mercoledì 28 marzo 2012

Lavoro, ricordo di Ezio Tarantelli

Articolo di Alessandra Del Boca, docente di Economia nell’Università di Brescia, pubblicato sul Corriere della Sera del 27 marzo 2012
Caro Direttore, negli ultimi giorni mi è sembrato di andare indietro di trent’anni: ho ripensato alla scala mobile, alla barricata eretta contro la ragionevolezza economica che è costata la vita a un amico, una vita intelligente, preziosa per il Paese: Ezio Tarantelli sarebbe stato felice se avesse potuto vivere fino al ’93, quando Ciampi chiude quel capitolo ventennale della storia patria, ma la sua vita si ferma il 27 marzo 1985, quando esce da lezione di corsa perché lo aspettano Tiziano Treu e Piero Craveri per scrivere il manifesto del no al referendum contro l’abolizione della scala mobile. Con dolore ho visto l’assetto di guerra dispiegato da Cgil e dal Pd, Di Pietro dichiarare «sarà il nostro Vietnam», la carrellata dei talk show, dove molti non competenti di questa materia filosofeggiavano sul decadimento dell’uomo ridotto a insieme di competenze. Mi è venuto in mente quello che c’era sul parabrezza della Citroën rossa di Ezio, la Risoluzione n. 20, 70 pagine di delirio puro dove si leggeva «il salario si difende con il fucile». Come abbiamo potuto non imparare la moderazione in un Paese dove ci sono sempre menti deboli vittime dell’essere più a sinistra, capaci di prendere sul serio l’estremismo verbale, l’esagerazione, la violenza? Ezio avrebbe voluto un sindacato unitario un po’ tedesco che trattava con coscienza e sobrietà, un sindacato forte e partecipativo. La sua intelligenza impertinente irritava alcuni quando spiegava la realtà con modelli astratti ma tanto reali da costargli la vita. Era una piccola idea geniale e pragmatica la sua. L’inflazione deve essere predeterminata, se non fermi la rincorsa della determinazione dei salari con le aspettative, l’inflazione si autoalimenterà: aveva combattuto contro gli automatismi per dare al sindacato spazi di «agibilità negoziale», sottratti alle dinamiche automatiche del costo del lavoro.Oggi, nella reazione alla riforma troviamo i vecchi ingredienti della reazione rabbiosa e vendicativa, della fuga nell’irrazionalità e nel populismo. Avremmo bisogno del contributo dell’intelligenza della sinistra, di lavorare sui punti deboli, al di là del simbolo numero 18. Per la prima volta c’è una riforma globale del mercato dopo trent’anni di contributi importanti ma parziali. L’articolo 18 non si poteva nemmeno pronunciare e questo ha distorto il complessivo funzionamento del mercato. È vero che non tocca tutti i lavoratori, ma il suo impatto sulle imprese e sul mercato è enorme. Per questo le imprese hanno accettato di pagare di più ed essere vincolate per avere più certezza sui costi delle uscite.
Questa riforma ha aspetti tecnici che vanno studiati e perfezionati. La riforma mette al primo posto l’apprendistato e lo aggancia all’assunzione, lascia molte forme di flessibilità che per essere buone vanno monitorate. Il momento è drammatico, in Italia, c’è bisogno di tutta la flessibilità alle imprese e si vuole mettere un alt deciso all’abuso del contratto atipico. Bisogna differenziare l’aggravio posto sulle imprese che usano lavoro a tempo determinato: un pezzo non piccolo dell’economia lavora a tempo determinato per sua natura, agricoltura, terziario, turismo. Giusto aumentare i contributi che vadano a un fondo permanente, ma si deve lavorare di distinzioni, non sacrificare occupazione e rischiare il ricorso al sommerso.
Sulle politiche attive c’è molto da suggerire. L’incontro domanda offerta è uno snodo vitale del mercato dove il pubblico colloca solo il 3% dell’occupazione, non esiste un centro nazionale e le agenzie funzionano in 5 regioni. Sugli ammortizzatori, benvenuto Aspi (Associazione sociale per l’impiego) che deve essere declinato nelle fattispecie contributive: prima che diventi il sussidio unico dobbiamo passare la selva oscura dei sussidi di varia natura durata ed entità che dovrà essere diboscata. Sull’articolo 18 certamente le imprese temono il reintegro ma soprattutto la lunghezza, l’incertezza e la penale altissima che oggi dipende dalla lunghezza del processo. Sanno bene che non è tanto la reintegrazione a cui mirano i dipendenti nella maggioranza dei casi quanto a un indennizzo più alto possibile, la reintegrazione finisce per rialzare il prezzo di una transazione resa opaca dalla lunghezza dei tempi e dalla roulette russa geografica e individuale. La nuova normativa risolve e mette una multa molto alta, un deterrente di massimo 27 mesi, che non credo abbia eguali in Europa, toglie l’incentivo a puntare su un indennizzo gonfiato dalla lunghezza del processo. Nel frattempo, il dipendente non vive d’aria, quindi immaginiamo che lavorerà in nero o si farà aiutare dalla famiglia. La Germania piace? Certo l’applicazione della legge è più trasparente e conciliatoria, simile alla riforma del nostro governo eccetto in un caso: il lavoratore sta al suo posto e lavora fino alla fine dell’eventuale processo che avviene solo nel 6% dei casi, dopo che la mediazione ha risolto la maggioranza dei casi, dove l’impresa offre subito anche la sua proposta di buonuscita, dove la natura partecipativa è il segreto che produce una pratica buona e non conflittuale. Gli effetti potenziali sul lavoro dei giudici vanno studiati e affrontati con un atteggiamento che spero sia quello della foto di Cernobbio dove Susanna Camusso ride di gusto alle irresistibili battute di Mario Monti.

