricostruire il Partito Democratico per il futuro dell'Italia. Penso alle nuove generazioni ed ai ceti più deboli che attualmente vivono sulla loro pelle i problemi di sopravvivenza generati dalla crisi e da un sistema sempre meno equo. Ritengo che i fattori da utilizzare sono: unità, cambiamento e trasparenza. Bersani, Franceschini e Marino sono chiamati a lavorare insieme per costruire il futuro del paese guardando gli altri e per gli altri. Le strumentalizzazioni, la ricerca di consensi facili ed altro appartengono al passato adesso siamo chiamati tutti a lavorare per il bene del PD e del paese. Il patrimonio di ciascuno di loro va messo insieme e non disperso. Lo vogliono gli iscritti e gli elettori del Partito Democratico. Non deludiamoli.

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Brunetta non interviene sulle cause dell’assenteismo

Lettera pervenuta al senatore Pietro Ichino da un suo amico professore di economia in una università statunitense il 23 ottobre 2009
Caro Pietro,
oggi ho letto le statistiche sull’assenteismo nella pubblica amministrazione italiana. Mi dispiace davvero che la situazione stia peggiorando, ma, da un punto di vista scientifico, era abbastanza prevedibile.
In effetti, l’”effetto Brunetta” (lo dico a malincuore) e’ stato un mix di quello che in performance measurement è conosciuto come l’Hawthorne Effect e quello che si potrebbe chiamare l’”effetto aspirina”. Il primo si riferisce a esperimenti condotti agli Hawthorne works della Western Electric Company di Chicago negli anni Venti del secolo scorso. In corrispondenza di un aumento nell’illuminazione nella fabbrica si riscontrarono aumenti nella produttività; più sorprendentemente, quando l’illuminazione fu abbassata in una parte dell’impianto [mentre nell’altra (gruppo di controllo) fu mantenuta stabile] la produttività continuò a salire. Conclusione: non era l’illuminazione (dichiarazioni di Brunetta) a far aumentare la produttività (diminuire l’assenteismo), ma era il fatto stesso che la produttività fosse misurata e comunicata a farla aumentare.
L’”effetto aspirina” invece si riferisce al semplice contrasto dei sintomi, ma non delle cause: una volta tolto il fiato dal collo ai dipendenti pubblici, la situazione, ahimè, è tornata quella di prima.
Non so se al Senato italiano ci sarà una discussione sull’assenteismo nella PA, ma spero che questi due miei piccoli spunti possano essere utili.
Un caro saluto e a presto.
R.S.
Nella foto Elton Mayo
Esperimento Hawthorne

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Le risposte di Pietro Ichino a Donata Gottardi