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martedì 27 marzo 2012

Energia, costi alti a causa di esenzioni, agevolazioni e riduzioni

Intervista a Federico Testa a cura di Stefano Agnoli pubblicata sul Corriere della Sera il 26 marzo 2012
La bolletta scoppia. A danno di famiglie e piccole imprese, che per la stragrande maggioranza sono escluse dalla selva di esenzioni e contributi che mettono invece al riparo le aziende più grandi, che potrebbero meglio sostenere l’onere di costi dell’energia più elevati. Quelle delle agevolazioni, spiega Federico Testa (esperto di questioni energetiche, deputato Pd e professore a Verona di Economia e gestione delle imprese) è una sorta di riserva esclusiva dove non i intravede politica industriale: “ Il sostegno è concesso sulla base di criteri meramente quantitativi, senza alcuna selezione di merito o di priorità strategiche. Sarebbe ora, aggiunge, di rimettere mano a questo schema logico”.
La stangata
L’anno in corso, secondo le previsioni raccolte da Testa, si segnalerà come un altro periodo di costi boom. Non solo per i quasi fisiologici aumenti del prezzo dell’energia, legati alla congiuntura internazionale. Tra i maggiori imputati del caro-bolletta ci sarà ancora la cosiddetta componente A3, quelle deputata alla “promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili e assimilate”. La parte verde del costo dell’energia, insomma, che toccherà secondo le stime del Gse quota 10,4 miliardi di euro. Un record, il 43% in più rispetto ai 7,27 miliardi del 2011; un incremento del 153% rispetto ai 4,1 miliardi di euro registrati nel 2010. Un balzo in avanti coperto per la maggior parte dal fotovoltaico, che nel 2012 peserà per circa 6 miliardi su totale.
Ma non c’è solo l’energia rinnovabile (Cip6 compreso) a zavorrare la bolletta. Ad essa, spiega Testa, “ vanno sommate una serie di riduzioni di costo riservate ai grandi consumatori che finiscono per essere pagate da chi grande consumatore non è”.
Quali? Eccone un breve compendio: 1) il servizio di interrompibilità (tornato di attualità con la crisi del gas del gennaio scorso) che costa alla collettività circa 500-550 milioni l’anno; 2) la riduzione istantanea dei prelievi (la misura pro-Alcoa estesa alle isole maggiori) per 160 milioni; 3) l’esenzione degli oneri di dispacciamento (100-150 milioni); 4) l’import virtuale, introdotto per incentivare la realizzazione di interconnessioni (330 milioni); 5) l’esenzioni degli oneri di sistema sui consumi eccedenti 12 gigawattora (300-400 milioni).
Una lista di costi poco conosciuti dai cittadini-consumatori cui si deve aggiungere un’altra serie di costi “sommersi”, come quelli di trasmissione e dispacciamento che sono quadruplicati dal 2004 al 2012 e che vanno attribuiti all’extra remunerazione riconosciuta a Terna per buona parte dei suoi investimenti (nel 2008-2010 circa due terzi considerati sempre come “ opere strategiche”) e alla necessità di bilanciare l’apporto discontinuo delle fonti rinnovabili.
Una exit strategy
Come se ne esce? Certo, i difetti di fondo sono quelli già conosciuti: l’assenza di una strategia energetica nazionale e il pegno pagato all’incentivazione del solare, senza che si sia prodotta una vera filiera industriale nazionale. Qualche misura di contenimento potrebbe essere adottata, aggiunge Testa. Non solo rideterminando che cosa vada pagato in bolletta e che cosa debba passare alla tassazione generale (ad esempio i regimi tariffari speciali per le ferrovie), questione sulla quale l’attuale governo sembra non sentirci a causa della situazione del bilancio.
Ma anche rivedendo il sistema delle agevolazioni, selezionando i settori energivori e quelli di base più rilevanti per la competitività del sistema industriale o più esposti alla concorrenza. E ancora: spostando da Terna e Enel ai produttori di rinnovabili (e non più sulle spalle dei consumatori) l’onere di dotarsi di sistemi di accumulo; spingere sulla generazione distributiva; accelerare gli investimenti di interconnessione con gl altri Paesi europei. Dove la bolletta è certamente meno salata.

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domenica 25 marzo 2012

Pietro Ichino: luci e ombre della riforma del lavoro

Scheda del senatore Pietro Ichino per la Newsletter n. 193, 26 marzo 2012
LE LUCI
1. Per la prima volta in decenni si delinea un intervento di contrasto serio ed efficace contro la grave anomalia tutta italiana dell’utilizzazione delle collaborazioni autonome continuative in posizioni di lavoro sostanzialmente dipendente.
2. Sui contratti di lavoro subordinato a termine si interviene in modo giustamente più morbido, comunque perfettamente in linea con la direttiva europea del 1999: li si rendono un po’ più costosi rispetto al contratto a tempo indeterminato.
3. Si incentiva anche il ricorso al contratto di apprendistato, oggi troppo poco utilizzato in Italia per l’inserimento dei giovani nel tessuto produttivo.
4. Si istituisce per la prima volta nel nostro Paese un sistema universale di assicurazione contro la disoccupazione.
5. Si volta pagina rispetto a decenni di uso distorto della Cassa integrazione guadagni nelle crisi occupazionali aziendali.
6. Per la prima volta nell’ultimo quarantennio si determina con precisione il severance cost, cioè il costo di separazione tra l’impresa e il lavoratore per motivi economico-organizzativi, così superando una anomalia del nostro sistema rispetto a tutti gli altri ordinamenti occidentali.
 
7. In questo modo si muove un passo rilevante per il passaggio da un sistema di job property a un sistema di responsabilizzazione dell’impresa (entro limiti ben determinati) per la sicurezza economica e professionale dei lavoratori. Considero questo passaggio come una necessità vitale per il sistema economico del nostro Paese, poiché esso favorisce la migliore allocazione delle risorse umane e materiali e l’aumento della produttività.
8. Con la determinazione del severance cost e con la redistribuzione della flessibilità su tutta la forza-lavoro, si eliminano due dei fattori (certo non i soli, ma neppure dei meni rilevanti) della scarsissima attrattività del nostro sistema per gli investimenti stranieri: la rigidità del regime di job property nell’area del lavoro regolare e la necessità di attingere la flessibilità necessaria da una zona grigia, al confine tra il regolare e l’irregolare, nella quale – si sa – gli operatori stranieri si districano molto peggio rispetto a quelli indigeni.
LE OMBRE
1. A me sembra sbagliato che l'indennizzo per il licenziamento economico sia dovuto dall’impresa soltanto nel caso di sua soccombenza in giudizio. Prevedere che l’indennizzo sia dovuto sempre, all’atto del licenziamento stesso, è più equo perché il lavoratore non ne ha meno bisogno nel caso in cui il licenziamento è più giustificato. Prevedere che l’indennizzo sia dovuto sempre - salvo ovviamente il caso del licenziamento disciplinare – è più efficiente, perché in questo modo esso diventa un efficacissimo filtro automatico della scelta di licenziare, penalizzando l’impresa meno capace di manpower planning. Così, infine, si dimezzerebbero le controversie giudiziali in materia di licenziamento.
2. L’indennizzo per il licenziamento economico, inoltre, non è modulato in relazione all’anzianità di servizio; con la conseguenza che, nel suo minimo (15 mensilità), esso è troppo oneroso nella fase iniziale dei rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, i quali sono così resi troppo poco appetibili in sostituzione delle collaborazioni autonome continuative e dei contratti a termine. Per favorire la trasformazione delle collaborazioni autonome in lavoro subordinato regolare a tempo indeterminato, inoltre, non vedrei male che in questi casi si disponesse il mantenimento del contributo previdenziale al di sotto del 30% per il primo triennio dalla conversione.
3. Nella nuova disciplina dei licenziamenti compaiono ancora in misura troppo ridotta: a) l’applicazione effettiva del principio della condizionalità del sostegno del reddito al disoccupato; b) l’incentivo all’impresa che licenzia per l’attivazione dei migliori servizi di outplacement, al fine di ridurre al minimo i periodi di disoccupazione. L’onere per l’impresa che licenzia consiste infatti esclusivamente in un’indennità di scioglimento del rapporto, invece che essere ripartito tra un’indennità e un trattamento complementare di disoccupazione. Questo trattamento complementare, oltre a costituire un potente incentivo all’attivazione dei migliori servizi per la ricollocazione del lavoratore e al controllo sulla disponibilità effettiva di quest’ultimo (generando un interesse diretto dell’impresa per la ricollocazione più rapida possibile), consentirebbe di aumentare l’entità del sostegno del reddito e di allungarne la durata per i casi nei quali il ricollocamento è più difficile, senza che questo generi allungamento dei periodi di disoccupazione.
4. Last but not least, sarebbe meglio limitare l’applicazione della nuova disciplina ai nuovi rapporti di lavoro (secondo il metodo di transizione che i politologi indicano col termine layering), o quanto meno differire di qualche anno la sua applicazione ai rapporti già esistenti, innanzitutto per consentire il necessario riassestamento degli assetti contrattuali (poiché la nuova norma altera, sia pure marginalmente, il contenuto assicurativo del rapporto, è necessario consentire che anche il premio assicurativo implicito si ridetermini corrispondentemente). In secondo luogo, questo è necessario per evitare che l’ansia da recessione indebolisca politicamente la riforma. Su questo terreno e su quello della modulazione dell’indennizzo per il licenziamento economico in relazione all’anzianità di servizio vedo la possibilità di una mediazione politica decisiva.

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Ammortizzatori: riforma con equità e trasparenza

Articolo di Antonino Leone pubblicato su Sistemi e Impresa – Marzo 2012 n. 3
Per rimuovere le difficoltà dei lavoratori che si trovano in specifiche condizioni sociali occorre che il sistema degli ammortizzatori sociali sia equo e trasparente rispetto alla valutazione dell’azienda, allo status dei lavoratori ed all’erogazione dei sussidi.    
Le imprese durante la propria vita cessano l’attività o effettuano interventi di riorganizzazione, ristrutturazione e riconversione ed adeguano la pianta organica alla domanda dei consumatori per adattarsi ai cambiamenti del mercato e riprendere il cammino della crescita. Le imprese che si trovano in tali condizioni licenziano per cessata attività o riducono la pianta organica e, di conseguenza, i lavoratori sono sospesi ed hanno bisogno di tutele.
Sperequazioni e lagune del sistema
Lo status dei lavoratori che vivono tali condizioni può essere classificato nel modo seguente:
1) Lavoratori sospesi per eventi aziendali temporanei (contrazione del mercato, intemperie stagionali) e per ristrutturazione aziendale. Tali lavoratori hanno diritto rispettivamente alla Cassa integrazione guadagni (Cig) ordinaria e straordinaria. Superata la fase di difficoltà aziendale i lavoratori rientrano in azienda;
2) Lavoratori sospesi per ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione aziendale, crisi aziendale e procedure concorsuali. I lavoratori rimangono legati all’azienda, la quale non ha prospettive di ripresa dell’attività (es. Cig a zero ore) e sono collocati in Cig straordinaria per lunghi tempi per assicurare loro una forma di sostegno del reddito. Lo strumento della Cig non consente al lavoratore sospeso di riqualificarsi e rientrare nel mercato del lavoro;
3) Lavoratori licenziati a cui viene assegnato il trattamento di disoccupazione o di mobilità, il quale deve essere collegato con i servizi di outplacement e di riqualificazione professionale finalizzati agli sbocchi occupazionali esistenti.
Il primo ed il terzo caso sono trasparenti rispetto allo status dei lavoratori. Nei tre casi l’importo del sussidio è inferiore alla retribuzione percepita in costanza di rapporto di lavoro e basso per garantire ai lavoratori una vita dignitosa.
La recente riforma delle pensioni con l’innalzamento dell’età pensionabile non facilita la correlazione tra gli ammortizzatori sociali e la pensione (mobilità lunga, prepensionamenti) e, quindi, occorre trovare nuove soluzioni che risolvano lo stato di sofferenza dei lavoratori e rendano produttive le risorse impiegate dallo Stato.
La mera erogazione dei sussidi, cosi come avviene in Italia, riveste una funzione assistenziale che fa lievitare l’ammontare complessivo delle prestazioni e del lavoro nero e svaluta la professionalità ed il potere contrattuale dei lavoratori. In Italia il 72% dei disoccupati non gode di prestazioni a sostegno del reddito contro la media europea del 20-30% e la quota di Pil erogata ai disoccupati (0,7%) è la più bassa tra i maggiori Paesi dell’Unione Europea.
L’ammortizzatore sociale su cui di più poggia la tutela dei lavoratori è la Cig che permette ai lavoratori delle imprese industriali in crisi di ricevere un sussidio economico. L’indennità per Cig è pari all’80% della retribuzione che il dipendente avrebbe percepito per le ore di lavoro non prestate tra le zero ore ed il limite dell’orario contrattuale e comunque non oltre le 40 ore settimanali.
I lavoratori delle imprese non industriali, generalmente, non accedono alla Cig ed hanno diritto, in caso di cessazione del rapporto di lavoro e possedendo i requisiti stabiliti, all’indennità di disoccupazione d’importo più basso rispetto all’indennità per Cig. L'indennità di disoccupazione ordinaria, infatti, è così calcolata: - 60% della retribuzione media dei tre mesi precedenti il licenziamento, per i primi 6 mesi; - 50% per i successivi 2 mesi; - 40% per i 4 mesi successivi nel caso di lavoratori che alla data del licenziamento abbiano superato i 50 anni di età.
L’importo dei sussidi economici non può superare un limite massimo mensile stabilito ogni anno.
I lavoratori atipici non hanno diritto ad alcuna prestazione ad eccezione di una prestazione definita a partire dal 2009 e in via sperimentale dal DL 185/2008 a favore dei collaboratori coordinati e continuativi che si trovano in particolari condizioni (monocommittenza, reddito lordo conseguito l’anno precedente non superiore a 20.000 euro e non inferiore a 5.000 euro, contributi accreditati nell’anno almeno un mese e nell’anno precedente almeno tre mesi, senza contratto da almeno due mesi). L’indennità consiste in una somma liquidata in un’unica soluzione, pari al 30% del reddito percepito l’anno precedente e non superiore a 4.000 euro.
Il sistema di ammortizzatori sociali che risale agli anni ’70 è stratificato per effetto di una serie di interventi normativi che nel tempo hanno gradualmente esteso le tutele iniziali per far fronte a nuove esigenze, senza, tuttavia, definire un sistema compiuto e aggiornato, ed è farraginoso con diversi soggetti istituzionali che a vario titolo intervengono nel finanziamento e nella gestione di tali interventi. La crisi economica è stata affrontata in Italia estendendo, dal 2009, la Cig in deroga, applicandola alle imprese che non contribuiscono alla Cig e ad alcune fasce di lavoratori atipici e rinnovando la Cig alla scadenza.
Il sistema degli ammortizzatori sociali è formato da numerose prestazioni, è diversificato per requisiti, importo e durata ed incompleto perché non mette nelle condizioni i lavoratori di rioccuparsi tramite un mix di servizi.
L’attenzione alla persona e non al posto di lavoro
Un moderno Welfare del lavoro, cosi come avviene in molti paesi europei, deve essere organizzato su tre fattori essenziali: - il sostegno del reddito in misura adeguata alle necessità del lavoratore; - la riqualificazione professionale mirata alle esigenze del mercato del lavoro; - servizi efficaci di outplacement. La qualità dei servizi di outplacement e di riqualificazione professionale vanno controllati tramite alcuni parametri (es. il tempo medio di rioccupazione) che permettono di valutare l’efficacia della gestione ed il risparmio sul fronte dei sussidi economici.
La riforma urgente degli ammortizzatori sociali deve porre attenzione alla persona e non al posto di lavoro, eliminando distorsioni e lacune del sistema attuale, e considerare i seguenti elementi:
- Politica attiva del lavoro. I sussidi economici vanno integrati da servizi efficaci di riqualificazione professionale e di outplacement finalizzati alla rioccupazione e condizionati alla partecipazione attiva alle iniziative di rioccupazione;
- Estensione degli ammortizzatori sociali. L’estensione degli ammortizzatori sociali può essere realizzata attraverso: - l’allargamento della platea delle imprese tenute a versare i contributi per finanziare il Welfare; - la ridefinizione del lavoro dipendente cosi come proposta da Ichino, Nerozzi e Madia nei loro disegni di legge (dipendenza economica, monocommittenza, livello di reddito) al fine di eliminare i falsi lavoratori autonomi ed allargare la base dei lavoratori dipendenti;
- Protezione uniforme e semplificata. L’unificazione delle prestazioni, con riferimento ai requisiti, agli importi ed alla durata, elimina i privilegi e le distorsioni del sistema e risponde alla domanda di equità sociale e di efficienza della spesa pubblica. La diversificazione dei sussidi è causa, oltre che di disparità di trattamento per lo stesso evento, di contrattazioni defaticanti e di difesa dello status quo. La durata e gli importi dei sussidi vanno unificati ed adeguati alle esigenze dei lavoratori ed alle migliori esperienze europee (Danimarca, Germania).
L’attuale sistema non sostiene adeguatamente i lavoratori e le imprese perché non prevede interventi che qualificano la spesa pubblica, mettano i disoccupati nelle condizioni di rioccuparsi e le imprese in crisi di effettuare chiare scelte di gestione che vincolano il livello di tutela per i lavoratori (es. lavoratori sospesi da aziende che non riprendono l’attività).
Lo status dei lavoratori, sospesi e licenziati, ci aiuta a delineare l’unificazione degli ammortizzatori sociali ed a classificarli in due categorie, superando i problemi che l’attuale sistema produce: - Cig ordinaria per i lavoratori sospesi; - Indennità universale di disoccupazione per i lavoratori licenziati.
Riforma Fornero
La riforma Fornero rompe l’attuale equilibrio e risolve le sperequazioni e le lagune del sistema. La proposta si muove in una prospettiva universalistica degli ammortizzatori sociali attraverso l’introduzione dell’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego), condiziona l’erogazione del sussidio alla disponibilità dei lavoratori verso i servizi di rioccupazione e di riqualificazione professionale, elimina le false ristrutturazioni di imprese che cessano l’attività, amplia la platea delle imprese che finanzieranno il Welfare, estende le tutele ai lavoratori e prevede l’introduzione di una politica attiva del lavoro efficace (outplacement e riqualificazione professionale).