“Ringrazio, innanzitutto, Donata Gottardi per questo suo nuovo intervento sul “Progetto Semplificazione” e cerco di rispondere punto per punto alle sue osservazioni. Nel testo che segue riporto sinteticamente in grassetto, all’inizio di ciascun paragrafo, le principali obiezioni della giuslavorista ed ex-parlamentare europea.
1. Una riforma di questa portata “dovrebbe avvenire non solo coinvolgendo numerosi esperti della materia, [ma] con una partecipazione dal basso che veda anche il coinvolgimento delle persone direttamente interessate”. – Concordo pienamente; ed è per questo che, dopo aver lavorato per un anno e mezzo a questo progetto con un gruppo di esperti della materia, ora ho messo la prima bozza dei due disegni di legge on line per consentire a chiunque vi sia interessato di accedervi, e sono impegnato – come già in precedenza per il disegno di legge sulla transizione a un regime di flexsecurity – in una lunga serie di incontri pubblici e privati, con colleghi giuslavoristi, sindacalisti, imprenditori, direttori del personale e altri lavoratori interessati. Via via che raccolgo le correzioni e integrazioni che mi paiono migliorare il contenuto tecnico e l’equilibrio politico del progetto, le apporto direttamente sul testo disponibile su questo sito, indicando la data dell’aggiornamento: i lettori possono così seguire passo per passo, per così dire “in diretta”, l’evoluzione del progetto.
2. [Questo progetto è] “uno dei modi per universalizzare le tutele, ma seguendo una strada precisa: tutti uguali a un livello (medio-)basso”. – Non è così. Il nuovo Codice del lavoro che propongo non riduce affatto il livello delle protezioni, se non per qualche aspetto molto marginale, dove di fatto la vecchia disciplina non serve a nessuno (non è comunque il caso della disciplina della maternità e paternità: il nuovo articolo 2111, ampiamente riscritto in aderenza al Testo Unico del 2001, anche per tener conto delle osservazioni di Donata Gottardi, è già on line). Il nuovo Codice riduce, questo sì, il volume della normativa legislativa, che è cosa totalmente diversa da una riduzione del livello delle tutele; e lo fa per poterla rendere davvero universale, applicabile a tutti i lavoratori cui occorre protezione. Nella materia cruciale dei licenziamenti, certo, propongo un mutamento radicale della tecnica protettiva rispetto a quella adottata quarant’anni fa; sono infatti convinto che la nuova disciplina proposta (artt. 2118-2120) offra ai lavoratori una protezione complessivamente molto migliore rispetto alla vecchia. Tuttavia, proprio perché la riforma tocca, per questo aspetto, un “nervo scoperto” nel nostro Paese, propongo che la nuova disciplina si applichi soltanto ai rapporti di lavoro che si costituiranno d’ora in avanti, senza toccare la posizione di chi ha già un posto di lavoro stabile. Questo è il motivo per cui dico che la nuova disciplina deve essere valutata con gli occhi di un ventenne che entra oggi nel nostro mercato del lavoro, il quale gli offre, nella maggior parte dei casi, la prospettiva di una probabile lunga e penosa anticamera prima di accedere al lavoro regolare a tempo indeterminato. Non è un caso che tanti miei studenti mi dicano di considerare il diritto del lavoro che insegno loro nel mio corso come qualche cosa di distante, che non li riguarda se non da molto lontano: lo sentono come una cosa che riguarda essenzialmente le generazioni che li hanno preceduti. E non hanno torto.
3. “Chi decide il livello dove collocare l’asticella?”. – Lo decide, scegliendo il posizionamento dell’“asticella”, lo stesso legislatore nazionale che ha, in precedenza, dettato la vecchia disciplina; lo decide, ovviamente, ascoltando tutti gli interessati e recependone gli accordi; dove opportuno, restituendo loro una parte dei territori che nell’ultimo mezzo secolo sono stati progressivamente e non sempre appropriatamente sottratti alla loro autonomia negoziale (penso soprattutto al mercato del tempo endo-aziendale e al part-time). Il mio progetto si propone soltanto di dare un contributo a questo processo decisionale: in particolare, esso si propone di mostrare come la riforma sia tecnicamente possibile anche in tempi molto brevi (ciò che non è affatto scontato, nell’opinione ancor oggi dominante). Esso si propone di mettere a disposizione delle parti sociali un testo tecnicamente corretto e completo, ma apertissimo a tutte le modifiche e gli aggiustamenti dei quali il dibattito mostrerà l’opportunità. Questa “apertura” del progetto è già in atto e si manifesta nel lavoro quotidiano di correzione e integrazione che sta svolgendosi su questo sito, anche per merito di Donata Gottardi, nel modo più trasparente e sotto gli occhi di tutti.
4. Questo progetto “diluisce e frammenta” lo Statuto dei lavoratori di quarant’anni fa, ripartendone le disposizioni secondo lo schema del libro V del codice civile. Occorrerebbe invece riprendere l’idea dello stesso Statuto, come si è fatto con la Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del 2003. – Lo Statuto dei lavoratori del 1970 disciplina una parte soltanto delle materie inerenti ai rapporti di lavoro e ai rapporti sindacali; e lo fa talvolta proprio adottando la tecnica della “novella” di disposizioni contenute nel codice civile (articolo 2103 in materia di mansioni) o aggiungendo una nuova disposizione a quella contenuta nel codice civile (articolo 2106 in materia di provvedimenti disciplinari). Quanto alla Carta del 2003, essa non cambiava una virgola né dello Statuto dei lavoratori né del codice civile. Quei due testi non offrono, comunque, una struttura adatta a contenere l’intera disciplina legislativa essenziale. Se ho scelto la struttura del libro V del codice civile, come è spiegato nella relazione introduttiva del disegno di legge maggiore, è soltanto per ridurre al minimo il “costo di aggiornamento” per gli esperti e gli addetti ai lavori: in tutti i casi in cui abbiamo potuto abbiamo fatto in modo che ciascuna disposizione fosse contenuta nello stesso articolo oggi contenente la disciplina attuale della materia. Non mi sembra che questa scelta pregiudichi o condizioni in modo negativo il contenuto della nuova disciplina.
5. “L’articolo di apertura della parte dedicata alla disciplina comune a tutti i rapporti di lavoro, si apre con il riferimento al “titolare dell’azienda”, con il che si continua a rimanere nell’alveo di una qualificazione che esclude il lavoro autonomo, il lavoro sociale, il lavoro volontario, il lavoro di cura”. – La risposta a questa obiezione è contenuta nella relazione introduttiva all’articolo 2087 del disegno di legge: “Il riferimento all’imprenditore, contenuto nell’articolo 2087 attualmente in vigore, è sostituito con il riferimento al ‘titolare dell’azienda’, al fine di allargare nella misura massima possibile il campo di applicazione della norma protettiva: secondo la migliore dottrina, infatti [il riferimento, qui, è alla lezione di Luisa Riva Sanseverino, di cui sono allievo], la nozione giuridica di azienda non è legata a quella di impresa, bensì si estende a comprendere qualsiasi contesto ambientale-strumentale nel quale la prestazione lavorativa si collochi. D’altra parte, laddove la prestazione non si collochi in un contesto ambientale-strumentale di cui sia titolare il creditore, non avrebbe senso accollare a quest’ultimo un obbligo di protezione della sicurezza e riservatezza del lavoratore (salve le disposizioni circa la possibile nocività dei materiali nel lavoro a domicilio, che sono oggetto di una disposizione ad hoc nel comma 2 dell’articolo 2123)”.
6. “Se la volontà è quella della semplificazione e della leggibilità immediata, mi pare complicato andare a controllare nell’elenco della normativa abrogata cosa resti in vigore e cosa no”. – Non riesco a immaginare nulla di meglio che un elenco cronologico delle norme abrogate. Se qualcuno ha un’idea migliore, essa è ovviamente benvenuta.
7. “Le direttive [comunitarie] sono emanate attendendosene le istituzioni europee una trasposizione attenta e intelligente nei singoli Paesi. Limitarsi a tradurle e metterle a disposizione come unica regola è impossibile. Impossibile anche perché in molti casi le direttive stesse rinviano a scelte della normativa nazionale”. – Non è vero che il nuovo Codice del lavoro pretenda di limitare la recezione delle direttive comunitarie a un mero rinvio al loro testo. Per alcune materie – in particolare: diritti di informazione del lavoratore, contratto a termine, part-time, comando o distacco, trasferimento d’azienda, licenziamenti collettivi (stiamo lavorando per arrivare allo stesso risultato per l’orario di lavoro) – esso sostituisce integralmente le attuali leggi di recezione con norme più semplici. Per altre materie – in particolare: sicurezza del lavoro, protezione dei dati personali, discriminazioni e pari opportunità –, in considerazione dell’obiettiva complessità della materia, esso lascia in vita le leggi di recepimento attuali, limitandosi a enunciarne sinteticamente i principi essenziali fungendo così da “portale” della disciplina legislativa vigente.
8. Articolo 2111, in materia di maternità e paternità: “Occorre ora trovare soluzioni diverse. Lo sanno bene tutti coloro che hanno un contratto di lavoro a termine (sia esso subordinato, un contratto a progetto, un lavoro interinale…). Affermare il diritto a sospendere il lavoro per godere di un congedo come quello parentale è come scrivere sulla sabbia. Quel diritto non è quasi mai azionabile”. – Concordo pienamente. Uno dei principali motivi ispiratori di questo lavoro è l’esigenza di individuare, nel diritto del lavoro vigente, le protezioni di fatto non applicabili se non nel settore pubblico, quelle di cui oggi nelle aziende private si avvalgono soltanto i lavoratori meno responsabili, per sostituirle con una normativa capace di essere davvero universale e universalmente efficace. Qualsiasi contributo su questo terreno, da chiunque esso venga, è il benvenuto.
9. Ancora articolo 2111: “Il testo unico [d.lgs. n. 151/2001 sulla protezione di maternità e paternità] è pesante perché si occupa, ad esempio, anche della copertura previdenziale. Di questi aspetti, dove ci si occuperebbe nella tua proposta?”. - Il nuovo Codice del lavoro, in questa sua prima versione, non ha la pretesa di coprire anche la materia previdenziale: infatti non prevede l’abrogazione della normativa su questa materia. Resto convinto, tuttavia, che la legislazione previdenziale presenti aspetti di ipertrofia, farraginosità e illeggibilità persino maggiori rispetto alla legislazione sul rapporto di lavoro: se la prima fase di questo “Progetto Semplificazione” avrà successo, la seconda fase sarà dedicata proprio alla legislazione sulle assicurazioni pensionistiche obbligatorie.
10. Articolo 2090: non è opportuno “porre tetti alla contribuzione pensionistica”. – A me non sembra che l’ordinamento statuale debba farsi carico di garantire la continuità del reddito per i lavoratori anziani anche per la parte di esso che supera una soglia medio-alta. L’ordinamento, viceversa, deve garantirla a tutti coloro che vivono del proprio lavoro, quindi anche ai lavoratori autonomi. Porre un limite massimo di contribuzione e di retribuzione pensionabile rende più facile l’universalizzazione effettiva dell’assicurazione generale obbligatoria.
11. Articolo 2092, primo comma: “perché limitare [il campo di applicazione della retribuzione oraria minima] ai lavori ‘misurati in ragione del tempo’?”. – La ragione che ci aveva inizialmente indotti a questa scelta era di carattere strettamente logico: se si tratta di una “retribuzione oraria”, ci sembrava che non potesse avere senso applicarla a rapporti aventi per oggetto una prestazione non misurata in ragione del tempo. L’osservazione critica di Donata Gottardi ci ha indotti a ridiscutere la cosa e a considerare che, in realtà, il controllo del rispetto di uno standard retributivo minimo orario è possibile anche in riferimento a prestazioni lavorative misurate esclusivamente in relazione al risultato: anche queste, infatti, per definizione richiedono un’attività lavorativa, la quale è osservabile (si pensi, per esempio, al contratto di lavoro a domicilio, che solitamente commisura la retribuzione al singolo “pezzo” prodotto e non al tempo impiegato per produrlo: questo non impedisce un controllo dell’entità della retribuzione basato sul tempo ragionevolmente necessario per la produzione del risultato dedotto in contratto). Anche in riferimento a questi casi, dunque, è ragionevole e opportuno pensare alla possibilità di un divieto di retribuzioni che si collochino di fatto al di sotto dello standard orario minimo. Il nuovo testo del primo comma dell’articolo 2092, modificato in accoglimento dell’osservazione di Donata Gottardi, cioè con la soppressione del riferimento limitativo alle prestazioni misurate in ragione del tempo, è già on line.
12. Articolo 2092, secondo comma: “accettiamo di introdurre le ‘gabbie salariali’?”. - Un Codice del lavoro degno di questo nome deve aspirare a dettare una disciplina della materia stabile nel tempo, indipendentemente dall’alternarsi di forze politiche diverse al governo e dei rispettivi diversi orientamenti di politica del lavoro. Ora, come abbiamo precisato nella relazione introduttiva, la differenziazione regionale degli standard minimi in relazione al costo della vita e ad altre circostanze economico-sociali – praticata nell’ultimo quindicennio, per esempio, nella Repubblica Federale Tedesca – è sicuramente tra le opzioni costituzionalmente legittime: essa deve pertanto essere contemplata nel Codice, indipendentemente dall’orientamento che prevale nella congiuntura politica particolare nella quale il Codice stesso vede la luce.
13. Articoli 2092 e 2099: “saltiamo l’intervento equitativo del giudice [per la determinazione della giusta retribuzione]”? – Il principio della giusta retribuzione è già sancito dall’articolo 36 della Costituzione, con una formulazione per diversi aspetti più precisa rispetto al contenuto del vecchio articolo 2099 del codice civile. Non mi sembra che sia necessario aggiungere una norma ulteriore in proposito, mentre nella logica della semplificazione il non aggiungerla è meglio.
14. Articolo 2094: “avendo indicato espressamente la cifra della soglia [di reddito annuo massimo per la qualificabilità della collaborazione autonoma continuativa come ‘lavoro dipendente’], dovremmo adeguare la normativa del codice all’andamento del costo della vita. Questo è un altro aspetto del problema: la semplificazione introduce nel codice numerosi indicatori quantitativi, destinati ovviamente ad essere superati nel tempo”. – Anche se in questi tempi di inflazione molto bassa il problema non appare di primaria urgenza, l’osservazione è giusta. Si potrebbe risolvere il problema con una norma finale che disponga un’indicizzazione automatica di tutte le soglie espresse in termini monetari; ma questo potrebbe risultare tecnicamente più difficile di quanto non appaia. Ogni suggerimento tecnico in proposito sarà prezioso.
15. Articolo 2103, sulle mansioni del lavoratore: “perché riproporre con così poche innovazioni su una delle disposizioni incorporate nello Statuto dei diritti dei lavoratori che più si ritiene abbia necessità di manutenzione per tener conto dei cambiamenti?”. – Nella nuova formulazione dell’articolo 2103 abbiamo cercato di adattare la disposizione agli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che sono venuti affermandosi nella sua interpretazione e applicazione evolutiva e agli enormi cambiamenti intervenuti nel contesto economico-produttivo da quarant’anni a questa parte: in particolare all’accelerazione del ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate. Nulla esclude, ovviamente, che si possa fare meglio: anche qui ogni contributo ulteriore sarà il benvenuto.
16. Articolo 2107: “sull’orario di lavoro, mi pare insufficiente un rinvio agli standard minimi europei”. – Infatti non si prevede, per ora, l’abrogazione del d.lgs. n. 66/2003 né delle altre leggi di recezione delle direttive comunitarie in materia di orario di lavoro. Ho intenzione, però, nel prossimo futuro, di provare a compiere anche su questa materia lo stesso lavoro di semplificazione e sintesi svolto in materia di part-time e di congedi parentali, in modo che il contenuto del nuovo Codice possa sostituire integralmente quelle leggi.
17. “Ti ho segnalato questi dubbi proprio perché il dialogo e il confronto continui”. – Di questo ringrazio cordialmente Donata Gottardi, auspicando che anche tutti gli altri colleghi giuslavoristi non già coinvolti in questo lavoro facciano altrettanto.”
Pietro Ichino