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sabato 24 marzo 2012

Bilancio Veneto disattende i problemi della regione

E’ un bilancio che segna la distanza profonda esistente tra Lega e PdL. La cosa grave è che questa divisione ha prodotto non solo un ritardo spaventoso nell’approvazione ma soprattutto una manovra piena di decisioni frutto di reciproche vendette. Su Palazzo Ferro-Fini sventola dunque bandiera bianca perché a pagare dazio sono i veneti ed i veronesi, tra reinserimenti di tassazioni per i cittadini, regali agli amici potenti ed una sostanziale incapacità di rispondere ai bisogni cruciali, in primo luogo per quanto riguarda il sociale”. Questo il giudizio finale dei consiglieri regionali veronesi del Pd in Consiglio regionale, Franco Bonfante e Roberto Fasoli, dopo l’approvazione della Finanziaria e del Bilancio 2012.
"Se ci sono state delle correzioni in corsa lo si deve al lavoro di supplenza a questa maggioranza e a questa Giunta litigiosa che come opposizione abbiamo dovuto svolgere.
“Non possiamo non denunciare il gigantesco imbroglio che è stato fatto attorno al settore del sociale, con la promessa non mantenuta dalla giunta Zaia che aveva garantito per il fondo per la non autosufficienza 750 milioni: ne mancano invece all’appello ben 29, oltre ai 5 milioni per l’inserimento dei disabili nei centri diurni. Di fatto si lasceranno sguarniti servizi essenziali per tante persone come i disabili che hanno bisogno di ricevere cure ed assistenza”.
"Come se non bastasse Lega e PdL hanno deciso di reinserire con valore retroattivo la tassa dei consorzi di bonifica sugli immobili urbani: il centrodestra in questo modo estorce ai veneti la bellezza di 16 milioni di euro. Altri 10 milioni verranno poi prelevati come tassa indiretta con l’applicazione del calcolo Irpef e non Isee ai ticket sanitari. Gravissimo poi l’azzeramento dei fondi di sostegno agli affitti: sono tutti pugni nello stomaco delle famiglie”.
LE CORREZIONI ALLA MANOVRA OTTENUTE DAL PD
Gli esponenti democratici mettono quindi in evidenza le modifiche approvate grazie agli emendamenti presentati.
TURISMO
“In questo settore, dove si sono registrati tagli pesantissimi malgrado il primato del Veneto, abbiamo ottenuto il ripristino di 4 milioni per gli Iat, fondamentali per garantire informazioni ed accoglienza degna di questo nome ai visitatori del Lago, della città e delle altre località della nostra Provincia”.
ARPAV E VENETO STRADE
“Per queste due realtà a rischio di fallimento la nostra azione di pressing ha portato allo stanziamento di 15 milioni che permetterà ad Arpav di sopravvivere e mantenere per il momento il laboratorio veronese e l’ufficio periferico di Bovolone, nonchè 23 milioni per Veneto Strade, che ne permetteranno la sopravvivenza con il blocco però di tutte le opere veronesi e venete che dovevano essere già partite. In ogni caso ci troviamo di fronte a un tampone che non sposta di una virgola il problema della gestione di questi enti”
SCUOLA, DIRITTO ALLO STUDIO, ORIENTAMENTO, AMBIENTE
Esito positivo ha avuto la manovra emendativa del Pd per questo comparto, con i 2 milioni ottenuti a favore dell’edilizia scolastica per gli interventi di messa in sicurezza, “soldi che comunque non esauriscono da soli l’emergenza sicurezza dei plessi scolastici”.
Quindi i 150 mila euro per il diritto allo studio, le borse universitarie ed il sostegno alle spese di trasporto degli studenti, ed altri 100 mila euro per l’orientamento scolastico e professionale. Chiudono il quadro i 50 mila euro per ridurre, attraverso l’utilizzo del Mater BI, la nocività dei rifiuti prodotti dalle attività di ristorazione presso le mense, le feste e le sagre.
LAVORO E IMPRESE
Il gruppo del Pd ha ottenuto un aumento di risorse pari a 500 mila euro per il mondo della cooperazione ed 1 milione a sostegno della partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa (legge approvata nel 2010 per iniziativa del consigliere Franco Bonfante, che può essere progetto pilota per tutta Italia).
SICUREZZA E LEGALITA’
Due i risultati raggiunti. Da un lato i 130 mila euro per i centri anti violenza (parte di un pacchetto di 470 mila destinato alle politiche per le pari opportunità), dall’altro i 500 mila euro “grazie ai quali, una volta approvata la legge anticriminalità – dice Roberto Fasoli, promotore del disegno di legge - il Veneto potrà mettere subito in campo gli strumenti adeguati per cominciare a prevenire e contrastare con efficacia il crimine organizzato e mafioso, promuovere la cultura della legalità e della responsabilità”.
Altre voci che sono state rimpinguate o che hanno trovato nuovo finanziamento dopo l’approvazione degli emendamenti del Pd, sono lo sport (+300 mila), il ruolo del banco alimentare di Verona (+ 40 mila) con le attività previste dalla nuova legge contro lo spreco e il riutilizzo delle eccedenze alimentari e la digitalizzazione delle sale cinematografiche (+2,5 milioni).
TRASPORTO PUBBLICO LOCALE
Bocciati gli emendamenti del PD che chiedevano il ripristino delle risorse ai livelli del 2011 e gli investimenti nel Sistema Ferroviario Metropolitano, sono invece stati approvati due nostri ordini del giorno. Con il primo si stabilisce l’impegno della Giunta e della Commissione a formulare entro 20 giorni una riforma nell’erogazione delle risorse di settore che superi l’attuale criterio legato alla spesa storica e restituisca equità al sistema del TPL . Altro impegno è quello di ricercare, anche in fase di assestamento, l’erogazione di ulteriori risorse da destinare al trasporto pubblico. Il secondo ordine del giorno impegna invece la Giunta a procedere entro 90 giorni alla definizione delle procedure per realizzare entro il 2012 il nuovo assetto di società miste di gestione del trasporto ferroviario regionale.
Approvato anche l’ordine del giorno a sostegno del centro di eccellenza delle malattie del pancreas che opera presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona.