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sabato 24 ottobre 2009

Donata Gottardi: controreplica a Pietro Ichino

"La tua proposta, Pietro, sulla semplificazione del diritto del lavoro richiede attenzione, data l’importanza dell’obiettivo, che non si può che condividere. Rispondo quindi alla lettera aperta che mi hai inviato a seguito della mia primissima e molto sintetica nota di allarme. Non ho ancora il tempo per una analisi precisa. Vorrei restare ancora a livello di metodo, di impianto generale e di analisi a campione di alcune delle singole materie ridisciplinate. Credo che l’amicizia che ci lega non abbia fatto finora e non possa fare velo su diversità di opinioni, che non sono fondate su pregiudizi.
Qui il resto del post Ridisegnare l’intero diritto del lavoro è un’operazione straordinaria, che richiede non solo di semplificare e razionalizzare, ma di inventare e di trovare nuove soluzioni, per far mantenere a questa materia i suoi fondamentali (come si direbbe in economia), per riattualizzarla all’interno di una cornice che mantenga intatta la sua anima e non la snaturi in un bilanciamento di costi economici. Quanto al metodo: il progetto è affascinante, ma molto pericoloso, e dovrebbe avvenire coinvolgendo non solo “numerosi esperti della materia”, con una partecipazione dal basso che veda anche il coinvolgimento delle persone direttamente interessate, che spesso hanno tanto da raccontarci e da suggerirci. Quanto alle soluzioni innovative: non credo sia sufficiente chiedersi cosa preferisca oggi un ventenne. Continuo a pensare che dobbiamo trovare soluzioni che affrontino tutti i dualismi del nostro mercato del lavoro, provando a trovare i contenuti dentro a una visione che progetti un patto tra generi, generazioni e genti. Tu proponi di eliminare le disposizioni che introducono diritti e protezioni, qualora non possano essere estese a tutte le persone che lavorano. E’ uno dei modi per universalizzare le tutele, ma seguendo una strada precisa: tutti uguali a un livello (medio-)basso. Con il che si presentano interrogativi rilevanti. Chi decide il livello dove collocare l’asticella? Come effettuare quella che mi pare possiamo chiamare una valutazione di impatto? E si tratta di una valutazione di impatto che considera al primo posto i costi per i datori di lavoro/committenti? E nella decisione sul livello della tutela da garantire universalmente ci poniamo come limite spaziale quale territorio? Lo Stato, l’Unione europea, …, il mondo? Contesti alla Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del 2003 di non toccare la disciplina per i lavoratori subordinati. Certo. E’ stata una scelta precisa, dentro a una idea che prevedeva non una unica disciplina per tutti, ma cerchi progressivamente più ampi di tutela. Continuo ad essere affezionata a quell’idea, anche se penso sarebbe opportuno un aggiornamento. Ma su quello spartito. Quello della Carta o dello Statuto (giusto a quaranta anni da quello del 1970, che tu abroghi, diluendolo e frammentandolo), non della riscrittura sul modello del codice civile. E nel cerchio generale continuo a pensare che dovrebbero essere inclusi tutti i lavori e non solo quello che si svolge in una impresa/azienda. Infatti, nella tua proposta, l’articolo di apertura della parte dedicata alla disciplina comune a tutti i rapporti di lavoro, si apre con il riferimento al “titolare dell’azienda”, con il che si continua a rimanere nell’alveo di una qualificazione che esclude il lavoro autonomo, il lavoro sociale, il lavoro volontario, il lavoro di cura, … tutti quei lavori che vanno invece considerati nel momento in cui si intende fornire uno zoccolo di diritti di base a tutte le persone che lavorano. Venendo poi al tema del rinvio alle direttive europee, sono felice, ma solo in parte, di sapere che il diritto antidiscriminatorio resta in vigore. Perché solo in parte? Intanto, se la volontà è quella della semplificazione e della leggibilità immediata, mi pare complicato andare a controllare nell’elenco della normativa abrogata cosa resti in vigore e cosa no. Inoltre, anche quella normativa ha bisogno di essere ridefinita, sia per eliminare sovrapposizioni, sia per renderla più chiara, sia per eliminare molti degli infortuni in cui sono incorsi i governi di destra nella trasposizione. Più in generale, mi rimane il dubbio per tutte le materie in cui la trasposizione interna viene sostituita con un rinvio ai “principi e regole fissati nelle direttive comunitarie”, che diventano “standard immediatamente applicabili per la determinazione dei diritti e obblighi delle parti dei rapporti di lavoro”. Ma le direttive sono emanate attendendosene le istituzioni europee una trasposizione attenta e intelligente nei singoli Paesi. Limitarsi a tradurle e metterle a disposizione come unica regola è impossibile. Impossibile anche perché in molti casi le direttive stesse rinviano a scelte della normativa nazionale. Quanto al tema dei congedi di maternità, paternità e parentali, ti ringrazio della disponibilità a correggere l’attuale formulazione, che vede l’eliminazione dei tentativi di ripartizione dei ruoli tra madre e padre. Poiché il testo unico mi è molto noto (per averlo steso ed elaborato), sono la prima ad aver sempre affermato che a quella operazione di razionalizzazione e di riconduzione in un unico testo normativo avrebbe dovuto seguire una operazione di semplificazione. Ma non solo. Occorre ora trovare soluzioni diverse. Lo sanno bene tutti coloro che hanno un contratto di lavoro a termine (sia esso subordinato, un contratto a progetto, un lavoro interinale, …). Affermare il diritto a sospendere il lavoro per godere di un congedo come quello parentale è come scrivere sulla sabbia. Quel diritto non è quasi mai azionabile. Devo dire che anche i lavoratori subordinati più garantiti (quelli che definisci di serie A) spesso non possono permetterselo, ma non solo per la scarsa copertura economica, anche per il rischio di essere successivamente discriminati. Ma ci sono anche altri problemi. Il testo unico è pesante perché si occupa, ad esempio, anche della copertura previdenziale. Di questi aspetti, dove ci si occuperebbe nella tua proposta? Ci sono poi ulteriori aspetti che avevo iniziato a verificare, soprattutto nella prima parte, dato il suo carattere più generale. Ad esempio, nell’art. 2090 (assicurazione generale per vecchiaia, invalidità e disoccupazione), mi pare che la questione più importante, in un articolo di apertura e rivolto a universalizzare le condizioni, non possa essere quella di porre tetti alla contribuzione pensionistica. Nell’art. 2092 (compenso orario minimo) proponi una determinazione con decreto presidenziale, su proposta del Cnel, (solo) sentite le parti sindacali. E’ questo che vogliamo per garantire i minimali di retribuzione? E perché limitare questa determinazione ai lavori “misurati in ragione del tempo”? I ‘veri’ contratti a progetto sarebbero pertanto esclusi. E accettiamo di introdurre le ‘gabbie salariali’, come previsto nel secondo comma? E saltiamo l’intervento equitativo del giudice – come si ricava confrontano con l’art. 2099 – che è quello che ha finora consentito l’applicazione generalizzata della parte economica dei contratti collettivi? L’art. 2094, sulla subordinazione e sulla dipendenza, che dovrebbe essere un punto chiave del nuovo diritto del lavoro mi pare si limiti ad affiancare al lavoratore subordinato il lavoratore economicamente dipendente. Per essere tale la persona non deve solo dipendere economicamente dal committente, ma percepire compensi medio-bassi. Con la conseguenza, tra l’altro, che, avendo indicato espressamente la cifra della soglia, dovremmo adeguare la normativa del codice all’andamento del costo della vita. Questo è un altro aspetto del problema: la semplificazione introduce nel codice numerosi indicatori quantitativi, destinati ovviamente ad essere superati nel tempo. Lo stesso nell’art. 2103,sulle mansioni del lavoratore. Perché riproporre con così poche innovazioni una delle disposizioni incorporate nello Statuto dei diritti dei lavoratori che più si ritiene abbia necessità di manutenzione per tener conto dei cambiamenti? Nell’art. 2107, sull’orario di lavoro, mi pare insufficiente un rinvio agli standard minimi europei, così come pericoloso mettere sullo stesso piano le regole del contratto collettivo e le scelte del contratto individuale. Come ti ho scritto in apertura, non ho davvero il tempo per una analisi esaustiva. Ti ho segnalato questi dubbi proprio perché il dialogo e il confronto continui".
Donata Gottardi

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mercoledì 21 ottobre 2009

Frantumi da ricomporre: dichiarazione di Mita Marra

Il volume che ho curato con Antonino Leone trae origine dall’incontro tanto fortuito quanto fortunato tra la mia passione per la ricerca del cambiamento nelle organizzazioni pubbliche e la straordinaria esperienza, dedizione e determinazione di Antonino che come direttore dell’INPS ha concretamente cambiato il modo in cui l’INPS di Verona mette in pratica la sua missione al servizio dei cittadini.
Antonino Leone è un agente del cambiamento, capace di escogitare soluzioni innovative, valorizzando il merito e valutando il lavoro malgrado le formidabili resistenze che tuttora frenano e in taluni casi bloccano l’operare delle amministrazioni pubbliche. E’ in questo inatteso e sorprendente sodalizio con Antonino Leone che risiede il cuore del messaggio del nostro libro. Per riformare la PA non bastano nuove regole generali che mirano a condizionare e incentivare i comportamenti dei dipendenti e dei manager pubblici. Le regole offrono la cornice istituzionale e normativa necessaria perché i processi di cambiamento frequentemente sotterranei ed episodici emergano in superficie acquisendo legittimità e sistematica applicazione. Tuttavia, la linfa del cambiamento scorre nel concreto agire delle amministrazioni, nelle scelte che giorno per giorno vengono assunte per risolvere problemi concreti in risposta ai bisogni e alle domande dei cittadini e delle imprese. I due piani della riforma, quello legislativo e quello organizzativo, sono, quindi, complementari e indispensabili l’uno all’altro, pena la disapplicazione della legge - cosa peraltro molto frequente in Italia - o l’isolamento e lo scoraggiamento di tanti virtuosi dipendenti e dirigenti che lasciati a se stessi finiscono per essere sopraffatti dall’andazzo dominante. In questo senso, le mie ricerche sulla PA portano alla luce l’imponente patrimonio motivazionale, organizzativo e programmatico diffuso nella pubblica amministrazione italiana, ma nello stesso tempo testimoniano le carenze di capacità direzionali e cooperative che rallentano i processi e frammentano l’azione pubblica proprio laddove il bisogno è più avvertito come ad esempio nel Mezzogiorno. In tal senso, la prospettiva federale che si staglia sempre più nitida all’orizzonte potrebbe ridare slancio e responsabilità a tanti dirigenti e dipendenti da valorizzare e premiare. Benché non credo che sia una passeggiata diffondere meritocrazia e efficienza gestionale, sono fiduciosa che il cambiamento della PA possa avanzare a tratti su un binario ad alta velocità.

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Frantumi da ricomporre: prima recensione

Inps - Talenti in azione
L’ex-collega e curatore segnala la pubblicazione del saggio di organizzazione
“Frantumi da ricomporre” è il titolo del saggio (Libri Este, 2009) curato da Antonino Leone, ex collega in pensione nonché già Direttore dell’Agenzia di Legnago (VR), e Mita Marra. La prefazione è di Francesca Simeoni e gli interventi di Federico Testa, Silvano Del Lungo, Rita Carisano, Pietro Ichino, Giovanni Martignoni e Donata Gottardi.
Nel volume il collega Leone ha profuso tutta la passione per l’organizzazione, coltivata lavorando e discutendo idee ed esperienze in Inps, divorando saggi di organizzazione e confrontandosi con esperti della materia, come questo volume testimonia. All’analisi del “caso Inps” viene dedicata la seconda parte del libro, mentre la terza parte sviluppa alcuni temi selezionati dal blog “Cambiamento nelle organizzazioni”. Il sistema Italia è “fuori mercato” a causa di un elefantiaco apparato pubblico incapace di offrire servizi efficienti e qualitativamente adeguati alle imprese e ai cittadini. Per uscire dalla crisi economica e finanziaria globale occorre, invece, una pubblica amministrazione che, in presenza di un assetto costituzionale federale, disegni e gestisca politiche a favore della crescita e dello sviluppo in complessi sistemi di governance, soggetti ad elevata incertezza. Le riforme legislative varate negli ultimi due anni puntano sulla trasparenza, sulla responsabilità, sulla valutazione e sull’incentivazione come leve del cambiamento organizzativo. Il saggio entra nel merito di tali iniziative legislative per comprendere come e, in che misura, queste riforme possano migliorare il rendimento istituzionale, le soluzioni organizzative e le pratiche manageriali. L’intento è riflettere sul fatto che forse le leggi non possono essere l’unica cura per le tante lacune della pubblica amministrazione italiana. L’eterogeneità dei problemi e delle carenze investe i vari comparti del settore pubblico, i diversi livelli di governo centrale, regionale e locale ed inevitabilmente il Nord e il Sud del Paese.

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FRANTUMI DA RICOMPORRE

Riforme legislative e innovazioni di management per migliorare la produttività delle organizzazioni pubbliche, Libri Este, 2009
È il titolo del libro curato da Antonino Leone e Mita Marra con la prefazione di Francesca Simeoni e gli interventi di Federico Testa, Silvano Del Lungo, Rita Carisano, Pietro Ichino, Giovanni Martignoni e Donata Gottardi.
Il sistema Italia è “fuori mercato” a causa di un elefantiaco apparato pubblico incapace di offrire servizi efficienti e qualitativamente adeguati alle imprese e ai cittadini. Per uscire dalla crisi economica e finanziaria globale occorre, invece, una pubblica amministrazione che, in presenza di un assetto costituzionale federale, disegni e gestisca politiche a favore della crescita e dello sviluppo in complessi sistemi di governance, soggetti ad elevata incertezza. Le riforme legislative varate negli ultimi due anni puntano sulla trasparenza, sulla responsabilità, sulla valutazione e sulla incentivazione come leve del cambiamento organizzativo. Questo volume entra nel merito di tali iniziative legislative per comprendere come e in che misura queste riforme possono migliorare il rendimento istituzionale, le soluzioni organizzative e le pratiche manageriali. Le leggi non sono, infatti, la cura per le tante lacune della pubblica amministrazione italiana. L’eterogeneità dei problemi e delle carenze investe i vari comparti del settore pubblico, i diversi livelli di governo centrale, regionale e locale ed inevitabilmente il Nord e il Sud del Paese.
L’analisi del funzionamento dell’INPS di Verona riafferma l’importanza di investire sulla capacità manageriale dei dirigenti, sui saperi e sulle competenze organizzative, sulla valorizzazione del lavoro e sul riconoscimento del merito, attraverso l’apprendimento e la riflessione condotta a partire dall’esperienza.
I temi selezionati dal blog sul cambiamento nelle organizzazioni propongono opinioni, esperienze e reazioni di tanti dipendenti, politici e studiosi al dibattito sulla riforma della PA. Le questioni sollevate nel blog svelano percezioni e umori che gli attori avvertono in rapporto alle recenti iniziative del governo. Gli operatori, i dirigenti, gli amministratori godono di una considerevole autonomia nel loro agire che può tradursi in notevoli differenze di attuazione. Diventa, quindi, di fondamentale importanza conoscere i principi e le motivazioni che guidano il loro agire.

Francesca Simeoni è ricercatrice di Economia e gestione delle imprese presso l’Università degli Studi di Verona e docente di Economia e gestione delle imprese di servizi pubblici
Federico Testa è parlamentare e docente di Economia e gestione delle imprese presso l’Università degli Studi di Verona
Silvano Del Lungo è psicologo del lavoro, pioniere della consulenza di direzione in Italia, fondatore e presidente della società di consulenza direzionale StudioStaff
Rita Carisano è direttore generale di Confindustria di Verona
Pietro Ichino è senatore e docente di Diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Milano
Giovanni Martignoni è Direttore dell’Inps di Verona
Donata Gottardi è docente di Diritto del Lavoro presso l’Università degli Studi di Verona ed è stata parlamentare europeo fino a maggio 2009

Gli autori:
Antonino Leone, è impegnato nella gestione del suo blog “Cambiamento nelle organizzazioni”, http://cambiamentoorg.blogspot.com/, dedicato principalmente alla gestione dei servizi pubblici ed al disagio sociale dei ceti più deboli. Ha fondato il gruppo SOS PA su Facebook, che conta circa 1500 membri, e segue il processo di riforma della Pubblica Amministrazione. Ha scritto alcuni articoli sulle PA con riferimento all’Inps ed ha operato nella Pubblica Amministrazione dirigendo un’Agenzia dell’Inps. Negli anni ’80 è stato assessore comunale ed è attualmente componente della Consulta della Pubblica Amministrazione del Partito Democratico.
Mita Marra, è ricercatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche presso l’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo di Napoli dal 2000 e insegna Analisi delle politiche pubbliche all’Università di Salerno e Politica economica all’Università di Napoli dal 2003. E’ stata visiting assistant professor presso l’Università di Maastricht (2005-2006) e la George Washington University (2004). Da anni si occupa di politiche di riforma del settore pubblico in Italia, negli Stati Uniti ed in alcuni paesi in via di sviluppo collaborando con il Dipartimento di valutazione della Banca mondiale. Alcuni dei suoi lavori sono apparsi su riviste e volumi nazionali ed internazionali.
A Verona il libro si trova nelle librerie Cortina, Grosso Ghelfi e Barbato, Rinascita
Per acquistare il libro vai alla pagina dell'editore Este
http://www.este.it/res/libri/libri_id/2/p/frantumi+da+ricomporre

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domenica 18 ottobre 2009

Pietro Ichino sulla riforma delle P.A.