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venerdì 23 marzo 2012

Il progetto del lavoro è conforme al modello tedesco

Nota tecnica del senatore Pietro Ichino del 22 marzo 2012, nel tentativo di svelenire il clima del dibattito sulla riforma proposta dal Governo
L’idea diffusa è che la Cgil avrebbe accettato una riforma modellata sulla disciplina dei licenziamenti oggi vigente in Germania; ma che il rifiuto da parte sua del progetto del Governo sarebbe stato inevitabile, perché questo riprodurebbe il modello tedesco soltanto per i licenziamenti discriminatori e per quelli disciplinari, mentre per i licenziamenti dettati da motivi economici escluderebbe la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro. Il timore diffuso è dunque che, quando l’imprenditore abbia motivato il licenziamento con ragioni economico-organizzative, questo precluda al lavoratore la possibilità di far valere in giudizio l’eventuale natura discriminatoria o di rappresaglia del provvedimento, per ottenere la reintegrazione.
Questo equivoco può essere dissipato con una precisazione del Governo circa il contenuto del progetto in rapporto all’ordinamento tedesco – e poi con la corrispondente clausola nel disegno di legge-delega – che chiarisca questi due punti:
 - in Germania di fatto non accade mai che il giudice disponga la reintegrazione coattiva del lavoratore in azienda, salvo che ritenga che sotto il motivo economico-organizzativo addotto dall’imprenditore ci sia un motivo reale di discriminazione o di rappresaglia;
- con il progetto di riforma si intende realizzare esattamente lo stesso assetto: il lavoratore potrà sempre agire in giudizio per denunciare l’eventuale motivo discriminatorio o di rappresaglia dissimulato sotto il motivo economico-organizzativo; e se, sulla base delle circostanze, il giudice riterrà che ci sia stata discriminazione o rappresaglia, il lavoratore dovrà essere reintegrato nel posto di lavoro; - laddove invece il giudice non ravvisi un motivo discriminatorio o di rappresaglia, ma soltanto una insufficienza del motivo economico-organizzativo addotto, dovrà essere disposto il solo indennizzo.
Sono convinto che una nota del Governo di questo tenore contribuirebbe non poco a svelenire il clima. Poi, sarà importante che il testo del disegno di legge sia molto preciso su questo punto.
Quanto alla distinzione tra licenziamento economico e licenziamento disciplinare, la logica della nuova norma dovrebbe invece essere questa:
– se l’imprenditore licenzia per motivo oggettivo, è automaticamente e sempre tenuto a pagare un indennizzo, che costituisce il vero “filtro” delle sue scelte (se è disposto a pagare l’indennità prevista, significa che la perdita attesa è superiore), salvo sempre il controllo giudiziale su discriminazioni e rappresaglie; questa soluzione mi sembra molto preferibile a quella dell’indennizzo dovuto solo all’esito del giudizio, che sembra essere stata adottata nella bozza su cui sta lavorando il Governo;
– se l’imprenditore vuole esimersi dal pagamento dell’indennizzo, allora deve dimostrare la colpa del lavoratore (e in tal caso si entra senza problemi – per iniziativa dell’imprenditore stesso e nel suo interesse – nella fattispecie del licenziamento disciplinare).

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giovedì 22 marzo 2012

Articolo 18: licenziamenti per motivi economici

Le imprese per competere a livello globale hanno bisogno tra l’altro di effettuare degli interventi di riorganizzazione o ristrutturazione in modo molto veloce. Il tempo è una risorsa che non può essere risparmiata e quando un’azienda è convinta di voler effettuare delle scelte veloci per adattarsi al mercato e non può farle in tempi accettabili in quanto la legislazione del paese non lo consente si trova in enorme difficoltà rispetto ai propri competitori che marciano veloci con innovazioni e nuovi modelli organizzativi.
La cosa diventa ancora più grave nel momento in cui l’impresa rischia di uscire dal mercato in quanto sopporta dei costi eccessivi rispetto alla domanda dei consumatori ed ha bisogno di ripensare l’organizzazione e la quantità di prodotto da collocare nel mercato.
Le innovazioni introdotte nell’impresa molto spesso riducono nel tempo il personale da utilizzare nel processo produttivo.
Questi in linea generale sono i motivi essenziali per cui un’impresa ha bisogno di adattare la propria pianta organica al livello della produzione ed alla domanda di mercato in tempi non superiori a quelli delle imprese concorrenti altrimenti perde competitività e quote di mercato causando un danno peggiore rispetto al miglioramento ed all’adattamento continuo che un’impresa innovativa dovrebbe perseguire.
A questo punto si pongono dei problemi: privilegiare l’impresa o i lavoratori? Ritengo che il problema vada impostato diversamente in quanto gli interessi dell’imprenditore e dei lavoratori possono coincidere. La sopravvivenza dell’impresa è un obiettivo che accomuna l’imprenditore ed i lavoratori e questi ultimi sono contrari alla chiusura dell’impresa per mantenere il posto di lavoro.
I lavoratori vivono anche il problema del ridimensionamento dell’organico dell’impresa. In questo caso un sistema adeguato ed efficace di sostegno del reddito e di un mix di servizi di rioccupazione possono liberare dal bisogno i lavoratori interessati.
Ritengo che tutti i problemi esposti sono collegati tra di loro ed hanno bisogno di coerenza per essere risolti: - L’impresa deve adattarsi al mercato; I lavoratori hanno bisogno di un sostegno efficace nel momento in cui perdono il posto di lavoro; L’impresa deve sopravvivere effettuando le scelte giuste anche se tali scelte possono in un primo momento rivolgersi contro lavoratori.
Nel quadro delineato si inserisce la proposta del Ministro Fornero di modifica dell’art. 18 per i licenziamenti per motivi economici, i quali a differenza del licenziamento per motivi discriminatori, che rimane uguale a prima, e per motivi disciplinari, è previsto solo l’indennizzo che va da un minimo di 15 a un massimo di 27 mensilità.
Oggi il Corriere della Sera ha pubblicato le domande che si è posto il Ministro Fabrizio Barca: “Cosa fa un lavoratore per il quale è stato chiesto il licenziamento per motivi economici se invece ritiene di essere stato discriminato? Come tutelerà il proprio diritto?” Poi ha aggiunto “penso anche ai lavoratori iscritti alla Fiom. Questa è la domanda cruciale".
Anche io ieri mi sono posto la stessa domanda e mi sono dato una risposta simile alla seguente: “La risposta deve essere chiara. Se il giudice nel valutare la motivazione addotta dal datore di lavoro per licenziare individualmente, riscontrerà elementi di discriminazione, reintegrerà il lavoratore senza ma e senza se. Se invece i motivi sono di tipo economico, applicherà la normativa descritta fin qui, con o senza la procedura conciliativa, a seconda del testo finale”.
Pertanto, nei casi in cui il licenziamento per motivi economici nasconde un licenziamento discriminatorio la norma non esclude il ricorso al giudice per ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro.
Stando cosi le cose coloro che non condividono la norma e la Cgil, prima fra tutti, che ha espresso un no alla nuova disciplina dei licenziamenti per motivi economici (favorevole al modello tesco) dovrebbero spiegare in modo chiaro e completo i motivi del loro dissenso poiché la proposta tutela i lavoratori attraverso il reintegro nel posto di lavoro nei casi in cui il licenziamento per motivi economici è simulato e nasconde un licenziamento discriminatorio.
Certamente la norma sul licenziamento per motivi economici può essere migliorata e riscritta al fine di tutelare i lavoratori da licenziamenti formalmente economici e sostanzialmente discriminatori.
Occorre intervenire con chiarezza e specificare i motivi economici del licenziamento in quanto nei casi di crisi economica sembra che venga applicata la specifica normativa prevista dalla legge 223/91, collegata alla Cassa integrazione straordinaria ed alla mobilità. I motivi economici che inducono al conseguente licenziamento dovrebbero comprendere la crisi economica ed i motivi della vecchia disciplina (chiusura di aree produttive non funzionali, cambiamento della strategia).
Nel momento in cui si scrive la normativa occorre specificare con chiarezza e completezza i motivi oggettivi che permettono il licenziamento e specificare gli strumenti per velocizzare i processi.