“Il 13 ottobre scorso ho partecipato a un dibattito a “Porta a Porta” sulla riforma delle amministrazioni pubbliche con il ministro Renato Brunetta, Luca Ricolfi, Enrico Cisnetto e il segretario generale della Cisl Funzione Pubblica Giovanni Faverin. Quelli che seguono sono gli appunti che avevo steso nei giorni precedenti per la preparazione dell’incontro televisivo e dai quali ho attinto gli argomenti svolti nel dibattito.
1. – La parte migliore della legge Brunetta, quella sulla valutazione indipendente e la trasparenza totale delle amministrazioni pubbliche è tratta dal disegno di legge n. 746/2008 del Partito Democratico, che conosco bene perché ne sono stato estensore e primo firmatario, insieme all’intera Presidenza del Gruppo e ad alcune altre decine di senatori democratici: progetto che, a sua volta, nasce dai disegni di legge presentati nella legislatura precedente da Antonio Polito al Senato e da Lanfranco Turci alla Camera, dopo la pubblicazione del mio libro del 2006. Nel disegno di legge originario del Governo, che pure è stato presentato al Senato un mese dopo la presentazione di quello del PD (esso porta infatti il numero 847/2008), di questi due principi non c’era traccia; ma io riconosco al ministro Brunetta il merito di essersi adoperato con determinazione, nel corso della discussione al Senato, perché venissero accolti questi due pilastri del nostro progetto. Poi, quando il Governo ha dovuto approvare il decreto di attuazione, Brunetta ha incontrato delle forti resistenze: soprattutto Tremonti gli ha messo dei grossi bastoni tra le ruote. Ne sono derivati, proprio sul terreno della valutazione indipendente e della trasparenza, degli arretramenti e delle lacune, in questo decreto legislativo, che poi in Commissione Affari Costituzionali e Commissione Lavoro al Senato ci siamo sforzati di recuperare, riuscendovi solo in parte.
Nonostante questi arretramenti e lacune, per questa parte su valutazione indipendente e trasparenza la nuova legge apre degli spazi importanti di mobilitazione, di iniziativa della società civile, delle associazioni degli utenti, della stampa specializzata, di tutti i cittadini, per cambiare progressivamente faccia alle nostre amministrazioni e soprattutto al loro rapporto con gli utenti.
Valutazione indipendente significa che per ogni comparto ci dovrà essere un organo che rileva gli indici di efficienza e i risultati: tempi di attesa, quantità di pratiche eseguite, durata dei procedimenti giudiziali, e così via. Questo deve consentire di fissare ai dirigenti degli obiettivi specifici, misurabili, oggettivi; e di chiedere loro conto dei risultati, sostituendo il dirigente che si rivela incapace. Certo, sarebbe stato molto meglio se al vertice del sistema di valutazione ci fosse stata quella Autorità davvero indipendente che noi proponevamo, a garanzia dell’indipendenza anche degli organi periferici di valutazione. Qui c’è stata proprio una vistosa marcia indietro nel decreto, rispetto a quanto lo stesso ministro Brunetta aveva ipotizzato in un primo tempo (nella bozza di decreto che era stata fatta circolare in aprile si prevedeva proprio l’Autorità indipendente). Nel decreto che è stato emanato è prevista una commissione centrale che avrà meno poteri e meno autonomia di quanto avrebbe dovuto; e gli organi di valutazione, che vengono indicati nel decreto come “indipendenti”, lo sono soltanto a parole: in realtà sono ancora scelti dalle Direzioni generali e da essi sostanzialmente dipendenti. Vedo poi un difetto del decreto nel suo porsi ancora sostanzialmente sulla linea del monopolio pubblico della valutazione. Doveva invece essere valorizzato il contributo che su questo terreno può dare la società civile, le associazioni come Cittadinanzattiva, Civicum e altre simili. In realtà, chiunque incrocia una pubblica amministrazione nella vita di tutti i giorni esprime una valutazione sul servizio ricevuto: l’insieme di queste valutazioni costituisce dunque un “tesoro nascosto”, un immenso giacimento di informazioni sul funzionamento delle p.a., a cui dovremmo attingere sistematicamente. Il decreto non prevede invece alcun coinvolgimento della cittadinanza, degli utenti, nella composizione e nel funzionamento degli organi di valutazione.
La battaglia nel vivo della società civile, su questo punto, sarà dunque più difficile; ma dobbiamo comunque impegnarci a condurla capillarmente, fino in fondo. E lo strumento fondamentale per questa battaglia è la trasparenza, l’accessibilità illimitata delle informazioni. Vediamo dunque più da vicino questo secondo punto molto importante.
Trasparenza totale significa che d’ora in poi chiunque ha diritto di accesso a tutte le informazioni sull’organizzazione e il funzionamento di un’amministrazione pubblica, salvo quelle che vengano espressamente qualificate come riservate. Avremo diritto di conoscere tutto anche delle prestazioni di lavoro, delle retribuzioni, delle promozioni, dei trasferimenti, dei tassi di assenze di ciascun ufficio (esclusa, ovviamente, la natura delle infermità che avranno determinato le singole assenze). E soprattutto delle valutazioni. È finita l’epoca in cui a ogni richiesta di informazioni poteva essere opposta la privacy. È lo stesso principio di full disclosure, trasparenza totale appunto, che in Svezia si applica da trent’anni, al quale negli Usa e in Gran Bretagna si è arrivati più recentemente con due leggi che recano lo stesso nome: Freedom of Information Act. È importante che tutta la società civile impari a usare fino in fondo questo principio: si apriranno spazi nuovi di intervento e di controllo per le associazioni degli utenti, la stampa specializzata, i ricercatori universitari; e questo aiuterà a rendere più credibili le valutazioni degli organi indipendenti: perché la conoscibilità dei dati su cui si fondano renderà controllabili e verificabili quelle valutazioni.
2. – Vedo invece una pesante contraddizione tra la prima e la seconda parte del decreto. La logica della prima parte è questa:
- si fissano ai dirigenti obiettivi precisi, misurabili, specifici, oggettivi, il cui raggiungimento possa essere controllato con precisione attraverso il sistema degli organismi indipendente di rilevazione e valutazione;- quindi ai dirigenti si impongono non procedure da rispettare, ma obiettivi da raggiungere;- in questo modo si ottiene che la dirigenza pubblica sia costretta a riappropriarsi di tutte le prerogative che sono proprie dei dirigenti delle aziende private, e a usarle efficacemente per raggiungere gli obiettivi: altrimenti il dirigente pubblico viene rimosso.
Ora, invece, nella seconda parte la legge interviene in modo molto penetrante a limitare l’autonomia negoziale e gestionale dei dirigenti, a dettare procedure, regole minuziose di comportamento, o regole minuziose per la contrattazione collettiva. Se si torna a regolare per legge, in modo rigido, tutta questa serie di materie, in questo modo i dirigenti pubblici si deresponsabilizzano. Queste materie dovrebbero invece essere lasciate alla loro discrezionalità, ferma restando la loro responsabilità per il raggiungimento dei risultati, che d’ora in poi dovranno essere commisurati a obiettivi specifici, misurabili, oggettivi.
Occorre sottoporre i dirigenti a un rigoroso controllo dei risultati, non al rispetto di procedure.
Per esempio, sulla gestione dei premi: ogni comparto dell’amministrazione presenta una situazione diversa, problemi di applicazione diversi. Una regola rigidamente uguale per tutti i comparti e tutte le situazioni, per l’assegnazione dei premi, ancora una volta deresponsabilizza i dirigenti e può creare situazioni assurde. È compito della dirigenza trovare di volta in volta il modo migliore, in relazione alle circostanze particolari. La mia proposta originaria era nel senso che venissero esclusi per legge dagli aumenti contrattuali e dall’erogazione dei premi non dei singoli dipendenti individuati dal dirigente, ma tutti i dipendenti delle strutture individuate dagli organismi indipendenti di valutazione come gravemente inefficienti o in situazione di grave eccedenza di organico; e che invece le risorse per i premi venissero poste a disposizione delle strutture più virtuose, quelle con gli indici di performance migliore. Questo avrebbe incentivato al tempo stesso il superamento, dove possibile, delle situazioni di grave inefficienza, e, dove questo si rivela impossibile, il progressivo svuotamento dei rami secchi e delle sacche di overstaffing, con trasferimento del personale nelle strutture dove esso può essere meglio valorizzato.
Un altro esempio di eccesso di “legificazione” nel decreto Brunetta: in materia di contrattazione collettiva viene dettata una enorme quantità di disposizioni minuziose, che trasformano il contratto collettivo in un passaggio interno di un procedimento amministrativo per la determinazione delle condizioni di lavoro. Ora, è vero che la contrattazione collettiva nel settore pubblico non ha bene meritato nei quindici anni passati; ma il rimedio non è quello disegnato dal ministro Brunetta. A contrattare si è sempre almeno in due; e se si è negoziato male, almeno metà della colpa va imputata al negoziatore pubblico. Il ministro avrebbe potuto ottenere esattamente lo stesso risultato che si propone di ottenere, invece che con la rilegificazione spinta della materia, con l’emanazione in via gerarchica delle stesse disposizioni in forma di direttive molto precise all’Aran e ai dirigenti impegnati nella contrattazione integrativa in periferia.
Se il sindacato subordina la firma del contratto a condizioni che si ritengono inaccettabili, l’impresa privata non firma il contratto; vieta al proprio dirigente negoziatore di firmare. Questo dovrebbe fare anche il ministro (e questo è esplicitamente previsto nell’articolo 13 del disegno di legge del Pd). Non come in questo decreto, dove, per paura che i dirigenti firmino condizioni inaccettabili, si stabilisce per legge, punto per punto, che cosa devono firmare e che cosa no, con regole minuziose e rigide: in questo modo li si deresponsabilizzano. Si perpetua la vecchia nostra cultura amministrativa per la quale il dirigente pubblico non si soffia il naso se non è previsto nella circolare ministeriale.
Vedo anche una contraddizione fra il decreto e la stessa legge-delega approvata dal Parlamento nel marzo scorso. Questa stabilisce all’articolo 2 lettera a), come primo principio-cardine a cui deve attenersi il Governo nella formulazione del decreto, quello della “convergenza degli assetti regolativi del lavoro pubblico con quelli del lavoro privato, con particolare riferimento al sistema delle relazioni sindacali” (con questo, la legge-delega si pone in continuità con le riforme Cassese del 1993 e Bassanini del 1997-1998); e poi, all’articolo 3 lettera a) aggiunge: “… fermo restando che è riservata alla contrattazione collettiva la determinazione dei diritti e delle obbligazioni direttamente pertinenti al rapporto di lavoro”. Come nelle aziende private, appunto. Ora, invece, come si è visto, nella sua seconda parte il decreto interviene in modo molto penetrante a limitare l’autonomia negoziale dei dirigenti, a dettare procedure, regole minuziose per la contrattazione collettiva, che non hanno niente a che vedere con l’ordinamento applicabile nelle aziende private: questo segna una rottura netta rispetto alla linea di riforma Cassese-Bassanini.
L’eccesso di intervento legislativo, poi, appare evidente nella norma che dispone addirittura il “rinvio” del rinnovo delle rappresentanze sindacali: è, questa, una materia che di per sé non riguarda neppure la contrattazione collettiva, ma soltanto l’organizzazione sindacale, la sua autonomia organizzativa, le sue scelte di autogoverno. Che sia la legge a intervenire su questa materia mi sembra davvero una anomalia grave: e su questo punto hanno pienamente ragione Cgil e Cisl a protestare.
Un altro esempio ancora di eccesso di legificazione: nell’azione di contrasto all’assenteismo abusivo, un dirigente di azienda privata degno di questo nome sa bene come motivare i propri dipendenti, come distinguere i malati veri da quelli finti; il consiglio di amministrazione dell’impresa gli chiede conto del tasso di assenze complessivo, non gli dice come fare per mantenerlo a un livello accettabile. Il ministro Brunetta, invece, in un primo tempo ha pensato bene di risolvere il problema tagliando indiscriminatamente, su scala nazionale, le retribuzioni a tutti i dipendenti pubblici che si ammalano (una scorciatoia sbagliata, sulla quale torno fra breve). Ma, soprattutto, ora il decreto fissa tutta una serie di regole in questa materia, che dovranno applicarsi rigidamente dappertutto; il ministro pretende di stabilire minuziosamente sul piano legislativo che cosa devono fare i dirigenti, quando e come devono intervenire sul piano disciplinare, e così via. Ci mancava solo che stabilisse per legge che devono essere attivati i tornelli di ingresso e uscita in tutti gli uffici pubblici, e magari anche il tipo di tornelli da utilizzare.
3. – Il problema cruciale della nostra amministrazione statale è che essa non sa distinguere tra le strutture che funzionano bene, quelle che funzionano mediocremente e vanno stimolate a far meglio, quelle che producono soltanto sprechi; non sa distinguere tra chi lavora bene, chi lavora poco e chi non lavora affatto: o premia tutti allo stesso modo, o, più spesso, tratta tutti male allo stesso modo. Per risolvere questo problema occorre trovare e applicare gli incentivi giusti perché i dirigenti pubblici imparino a fare quello che fanno normalmente i dirigenti di aziende private: cioè appunto valutare, distinguere, e usare correttamente incentivi e sanzioni verso i loro dipendenti.
Per questo occorre, innanzitutto, che il buon esempio venga dall’alto; il ministro Brunetta non ha dato il buon esempio quando, pur nell’intento giustissimo di combattere l’assenteismo, ha tagliato indiscriminatamente le retribuzioni ai malati veri e ai malati finti: sono buoni tutti a risolvere il problema dell’assenteismo in questo modo, eliminando la protezione del lavoratore malato, che costituisce una delle prime conquiste della civiltà moderna del lavoro! Non si possono governare le organizzazioni complesse a colpi di accetta, oppure con metodi terroristici (appartiene al metodo e al linguaggio dei terroristi quel terribile “colpirne uno per educarne cento” che abbiamo sentito dalla bocca del ministro Brunetta qualche mese fa). Ma bisogna evitare anche un altro errore: non si ottiene che la dirigenza pubblica impari a distinguere, e si riappropri delle prerogative a cui ha abdicato nei decenni passati, imponendo regole rigide e minuziose uguali per tutti: così si ritorna al vecchio sistema, nel quale si teneva il dirigente responsabile dell’applicazione di regole e procedure, non del raggiungimento di risultati.
Il problema cruciale – ed è un problema per la soluzione del quale non basta certo una legge: occorreranno anni di paziente e sapiente azione di governo – è quello di insegnare alle nostre amministrazioni a distinguere e valutare. Perché non lo sanno fare: o premiano tutti, o, più spesso, trattano tutti male allo stesso modo. Pure il ministro Brunetta cade in questo errore, non solo quando colpisce indistintamente tutti i dipendenti che si assentano per malattia, ma anche quando lancia le sue invettive indiscriminate, come ha fatto ultimamente contro i musicisti e i lavoratori dello spettacolo. Anche il ministro della Funzione pubblica – anzi: lui prima di tutti gli altri – deve imparare a distinguere, per esempio, fra i molti lavoratori dello spettacolo che fanno bene il loro lavoro e i pochi che vivono di rendita. Che pure ci sono, certo; ma non mi sembra un buon modo di governare quello di insultare un’intera categoria. Governare bene un’organizzazione complessa implica saper individuare con precisione chi non fa il proprio dovere e chi no. Non sparare nel mucchio.
4. – Vedo alcune altre incoerenze non marginali tra la filosofia della prima parte del decreto e l’azione concreta del Governo e del ministro Brunetta in particolare:
- con questa legge abbiamo imposto la trasparenza totale alle amministrazioni pubbliche; sarebbe il caso di estendere il principio anche ai parlamentari; ora, in Senato giace, fermo da un anno, il disegno di legge n. 1290/2008 del Partito democratico e del Partito radicale, primi firmatari Ichino Finocchiaro e Bonino, il quale mira a istituire l’anagrafe degli eletti, disponendo che vengano resi accessibili in rete i redditi e i patrimoni, mobiliari e immobiliari, dei parlamentari e dei consiglieri regionali e comunali, e le loro variazioni; perché la maggioranza non consente che questo progetto venga messo subito all’ordine del giorno, se non altro per un motivo di simmetria con la legge Brunetta?
- il decreto Brunetta promuove la mobilità dei dipendenti pubblici e anche dei dirigenti; ma ora l’articolo 9 del d.d.l. n. 1167, firmato anche da Brunetta, che è all’esame del Senato, reintroduce i compartimenti stagni tra amministrazioni dello Stato, stabilendo che la progressione di carriera dei dirigenti può avvenire soltanto nell’amministrazione di origine e togliendo ogni valore alle funzioni svolte in altre amministrazioni; che senso può avere questo avanti-indietro, se non quello del cedimento alle pressioni revansciste della parte più conservatrice degli apparati ministeriali?
- il ministro ha lanciato per tutto l’anno scorso forti annunci nel senso di premiare i migliori, di voltar pagina rispetto all’appiattimento dei trattamenti, e così via; ma dal sito del ministero della Funzione pubblica si trae che le retribuzioni dei dirigenti, dall’inizio della legislatura sono rimaste tutte perfettamente uguali: 6 politico a tutti! Perché il ministro non ha incominciato a premiare i migliori in casa sua, dove era già suo compito provvedere sulla base della vecchia disciplina, anche senza bisogno di una nuova legge?
- il Governo promette servizi pubblici migliori, ma intanto nel settore della sanità, in un anno e mezzo, abbiamo visto tagli indiscriminati per 5 miliardi e nessun investimento: come è sbagliato dare i premi a pioggia a tutti, allo stesso modo è sbagliato tagliare così, alla cieca, quando sappiamo tutti che esistono centri che erogano servizi eccellenti e centri che producono solo sprechi enormi; stesso discorso per i tagli nel settore scolastico (con l’unica eccezione di una marginale differenziazione introdotta dal ministro Gelmini nel settore universitario);
- il buon esempio dovrebbe essere dato dall’alto: il primo ad applicare il principio di trasparenza totale dovrebbe essere il Presidente del Consiglio; e invece nella legge-delega e nel decreto delegato è stata inserita una bella deroga proprio per la Presidenza del Consiglio: lì, dunque, niente trasparenza, niente libertà di accesso a documenti e informazioni. Capirei se si fosse escluso un articolare ufficio affari riservati, un particolare sottocapitolo di bilancio; invece no: l’intera Presidenza del Consiglio è esente dalla trasparenza, è al di sopra della legge;
- l’anno scorso il Governo ha azzerato le indennità distribuite a pioggia, dicendo che avrebbero dovuto essere redistribuite per premiare il merito; ora risulta che al ministero del Lavoro e della Sanità le indennità sono state ripristinate, ma soltanto per i membri dei Gabinetti dei ministri e per gli autisti. A questi, tutti, senza alcuna distinzione di merito; agli altri dipendenti dello stesso ministero niente: che senso ha tutto questo?
Un’ultima notazione critica. Con decreto a sé stante, il Governo ha varato quella che il ministro Brunetta chiama pomposamente “class action contro le amministrazioni pubbliche non adempienti”. In realtà, il nuovo istituto processuale non ha nulla a che vedere con la class action statunitense, perché non può avere ad oggetto una richiesta collettiva di risarcimento del danno. Spero di sbagliarmi; ma esso avrà scarsissima fortuna: chi mai può essere così ingenuo da spendere tempo e denaro per ottenere che un Tribunale Amministrativo dia un buffetto a un’amministrazione pubblica, “ingiungendole” di fare il proprio dovere?
5. – La verità è che l’opera di cambiar faccia alle amministrazioni pubbliche responsabilizzandone i dirigenti verso la cittadinanza è un’opera lunga e difficile, per la quale nessuna legge, per quanto ipoteticamente ben fatta, può bastare; e ancor meno può bastare la “politica degli annunci”. È solo sulla media e lunga distanza che si potranno vedere gli effetti di questa nuova legge; ma in ogni caso essi dipenderanno dalla continuità e coerenza dell’azione quotidiana dell’intero Governo e del ministro della Funzione pubblica in particolare. Il quale, peraltro, ha ultimamente manifestato l’intendimento di candidarsi alla guida del Comune di Venezia: forse ritiene di avere risolto con l’emanazione di questa legge ogni problema, di avere esaurito il suo compito?”
Pietro Ichino

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Semplificazione: Ichino risponde a Gottardi

La giuslavorista veronese, già parlamentare europea del Pd, il 15 ottobre 2009 ha pubblicato su Facebook l’appello che è qui riprodotto, rivolto al Pd perché venga respinto immediatamente il Progetto Semplificazione. Segue una mia lettera aperta di replica a questo appello.
Semplificazione o azzeramento?
“Pietro Ichino sta raccogliendo le firme per depositare un disegno di legge sulla semplificazione della normativa sui rapporti individuali di lavoro. Pur considerando ampiamente condivisibili e anzi necessarie operazioni di semplificazione del quadro della normativa in materia di lavoro, la proposta è irricevibile perché:
- sembra che nessuno nel nostro partito in parlamento abbia presentato proposte sul tema della garanzia a cerchi concentrici della protezione delle persone che lavorano, dimenticando completamente il disegno di legge sulla Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Testo da aggiornare, ma che costituisce ancora oggi una base di partenza, soprattutto per la scelta di scrivere sullo spartito dello Statuto dei diritti dei lavoratori più che su quello del codice civile;
- la trasposizione delle direttive europee viene eliminata, bastando la loro traduzione e la loro interpretazione come standard minimi di riferimento, dimenticando inoltre che spesso le direttive rinviano alle determinazioni degli Stati;
- l’operazione di semplificazione appare piuttosto un azzeramento della produzione normativa esistente.
Emblematico il campo che riguarda soprattutto le tematiche cui sono particolarmente attente le donne:
- il diritto antidiscriminatorio è cancellato e sostituito dal rinvio alle direttive europee, con una operazione assurda e irrealizzabile, per di più dimenticando per strada il fattore di rischio costituito dalla disabilità;
- la normativa sui congedi per maternità e paternità, anziché essere uniformata maggiormente e immaginata calibrata sulle diverse esigenze legate al lavoro nell’area della precarietà, torna ad essere incardinata quasi esclusivamente sulla madre, con buona pace dei tentativi di sostenere la condivisione dei ruoli;
- per il lavoro di cura e di assistenza familiare, si pensa a un buono-lavoro, e tanto basta! La proposta dovrebbe essere dichiarata irricevibile dal Partito democratico”.
Donata Gottardi
Lettera aperta di Pietro Ichino a Donata Gottardi
“Cara Donata,
“irricevibile” è un termine che nel linguaggio sindacalese viene usato sempre più frequentemente per squalificare drasticamente una proposta contrattuale, un progetto, un’idea; per chiarire sinteticamente che non si può neppure incominciare a discuterne, tanto essa è assurda e aberrante. Tu dunque chiedi, in sostanza, che il Partito democratico rifiuti persino di incominciare a discutere del “progetto semplificazione” a cui sto lavorando con numerosi esperti della materia, tanto lo consideri assurdo e aberrante.
Per l’amicizia che ci lega, mi propongo di convincerti che il tuo giudizio complessivo, così drasticamente negativo, e le singole critiche che muovi al progetto (tutte, tranne una) nascono da una lettura forse un po’ troppo affrettata del progetto: le drastiche riduzioni di tutela che denunci non ci sono affatto. Ma, prima di entrare nel merito di queste critiche ti chiedo: come puoi pensare che il Partito democratico rifiuti persino di incominciare discutere sul come aumentare il tasso di effettività e allargare il campo di applicazione del nostro diritto del lavoro, sul come disegnare un ordinamento che volti pagina rispetto al regime oggi vigente di vero e proprio apartheid tra protetti e non protetti? Potrai dire che nel progetto ravvisi delle lacune, o che molte delle soluzioni proposte non ti soddisfano; discutiamone, integriamo, correggiamo. Ma per far questo, perché si possa discuterne, occorre che le proposte “si ricevano”. Quella dell’“irricevibilità” è la tecnica con cui si blocca la discussione prima ancora che si apra, con cui si costruiscono i tabù, si stendono i cordoni sanitari di infausta memoria, si creano le premesse per le sclerosi culturali che tanti danni hanno procurato al movimento sindacale, alla sinistra e alla sua politica del lavoro.
Dici che questo progetto dimentica la Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori presentata da un gruppo di parlamentari dell’Unione nella passata legislatura. Ma quella Carta per un verso non modificava di una virgola il diritto del lavoro oggi applicabile alla metà dei lavoratori di “serie A”, neppure per migliorarlo sul piano della qualità e leggibilità del dettato legislativo, per altro verso sostanzialmente riconfermava in tutto e per tutto la divisione dei lavoratori tra “serie A” e serie inferiori, alle quali si proponeva di estendere – con molta parsimonia – qualche brandello di protezione, confermando per il resto l’enorme differenza nel livello delle protezioni. Rispetto a quella Carta, il progetto del nuovo Codice del lavoro costituisce dunque un passo avanti almeno per quel che riguarda il superamento del dualismo del mercato del lavoro, del regime di apartheid. Per realizzare questo superamento è indispensabile fare proprio ciò che quella Carta non faceva e che tu consideri inammissibile: cioè riscrivere il vecchio diritto del lavoro.
Certo, questa riscrittura comporta l’ideazione di un sistema di protezione nel quale si riduce qualche rigidità del vecchio diritto del lavoro di “serie A”: è inevitabile, poiché il disegno è proprio quello di evitare che tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno gravi soltanto sui lavoratori di “serie B” (lavoratori a termine e a progetto, co.co.co.) e di “serie C” (“partite IVA” fasulle, falsi lavoratori “in partecipazione” e simili). Ma di fronte alle modifiche del sistema di protezione delineato nel Codice semplificato devi porti questa domanda cruciale: per un ventenne qualsiasi che si affaccia oggi sul nostro mercato del lavoro è preferibile il regime attuale (che in due casi su tre lo condanna a una lunghissima anticamera di lavoro poco o per nulla protetto prima di poter accedere – se mai vi accederà – al lavoro regolare a tempo indeterminato), oppure è preferibile il regime delineato nel progetto, che offre a tutti pari diritti durante il rapporto per quel che riguarda retribuzione, malattia, permessi, ecc., una protezione della stabilità crescente con l’anzianità di servizio, e una robusta protezione nel mercato per il caso di perdita del posto? Non vedi che i nostri ragazzi migliori, insofferenti di tutta questa anticamera, stanno andando all’estero? Considera, poi, che la nuova protezione della stabilità riguarda soltanto i nuovi rapporti di lavoro: ai vecchi continua ad applicarsi il vecchio regime (articolo 2 del disegno di legge); nel compiere la scelta, dunque, devi metterti esclusivamente nei panni di chi entra oggi o entrerà domani nel nostro mercato del lavoro, non nei panni di chi un lavoro stabile lo ha già: la riforma lo riguarda solo in minima parte.
Può essere che tu, dopo avere riflettuto a fondo, discussi e soppesati tutti gli aspetti della riforma proposta, finisca col rispondere che preferisci il vecchio regime. Ma puoi arrivare a questa scelta soltanto dopo avere, appunto, discusso e soppesato tutti gli aspetti del progetto, facendo lo sforzo di guardare alla questione con gli occhi delle nuove generazioni, non con quelli della nostra; dunque, soltanto dopo avere “ricevuto” e discusso a fondo senza pregiudizi il progetto. Cioè avendo rinunciato alla tecnica della chiusura preventiva della discussione, del cordone sanitario, del tabù, che si riassume nella formula drastica della “irricevibilità”.
Detto questo, rispondo punto per punto alle tue critiche:
- nella relazione introduttiva al disegno di legge è detto esplicitamente che il nuovo Codice del lavoro sostituisce le leggi di recezione delle direttive comunitarie soltanto per alcune materie (in particolare: diritti di informazione, contratto a termine, part-time, distacco, trasferimento di azienda, licenziamenti collettivi), non per le altre, come quella della sicurezza nei luoghi di lavoro e quella dei divieti di discriminazione: le relative leggi di recezione, infatti, non sono comprese nell’elenco di quelle che vengono abrogate, contenuto nell’articolo 5 del disegno di legge;
- è vero che, sia in materia di sicurezza (articolo 2087), sia in materia di discriminazioni (articolo 2091), il nuovo Codice del lavoro contiene un rinvio aperto agli standard comunitari (cioè una “norma di chiusura” che mira a far sì che la disciplina comunitaria di queste materie rifluisca automaticamente nel nostro ordinamento interno, anche nel caso – purtroppo non infrequente – di ritardo nel recepimento specifico); ma il testo unico sulla sicurezza, il “codice delle pari opportunità”, e tutte le altre norme antidiscriminatorie specifiche restano in vigore; è del tutto falso, dunque, che nel progetto “il diritto antidiscriminatorio sia cancellato”;
- nel sistema delineato da questo Codice del lavoro e in particolare nell’articolo 2101, come la relazione introduttiva chiarisce esplicitamente, il buono-lavoro è considerato non come elemento di un tipo di contratto di lavoro a sé stante (il “lavoro accessorio” previsto dall’ordinamento oggi vigente), bensì soltanto come un mezzo semplificato di pagamento della retribuzione e di adempimento degli oneri amministrativi, fiscali e previdenziali, senza che ne risulti in alcun modo alterata la disciplina del rapporto di lavoro.
Su di un punto hai ragione: l’articolo 2111 sui congedi per maternità e paternità va corretto, integrato e calibrato meglio. Ci stiamo lavorando, in modo che il nuovo testo sia pronto prima della presentazione del disegno di legge. Anche a questo proposito, però, ti invito a non lanciare anatemi troppo in fretta; mettiti nei panni di un (o una) giovane che si affaccia oggi sul nostro mercato del lavoro: quale probabilità gli/le dai di fruire, in tempo utile per la sua eventuale paternità o maternità, del testo unico del 2001? Se gli dai – come è ragionevole dargli, sulla base dei dati disponibili – una probabilità bassa di fruirne in tempo utile, non pensi che anche la difettosissima formulazione attuale dell’articolo 2111 del Codice, applicandosi a tutti i lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza, sarebbe complessivamente meglio del regime vigente che ne taglia fuori metà?
Così torniamo al punto di partenza della riflessione che ti propongo: se vogliamo delineare una politica del lavoro che dica qualche cosa di credibile alle nuove generazioni, smettiamola con le squalifiche preventive di qualsiasi progetto che anche soltanto marginalmente “tocchi” il vecchio ordinamento. E mettiamo, noi giuslavoristi, la nostra competenza a disposizione dei rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori per la stesura del nuovo diritto del lavoro di cui le nuove generazioni hanno bisogno. Decidano loro qualè l’equilibrio giusto e sostenibile di un sistema di protezioni applicabili veramente a tutti coloro che lavorano in condizione di sostanziale dipendenza: a noi del mestiere solo il compito di mostrare che la riforma è tecnicamente possibile. E che anche la semplificazione non è un’utopia. L’obiettivo del progetto del nuovo Codice in 64 articoli è essenzialmente questo.
Cara Donata, spero, con questa lettera, di avere almeno ottenuto da te la rimozione della patente di “irricevibilità” e che quindi il dialogo su questo progetto con te, come con tutti gli altri colleghi giuslavoristi, possa continuare serenamente.
A risentirci presto”
Pietro Ichino