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Pietro Ichino, riforma lavoro imperfetta ma va nella direzione giusta

Lettera sul lavoro del senatore Pietro Ichino pubblicata sul Corriere della Sera il 22 marzo 2012
Caro Direttore, del progetto di riforma che l’altro ieri il Governo ha presentato al Paese una cosa è indiscutibile: esso tende ad allineare il nostro sistema di protezione del lavoro a quelli dei nostri maggiori partner europei. L’allineamento riguarda sia la disciplina dei licenziamenti, sia il riassetto dei cosiddetti ammortizzatori sociali; ed entrambi questi capitoli presentano qualche difetto, dovuto anche alle asperità e ai tempi stretti del confronto svoltosi nelle ultime settimane con le parti sociali, che possono e devono essere corretti. È importante però distinguere bene il dissenso sui dettagli dal dissenso sull’ispirazione di fondo della riforma.
In materia di licenziamenti, il progetto propone di riservare la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, cioè l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ai casi nei quali è in gioco un diritto assoluto del lavoratore: quello alla pari dignità e alla libertà morale. Dove invece siano in gioco soltanto interessi professionali ed economici delle persone coinvolte, propone una tecnica protettiva diversa, pacificamente praticata in tutti gli altri ordinamenti europei, fatta di indennizzo economico e sostegno del reddito: in questo, oltre che nel superamento del dualismo fra protetti e non protetti, sta essenzialmente il senso della riforma. Se fosse ben chiaro il consenso su questa scelta da parte di tutte le forze politiche che sostengono il Governo, non sarebbe affatto difficile trovare nelle prossime settimane l’accordo sulla correzione di alcuni aspetti del progetto che appaiono un po’ troppo tagliati a colpi di accetta. Vediamone alcuni.
Innanzitutto, l’indennità prevista nel caso di licenziamento per motivi economici dovrebbe essere garantita al lavoratore sempre e automaticamente, per evitare l’alea della controversia in tribunale e al tempo stesso per farne un efficace “filtro” automatico delle scelte imprenditoriali ; per altro verso, in coerenza con l’idea di una tutela della stabilità che cresca col crescere dell’anzianità di servizio, si potrebbe rimodulare l’indennità di licenziamento in modo che essa consenta una maggiore facilità di recesso nella prima fase del rapporto e protegga invece di più il lavoratore che è da più tempo in azienda.
Quanto al trattamento riservato al lavoratore disoccupato, occorrerebbe valutare attentamente la possibilità di arricchirne il contenuto in termini di assistenza intensiva secondo le tecniche più progredite, responsabilizzando in proposito le imprese che licenziano e stimolando le Regioni a farsi carico della maggior parte del relativo costo, anche con il contributo del Fondo Sociale Europeo. Una volta stabilita l’entità complessiva dell’onere a carico dell’impresa che licenzia, sarebbe bene che solo una parte di esso consistesse nell’indennità dovuta immediatamente al lavoratore licenziato, mentre un’altra parte dovrebbe consistere in un trattamento complementare di disoccupazione che incentivi l’impresa stessa ad attivare i servizi migliori di outplacement, capaci di accelerare al massimo il percorso verso la nuova occupazione.
Questi potrebbero essere alcuni dei contributi positivi del Parlamento al miglioramento del progetto governativo. Si profila invece una discussione di tutt’altro genere tra le parti politiche. Con la Lega – del tutto dimentica della propria politica del lavoro negli ultimi dieci anni – che si incaricherà della difesa “senza se e senza ma” del vecchio assetto dell’articolo 18, in contrapposizione frontale con il PdL, suo alleato di ieri, schierato con la stessa determinazione nel senso opposto.
Quanto al Pd, esso dovrà innanzitutto chiarire a se stesso e all’opinione pubblica se condivide la scelta di fondo di armonizzare il nostro ordinamento del lavoro rispetto al resto d’Europa, cercando in particolare di allinearsi agli standard dei Paesi più avanzati. L’incertezza del Pd su questo terreno è tanto più incomprensibile, se si considera che questo progetto del Governo è in gran parte costruito con materiali programmatici prodotti proprio dal dibattito interno di questo stesso partito. È stato soprattutto il Pd, in questi ultimi anni, a denunciare il regime di apartheid fra lavoratori protetti e non protetti nel tessuto produttivo italiano. È frutto di una elaborazione proposta in quattro disegni di legge democratici di questi anni la tecnica normativa adottata nel progetto del Governo per contrastare l’abuso delle collaborazioni autonome in posizioni di lavoro sostanzialmente dipendente. È stata lanciata nell’assemblea programmatica di Genova del 2010 la proposta di far costare il lavoro a tempo indeterminato un po’ meno di quello a termine. Infine, non ultima per importanza, è enunciata nel manifesto di politica del lavoro del Pd del marzo 2008 la parola d’ordine “coniugare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza di tutti i lavoratori nel mercato”.
La riforma proposta dal Governo non realizzerà quella coniugazione nella misura “massima possibile”; così come non supererà del tutto il dualismo fra protetti e non protetti, ma per la prima volta nella storia della Repubblica muoverà un passo molto deciso in entrambe le direzioni. Il Pd è nato anche per promuovere questo cambiamento, questo spostamento di equilibrio complessivo del sistema; sarebbe curioso che ora rinnegasse la propria vocazione originaria.

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mercoledì 21 marzo 2012

Eleonora Voltolina a Verona

Eleonora Voltolina sarà a Verona il giorno 28 marzo per i seguenti impegni:
1) Verona Innovazione, Azienda Speciale della C.C.I.A.A. di Verona, assieme a FELSA CISL, ha organizzato un incontro tecnico rivolto agli operatori dell'orientamento, della formazione e dei Servizi per il Lavoro sul tema

"GIOVANI, MERCATO DEL LAVORO, PRECARIATO"

che si terrà mercoledì 28 marzo alle ore 15.00, presso C.C.I.A.A. Verona, Corso Porta Nuova, 96 – I° piano Sala Transatlantico. All’incontro sarà presente Eleonora Voltolina, direttore della testata online Repubblica degli stagisti.  
Durante l'incontro verranno trattati i temi del lavoro "flessibile", che spesso è sinonimo di precarietà, confrontando il punto di vista nazionale con le esperienze locali.
Sarà anche occasione di un primo confronto sulla riforma del lavoro Fornero, in fase di approvazione.
Per confermare la propria presenza: mail stage@vr.camcom.it indicando nome -cognome- ente di appartenenza-recapito telefonico, oppure via telefono allo 0458085805.

2) La Felsa Cisl  ha organizzato  il giorno 28 marzo alle ore 18 presso la libreria Giunti, via Leoni 9 Verona,  un incontro con Eleonora Voltolina che presenterà il suo ultimo libro

SE POTESSI AVERE 1000 EURO AL MESE. L'ITALIA SOTTOPAGATA, LATERZA

Con l’autrice sarànno presenti:
Barbara Giacominelli, psicologa del lavoro
Manuela Trevisani, collaboratrice de L’Arena