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sabato 17 ottobre 2009

Semplicemente deluso

Riporto il pensiero di Renato Fianco pubblicato su Facebook in merito alle liste Semplicemente Democratici presentate a Verona per il congresso del Partito Democratico.
"Vogliamo un Partito Democratico radicato nel territorio, plurale, aperto a storie, tradizioni e sensibilità diverse". Questo ha detto Debora Serracchiani nella conferenza stampa di ieri a Verona. Sono del tutto d'accordo, ma la modalità con cui a Verona è nata la lista "Semplicemente Democratici", mi sembra del tutto in contrasto con quelle parole.
Ho partecipato con convinzione ed entusiasmo alla campagna delle europee a sostegno di Debora, ho condiviso la gioia del risultato ad Abano nella festa per i volontari durante la quale si era cominciato a prospettare l'idea di Semplicemente Democratici, ho sperato che anche a Verona potesse nascere una lista che raccogliesse le idee e i valori che esprime Debora. Proprio per questo, quando ho saputo ieri sera che la lista "Semplicemente Democratici" era stata presentata, sono rimasto semplicemente perplesso, deluso e anche un po' incazzato.
Ma come? nasce una lista senza che venga fatta una riunione, senza invitare tutti quelli che avevano aderito e si erano dichiarati disposti a condividere questo progetto, senza discutere dei criteri e delle disponibilità? Cosa c'è di meno democratico di questo? Una lista deve partire dal basso, cercare di coinvolgere persone nuove (era questo il senso di Semplicemente Democratici), presentarsi in modo trasparente all'esterno. E invece ... Una lista "paracadutata" dall'alto, decisa da non si sa chi, presentata all'ultimo momento senza alcun confronto.
Dico subito che non ero interessato ad alcuna candidatura, non mi interessano cariche e poltrone, ma mi interessa che ci sia un rinnovamento nel Partito, che episodi come questo rendono, purtroppo, più difficile. Le persone nuove, giovani o meno, quelli che vorrebbero fare politica in modo trasparente sono i primi ad essere disgustati quando si fanno operazioni tra "addetti ai lavori".
Anche la conferenza stampa di Debora a Verona, mi ha lasciato perplesso: su Facebook si scrivono tutti gli appuntamenti, si cerca di divulgare le iniziative e, invece, questo incontro appare a cose fatte, con una frase criptica di Causin, che scrive : Conferenza stampa di Debora a Verona, senza luogo e ora (non tutti leggono l'Arena!).A questo punto la reazione mia e di molti del mio Circolo, che avevano appoggiato "Semplicemente democratici", come abbiamo detto espressamente a Debora, è stata di totale distacco e di delusione. Non so come si comporteranno per quanto riguarda le indicazioni di voto. Per quanto mi riguarda io sosterrò Franceschini, ma non voterò Semplicemente Democratici, per tutti i motivi che ho espresso qui. Credo che questa lista, per come è nata e per come si pone, sia un danno anche per Debora e sia contraria allo spirito che stava alla base dell'incontro, così coinvolgente, di Abano."
Renato Fianco
Si riportano alcuni commenti degli amici di Verona
“E' emersa la strategia nascosta di cui i fautori e gli esecutori si conoscono bene fin dall'estate. Per tale motivo avevo richiesto a Debora fin da allora la sua presenza a Verona. Con Debora ci siamo sentiti al telefono dopo la conferenza stampa di Verona e ci siamo promessi di farci una chiacchierata”.
Antonino Leone
“Profondamente delusa anch'io! Ma come Debora Serracchiani viene a Verona e noi che l'abbiamo votata ed aiutata non ne sappiamo nulla! Cos'è una lista segreta? Chi ha interesse a tenerla nascosta per farsene bello ed usarla? Forse Debora dovrebbe cercare di conoscere le persone che la sostengono nei vari territori, altrimenti farà la fine di Bersani: un contenitore di rifiuti! E pensare che mi aveva entusiasmato così tanto! Che delusione se penso ai nomi veronesi che la sostengono!
Donatella Fanini
“Ricorda, non sono per persone che sbagliano, ma lei che non sa valutare chi ha intorno! Debora mi è stata presentata, sono una sua collega, giovane, donna, che si occupa di diritto del lavoro e di discriminazione di genere, mi ero offerta insieme ad altri di creare la lista SemDem qui a Verona...mai più sentita! Allora che si limiti a fare il parlamentare europeo e a farlo bene! Se non fosse stato per Donata Gottardi, non sarei nemmeno in lista!”
Donatella Fanini
“In effetti le persone c'erano, persone nuove e piene di entusiasmo e non capisco proprio per quale motivo sia stata paracadutata questa lista. Penso anch'io che sia stata mal consigliata, ma il danno è stato fatto e ora sta a lei, se lo ritiene opportuno, trovare una soluzione. Personalmente le ho anche scritto, dicendo tutto quello che penso. Ci vuole purtroppo una grande Pazienza Democratica. Grazie Donatella per gli interventi”
Renato Fianco
“Se Debora riesce a fare pulizia, altrimenti ha grandi probabilità di fallire, perché le persone oneste, che non mirano alle poltrone e che fanno politica per passione sottraendo tempo ad altre cose se ne allontaneranno presto! La forza di Debora era il cambiamento, ma cambiare non significa essere giovani anagraficamente significa essere giovani nel modo di far politica! Non c'è nulla di peggio dei ventenni che fanno politica come i vecchi capibastone!”
Donatella Fanini
"Caro Alfonso, una rondine (Verona) non fa primavera, ma due (Napoli) cominciano a porre un problema. Spero che con Debora ci sia l'occasione di parlarne, per evitare che si torni veramente indietro. Se fossi Debora, direi semplicemente: a Verona abbiamo sbagliato (succede!) e quindi votate la lista Franceschini, punto e basta. Questa sì che sarebbe una ventata di novità: avere il coraggio di ammettere gli errori e ripartire."
Renato Fianco
"Facciamo squadra certo, ma non con chi sotto la sigla SemDem si è fatto la lista da solo, roba da vecchia squallida politica, che allontana la gente perbene."
Renato Fianco

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giovedì 15 ottobre 2009

Italia: una società bloccata

Articolo di Irene Tinagli, docente di Economia delle Imprese presso l’Università di Madrid, pubblicato su la Stampa il 7 ottobre 2009
Cosa spinge le persone a studiare, lavorare e impegnarsi ogni giorno per fare sempre un po’ di più? È la speranza di poter garantire a se stessi e ai propri figli un futuro migliore. Una speranza che si realizza quando in un Paese esiste mobilità sociale. È questa prospettiva di crescita personale che fa muovere un Paese, che stimola le persone a imparare, a produrre e a creare ricchezza, non l’obiettivo della pensione o quello di ridurre il debito pubblico.
Eppure, noi ci preoccupiamo solo delle pensioni e di escamotage contabili per far tornare i conti. Legittimo, anche questo è necessario. Ma abbiamo smesso di preoccuparci di ciò che davvero contribuisce alla costruzione del futuro, di quello che i cittadini sperano, sognano, temono. Abbiamo dismesso le loro paure, bollandole come «psicologiche», irrilevanti. Così facendo abbiamo commesso due gravi errori. Primo, abbiamo dimenticato quello che ormai tutti gli economisti sanno: che sono proprio le percezioni e i fattori psicologici che alla fine determinano le scelte e i comportamenti economici delle persone. Se le persone sono convinte che qualsiasi cosa facciano sarà inutile ai fini della loro crescita personale, smetteranno di investire in se stesse, di impegnarsi nello studio o nel lavoro che fanno.
Secondo, abbiamo rinunciato ad analizzare e capire la realtà in cui vive il Paese. Il sentire delle persone non nasce dal nulla, nasce da esperienze concrete e dalle dinamiche sociali ed economiche. È importante cogliere questi fenomeni con tempismo per adottare politiche e interventi adeguati. Un’analisi approfondita di queste dinamiche mostra che l’Italia è in effetti un Paese bloccato e che il rallentamento della mobilità sociale non è una percezione infondata. È invece legato a problemi reali del nostro sistema economico e sociale che si sono acutizzati nel tempo. Negli ultimi anni in Italia sono aumentate le diseguaglianze, e la povertà si è diffusa tra i giovani e le famiglie con i bambini piccoli, tanto che oggi l’Italia è il Paese europeo con il più alto tasso di bambini a rischio di povertà. Non solo, ma l’Italia è anche uno dei Paesi in cui è più difficile uscire dal disagio. Questi sono tutti elementi che rendono la nostra società sempre più rigida e difficile da «scalare». Una società in cui la famiglia di origine è sempre più determinante nell’accesso alle opportunità e nella probabilità di successo delle nuove generazioni. Abbiamo uno dei tassi di «ereditarietà» della ricchezza più alti d’Europa: i dati sull’elasticità dei redditi tra padri e figli ci dicono che in Italia circa il 50% del differenziale di ricchezza dei genitori si trasmette ai figli, un dato altissimo se confrontato con altri Paesi europei in cui si aggira attorno al 20%.
Cosa significa questo? Significa che i figli dei ricchi tendono a restare ricchi e i figli dei poveri tendono a restare poveri. Non solo, ma è sempre più difficile per i ragazzi nati in famiglie umili avere la possibilità o la forza di riscattarsi. In Italia la probabilità che un giovane con padre non diplomato si laurei è solo del 10%, contro oltre il 40% dell’Inghilterra e il 35% della Francia, per fare un esempio. Questo ci dice che milioni di giovani in Italia stanno gettando la spugna. La situazione è particolarmente allarmante perché non esiste in Italia nessun piano o misura che si proponga di affrontare il problema in modo strategico e sistematico. Ed è proprio questo quello che più di ogni altra cosa ci distingue rispetto ad altri Paesi. Infatti, l’irrigidimento della società è un problema che non riguarda solo noi ma che, in vario grado e misura, caratterizza anche altri Paesi industrializzati come Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Tuttavia in questi Paesi esiste una consapevolezza maggiore verso questi temi, che ha portato all’adozione di misure strutturali volte a recuperare dinamismo e restituire opportunità a ceti sempre più esclusi. Una strategia che in Italia manca completamente.
Ma quali sono le politiche attivabili per riattivare la mobilità sociale di un Paese? Da un lato politiche sociali efficaci per garantire a cittadini di ogni provenienza sociale pari accesso alle opportunità di crescita, dall’altro un sistema economico in grado di riconoscere i meriti e dare modo a chi è bravo di far carriera. I Paesi che stanno cercando di recuperare mobilità sociale intervengono in queste direzioni, soprattutto in quella su cui sono più carenti. Per esempio Inghilterra e Stati Uniti, che tradizionalmente hanno privilegiato i meccanismi meritocratici di mercato, stanno investendo pesantemente in politiche sociali per restituire ai ceti più deboli opportunità di crescere e migliorarsi. L’Italia invece è debole su entrambi i fronti. Ha un sistema economico ancora molto ingessato da protezioni di vario genere, e una spesa sociale dominata per il 60% dalle pensioni che non lascia spazio per lo sviluppo dei bambini, per i giovani, e per tutti quei servizi che aiutano le giovani famiglie a conciliare lavoro e carriera e a crescere. Possiamo continuare ad ignorare il problema e ad evitare le necessarie riforme ed investimenti, ma dobbiamo allora essere pronti a subirne le conseguenze. Conseguenze che sono visibili già oggi, ma che saranno ancora più gravi tra qualche anno. Perché se i dieci milioni di bambini e ragazzi che ci sono oggi in Italia non avranno l’opportunità o la motivazione di studiare, impegnarsi e migliorarsi, non riusciranno ad avere le competenze necessarie per competere su un mercato del lavoro sempre più agguerrito e globalizzato. E se non saranno competitivi loro, non lo sarà nemmeno l’Italia.

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Talento da svendere di Irene Tinagli

Editore Einaudi, 2008
«Un libro che smonta senza alcuna pietà il mito della creatività italiana. Un libro fondamentale per capire il ruolo e il potenziale di una nuova generazione di talenti e i limiti di un sistema politico ed economico che non ha saputo valorizzarli»
Richard Florida
L’Italia sarà forse un paese di poeti e navigatori, ma proprio nell’era globale del talento il suo ruolo nella competizione internazionale si è fatto sempre più marginale. Quali sono le ragioni del declino di una nazione che si è sempre vantata della sua naturale indole creativa?
Irene Tinagli, giovane e brillante osservatrice delle dinamiche dell’innovazione economica, racconta in questo libro il fallimento delle politiche che avrebbero dovuto motivare l’elemento chiave di ogni processo creativo: gli individui. Perché in Italia ci sono oltre quattro milioni di persone che lavorano in settori strategici come la medicina, l’ingegneria, il design, la moda.
Protagonisti di piccoli o grandi gesti creativi che non sono stati ancora riconosciuti dalle università e dalle imprese, dalle comunità sociali e dalla politica.
Recensioni
Repubblica, 29 Aprile 2008, di Michele Smargiassi
La Repubblica, 25 Maggio 2008, di Giuseppe Turani
Corriere della Sera, 29 Maggio 2008, di Beppe Severgnini
Il Manifesto, 5 Giugno 2008, di Gigi Roggero
Avvenire, 9 Luglio 2008, di Mauro Cereda

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mercoledì 14 ottobre 2009

Brunetta e Ichino a Porta a Porta

Ieri a Porta a Porta il ministro Brunetta per glissare le posizioni espresse dal senatore Pietro Ichino ha dichiarato esplicitamente che molti temi disciplinati dal decreto legislativo di attuazione della legge n. 15/09 sono condizionati dalla sua diffidenza e sfiducia nei confronti del management pubblico.
Pertanto, il declassamento dell’indipendenza e dell’autonomia dell’autorità di controllo e garanzia, la mobilità forzata, la delega al Ministro di decidere le fasce di reperibilità con un semplice atto ministeriale in caso di malattia da parte dei dipendenti pubblici, la regolamentazione minuziosa e dettagliata del sistema di incentivazione che si basa su tre fasce di merito e la limitazione dell’area di contrattazione collettiva rappresentano la logica conseguenza del presupposto sbagliato del Ministro Brunetta che ha inteso costruire la riforma della PA sulla sfiducia e sulla diffidenza.
Posizione questa esplicitamente contestata dal senatore Pietro Ichino, il quale ha affermato che occorre lasciare spazi di discrezionalità e responsabilità ai dirigenti pubblici nel conseguimento dei risultati programmati e nello stesso tempo effettuare controlli efficaci sugli obiettivi assegnati e sui risultati conseguiti così come avviene nel settore privato.
Nessuna organizzazione privata e pubblica nel mondo basa il proprio modello di organizzazione e di politica delle risorse umane sulla sfiducia nei confronti delle persone che operano nella struttura. Solo in Italia si verificano queste condizioni con grave nocumento nei confronti dei cittadini clienti, delle imprese e dei lavoratori pubblici.
Sull’assenteismo la riduzione della retribuzione in caso di malattia colpisce tutti i lavoratori pubblici incluso quelli onesti e le visite mediche di controllo obbligatorie per i dipendenti pubblici potrebbero essere sostituite da una attenta valutazione del management pubblico, il quale potrebbe stabilite dei controlli mirati. Inoltre, ai dirigenti si potrebbe assegnare l’obiettivo di conseguire il parametro dell’assenteismo prestabilito.
Il ministro Brunetta “tenta di mettere paletti, dichiara il mio amico Silvano Del Lungo. I paletti sono insufficienti. Va costruita la cultura del lavoro pubblico. Questa richiede un lavoro lungo …., continuativo, condiviso, ritmato, fondato sulla formazione e sullo sviluppo-intervento”.
Ritengo che ancora una volta si è persa l’occasione di riformare in modo efficace le Pubbliche Amministrazioni in un momento di grave crisi economica, la quale può essere superata anche con il contributo della macchina pubblica.
Ieri sera grazie al contributo di Bruno Vespa, il quale ha dimostrato di essere informato soltanto su alcuni problemi marginali che fanno notizia, si sono toccati alcuni argomenti importanti in modo marginale.
La conduzione di Bruno Vespa ha lasciato a desiderare in quanto in diverse occasioni il senatore Pietro Ichino veniva interrotto dal ministro Brunetta su alcuni temi interessanti che potevano essere trattati in modo approfondito ed offrire così una chiave di lettura alternativa alla posizione di Brunetta.
Video della trasmissione

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