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martedì 20 marzo 2012

Traforo tra bugie e propaganda

Stamattina si è svolta la conferenza stampa organizzata da Michele Bertucco, candidato sindaco del centrosinistra, e Diego Zardini, capogruppo Pd al Consiglio Provinciale di Verona, per trattare ulteriormente il grande problema del Traforo, tenendo presente che Technital interessata al progetto ha propagandato, unico caso in Italia, con un depliant gli effetti positivi dell'opera senza scrupoli e con tante bugie.
Si riportano di seguito le dichiarazioni di Michele Bertucco e Diego Zardini.
Nel 2007 Tosi aveva fatto campagna elettorale raccontando la bugia che il traforo non avrebbe toccato Avesa e Quinzano. Nel 2012, per essere sicuro di non sbagliare ancora, si fa fare la propaganda dall’impresa che l’ha proposto e che ha vinto il bando in quanto unica concorrente.
Se il volantone della Technital vuole essere informativo ai veronesi, si poteva aspettare che finisse la campagna elettorale e soprattutto che l’iter fosse completato. Se, invece, come è evidente, si tratta di un supporto alla campagna elettorale di Tosi, è una vera e propria scorrettezza.
Correttezza vuole che durante le campagne elettorali si mettano in gioco i propri simboli, la propria faccia e il proprio nome. Non è così per l'amministrazione uscente, che sulla propaganda pro-traforo manda avanti il promotore Technital rendendo sempre più opaco il rapporto tra l'attuale maggioranza politica e alcune parti dell'imprenditoria locale. A fugare ogni dubbio in questo senso ci aspettiamo una netta presa di distanza da parte del sindaco uscente rispetto al volantino a dir poco tendenzioso da poco diffuso in tutte le case dei veronesi. E una risposta alla seguente domanda: come verranno rendicontate le spese per questa questa campagna Finiranno in conto al promotore o all'attuale Sindaco quando dovrà dichiarare le spese elettorali anche nel caso poi diventi un semplice consigliere comunale?
Nessun dubbio che si tratti di propaganda: quale mente serena e disinteressata potrebbe mettere in relazione la realizzazione di un nuovo tronco autostradale (peraltro ancora da sottoporre a Valutazione di impatto ambientale) con la diminuzione delle polveri sottili e il miglioramento della salute pubblica? Se letti con un minimo di onestà intellettuale i dati della relazione sanitaria dicono, anzi, che i rischi per la salute aumenteranno per i cittadini che abitano lungo il tracciato, mentre diminuiranno di poco nei quartieri a Sud. E poiché a Sud abitano più persone che al Nord, dice lo studio, c'è un relativo miglioramento della qualità dell'aria in generale. Ma i calcoli li abbiamo fatti e comunicati già migliaia di volte: il presunto miglioramento non tiene conto dell'aumento del traffico sull'anello circonvallatorio ed è comunque nell'ordine dello zero-virgola percentuale!
Ha dunque senso spendere 800 milioni di euro (Iva esclusa) per una strada che riuscirà a catalizzare solo il 6% del traffico urbano, non risolverà i problemi della mobilità ma in compenso imporrà una nuova tassa ai cittadini? Secondo noi no. Toccherà infatti ai veronesi rifondere il concessionario. E non solo attraverso il pagamento del pedaggio (0,19 euro/km più Iva, cosa che nel volantino non viene specificata) ma anche attraverso la concessione di aree di nuova urbanizzazione che verranno sottratte ad altri usi (agricolo, verde ecc.). Tosi dice sempre che il traforo lo prenderà chi vuole. Noi diciamo che alla fine metterà le ZTL per obbligare i veronesi ad usarlo, come richiesto da Lega e Pdl in Seconda Circoscrizione in una mozione del marzo 2010. Infine, la Convenzione impegnerà le prossime 10 amministrazioni comunali (50anni!) a garantire al concessionario i flussi di traffico previsti nel Pef (piano economico-finanziario), mettendo a rischio il potenziamento del trasporto pubblico in città.
Condizioni inaccettabili sulle quale chiediamo ai veronesi di esprimersi. E, di converso, chiediamo che l'amministrazione uscente si astenga dal sottoscrivere ogni altro atto che faccia avanzare ulteriormente l'iter procedurale in modo da lasciar decidere la prossima amministrazione, qualunque essa sia, così come ha fatto rimandando l’approvazione del bilancio comunale.

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lunedì 19 marzo 2012

Maurizio Ferrera: prime valutazioni sulla riforma Fornero

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato su Corriere della Sera del 18 marzo 2012
Alle parti sociali ancora non piace. Ma, valutata in base agli standard europei, la riforma messa a punto dal ministro Fornero appare come un apprezzabile compromesso, capace di contrastare le enormi distorsioni del nostro mercato del lavoro. La riforma affronta di petto precarietà, ammortizzatori sociali e flessibilità in uscita, ossia i nodi su cui da anni si discute senza risultati.
La cultura del «posto fisso» va superata, come nel resto d’Europa, ma l’Italia non può proporre ai giovani solo precarietà. La riforma Fornero razionalizza i contratti a termine, privilegiando l’apprendistato, scoraggiando gli abusi e incentivando le imprese a stabilizzare i rapporti di lavoro. La flessibilità non viene abolita, ma bonificata. Le aziende avranno qualche vincolo in più, ma saranno spinte verso percorsi di crescita basati sulla qualità del lavoro e del capitale umano.
In tema di ammortizzatori, la riforma poserà il tassello mancante di quel «nuovo welfare» tratteggiato quindici anni fa dalla Commissione Onofri: uno schema universale per tutti i lavoratori che perdono il posto. Si chiamerà Aspi (Assicurazione Sociale per l’Impiego), erogherà indennità per almeno un anno, con importi mensili fino a circa 1.100 euro. Verrà eliminato lo steccato fra lavoratori di serie A e di serie B: tutti saranno coperti sulla base di un diritto individuale. Come in Germania, la cassa integrazione si limiterà al sostegno di crisi congiunturali o di «buone» ristrutturazioni. Cesserà in altre parole il suo uso distorto per tenere in vita aziende decotte o sussidiare sine die lavoratori che non potranno più tornare al loro vecchio posto. Certo, le imprese dovranno versare un po’ più di contributi. Ma in tutta Europa l’assicurazione per l’impiego è a carico di datori e lavoratori. La sfida del costo del lavoro (che in Italia è troppo alto) va affrontata agendo su altre voci, ad esempio l’Irap. Quanto ai sindacati, dovranno rinunciare a ruoli di mediazione e poteri di veto in difesa degli insider. Potrebbero cogliere l’occasione per ripensare la propria funzione, in termini sia di servizi sia di rappresentanza.
Sul fronte della flessibilità in uscita, la riforma conferma le tutele previste dall’articolo 18 per i licenziamenti discriminatori (l’aspetto per cui si può davvero parlare di «conquista di civiltà»), mentre introduce forme di indennizzo economico per gli altri tipi di rottura contrattuale. La Cgil sta gridando «al lupo», ma le nuove regole sono quelle che governano i mercati del lavoro più equi ed efficienti d’Europa.
Si poteva fare di più? Certamente sì. I vincoli politici hanno però bloccato sul nascere proposte più ambiziose (come quelle di Pietro Ichino) e il tempo stringe. Proprio per questo appare oggi difficilmente accettabile che qualcuno pensi di boicottare l’accordo «all’ultimo miglio». E, nel caso, il governo tiri dritto. L’Europa aspetta e soprattutto aspettano i giovani. I quali si meritano, finalmente, una riforma che apra loro prospettive di buona occupazione, in condizioni di eguale trattamento e pari opportunità.

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domenica 18 marzo 2012

Articolo 18: licenziamento per motivi economici

Editoriale del senatore Pietro Ichino per la Newsletter n. 192, 19 marzo 2012
Il confronto tra Governo e parti sociali è così arrivato alla stretta finale. E qui il dissenso si è concentrato – come prevedibile e previsto – sulla madre di tutte le questioni: quella della disciplina del licenziamento per motivi economici od organizzativi. Il ministro del Lavoro propone che in questo caso, quando il giudice non sia convinto della giustificatezza del licenziamento, la sanzione consista soltanto in un congruo indennizzo.
La Cgil chiede invece che sia lasciata al giudice la possibilità, in questo caso, di disporre anche la reintegrazione coattiva del lavoratore. Propongo al riguardo alcune considerazioni.
1. Property rule vs. liability rule - La regola della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento ritenuto dal giudice non sufficientemente giustificato è sostanzialmente una property rule: dello stesso tipo, per intenderci, della regola che impone l’abbattimento dell’opera costruita abusivamente dal vicino, in violazione del diritto di proprietà (1). La regola dell’indennizzo è invece sostanzialmente una liability rule, cioè una norma che consente all’obbligato libertà di scelta, responsabilizzandolo in riferimento alle “esternalità negative”, cioè obbligandolo a indennizzare chi subisca un pregiudizio per effetto della sua scelta.
Il problema attuale, nel mercato del lavoro italiano, è proprio quello del passaggio da un regime di job property a un regime nel quale sia protetta la sicurezza economica e professionale del lavoratore nel passaggio alla nuova occupazione, ma non la sua inamovibilità rispetto a un determinato posto di lavoro. Altrimenti, il rischio è quello che il “diritto di proprietà” del lavoratore sul posto di lavoro si trasformi talvolta in una sorta di “manomorta”, che impone la conservazione di strutture obsolete, di rami secchi, dando luogo nei casi limite a posizioni di sostanziale rendita parassitaria, impedendo la necessaria evoluzione del tessuto produttivo. Si obietterà che un giudice è ben capace di distinguere il ramo secco dal ramo florido; ma il fatto è che – quando l’intera impresa non sia già in stato pre-fallimentare – la qualificazione del singolo ramo o rametto come secco o ancora vitale è estremamente opinabile, dipendendo in larga misura dall’orientamento pro-labor o pro-business del magistrato. Se dalla valutazione di quest’ultimo può derivare la reintegrazione del lavoratore, magari anche soltanto per due o tre anni in attesa della sentenza definitiva, questo rischio per l’imprenditore si avvicina molto a un divieto di licenziare (ho spiegato più compiutamente questo effetto dalla disciplina attuale dei licenziamenti nel terzo capitolo del mio ultimo libro, Inchiesta sul lavoro, Mondadori).
In un certo senso, il passaggio dalla property rule alla liability rule in materia di lavoro presenta, paradossalmente, qualche analogia con quello che avvenne dopo la Rivoluzione francese, con il nuovo diritto civile e commerciale contenuto nel “codice Napoleone” (diffusosi rapidamente in tutta Europa e rivelatosi capace di penetrare anche nell’ordinamento britannico, nonostante che lì le truppe napoleoniche non fossero arrivate). Il nuovo ordinamento civile sacrificò nettamente i diritti di proprietà fondiaria e le rendite – di origine feudale e signorile – agli interessi della borghesia industriosa: il nuovo ordinamento privilegiava, cioè, le esigenze di sviluppo dell’industria e dei traffici rispetto all’ingessatura dei diritti proprietari, delle rendite parassitarie, dei vincoli perpetui di qualsiasi genere. Oggi l’Italia – soprattutto nel settore pubblico, ma in qualche misura anche in quello privato - si trova in una situazione per certi aspetti analoga, anche se ovviamente qui i tipi di rendite e di vincoli sono molto diversi. In questa situazione:
– la job property esercitata dalle vecchie generazioni sui posti di lavoro in alcuni casi diventa una sorta di “manomorta”, che rende non contendibili e difficilmente rivitalizzabili certi posti di lavoro e comporta la conservazione dei rami secchi, almeno finché il bilancio dell’impresa non vada in rosso;
– per reazione al regime di job property vigente nei rapporti di lavoro regolari, gli imprenditori tendono ad assumere solo con i contratti di lavoro precario e di “collaborazione autonoma”, rinunciando conseguentemente a investire sulla formazione professionale dei lavoratori ingaggiati in questo modo;
– le nuove generazioni hanno grande difficoltà (rispetto alle vecchie) di accesso alla job property; ma rischiano di rimanere anche senza il lavoro precario, per difetto di formazione e per il ristagnare dell’economia prodotto dall’ingessatura del sistema.
L’ingessatura del sistema non dipende, ovviamente, soltanto dal regime di job property vigente nel settore pubblico e nelle aziende private medio-grandi. Ma questo regime certamente vi contribuisce in misura rilevante.
2. Il severance cost come filtro ideale delle scelte economico-organizzative imprenditoriali - Se la scelta è nel senso della liability rule, il legislatore si trova di fronte alla ulteriore alternativa tra disporre a favore del lavoratore un indennizzo automatico, che scatta in qualsiasi caso di licenziamento, e disporre invece che tale indennizzo scatti soltanto all’esito di un controllo giudiziale sui motivi del licenziamento. A me sembra che non possa esservi dubbio sul punto che per il lavoratore, a parità di altre condizioni, la prima soluzione sia la migliore.
A questa tesi Tiziano Treu obietta, in un interessante articolo pubblicato su Europa nei giorni scorsi, che l’articolo 30 della Carta di Nizza dei Diritti Fondamentali imporrebbe il controllo giudiziale anche sull’eventuale motivo economico del licenziamento. A me sembra che le cose non stiano così.
L’articolo 30 recita testualmente: “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. Questa norma non vincola affatto il legislatore nazionale a istituire un controllo giudiziale sul merito delle scelte imprenditoriali di gestione aziendale, bensì impone – questo sì – che il lavoratore sia tutelato contro il licenziamento arbitrario, discriminatorio, o comunque dettato da motivi illeciti. La norma, comunque, nulla dice circa la sanzione che deve essere comminata dalla legge nazionale per il licenziamento in ipotesi “ingiustificato”, consentendo pacificamente che la sanzione stessa consista soltanto in un indennizzo monetario.
Quand’anche, dunque, l’articolo 30 della Carta di Nizza imponesse un controllo giudiziale esteso al merito delle scelte di gestione aziendale, esso consentirebbe comunque che a un esito negativo del controllo giudiziale consegua per il lavoratore soltanto il diritto all’indennizzo monetario. Se questo è vero, non si vede come possa essere considerato incompatibile con questa norma sovranazionale un ordinamento statale che preveda un indennizzo monetario in qualsiasi caso di licenziamento per motivo economico od organizzativo, riservando al giudice la sola funzione di controllare che tale motivo non ne nasconda uno di natura discriminatoria o di rappresaglia: per il lavoratore è evidentemente meglio avere diritto all’indennizzo in ogni caso, piuttosto che avervi diritto soltanto in caso di esito positivo di una controversia giudiziale (per una più compiuta argomentazione su questo punto rinvio al mio saggio pubblicato nel 2006: La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore ordinario in materia di licenziamenti).
D’altra parte, poiché il “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento consiste, in ultima analisi, nella perdita attesa dal datore di lavoro per effetto della prosecuzione del rapporto, non si vede davvero quale “filtro” delle scelte imprenditoriali possa essere migliore di un severance cost pari alla perdita che il legislatore ritenga idonea a giustificare lo scioglimento del rapporto (restando ovviamente al giudice la funzione di accertare, anche mediante presunzioni semplici, che dietro il motivo economico-organizzativo non se ne nasconda uno discriminatorio o di rappresaglia antisindacale: nel qual caso si applicherà la reintegrazione). Per questo motivo non riesco a comprendere la preferenza espressa da Cisl e Uil per la soluzione dell’indennizzo all’esito del giudizio, rispetto alla soluzione dell’indennizzo automatico.
3. Perché è bene che nel severance cost sia compreso anche un trattamento complementare di disoccupazione – In generale i periodi di disoccupazione tendono ad allungarsi in corrispondenza con la durata del sostegno del reddito di cui il disoccupato gode. Per evitare questo effetto pesantemente negativo è indispensabile la capacità effettiva di condizionare l’erogazione alla disponibilità effettiva del lavoratore. Oggi i servizi pubblici italiani sono totalmente privi del know-how necessario per l’esercizio di questa condizionalità nell’erogazione del sostegno del reddito al lavoratore disoccupato. Questa incapacità incide pesantemente sulla durata delle erogazioni, quindi sul fabbisogno complessivo.
L’unico modo in cui questo nostro difetto di know-how può essere ovviato consiste nell’attivare gli incentivi giusti, nei confronti di chi può realisticamente individuare i servizi di assistenza efficienti e far funzionare la condizionalità necessaria. Questo è possibile oggi soltanto coniugando strettamente il trattamento universale di disoccupazione erogato dall’Inps (che è incapace di esercitare la necessaria condizionalità in questo campo) con un trattamento complementare a carico dell’impresa che licenzia, strutturato in modo da gravare di meno per un primo periodo ed erogato sulla base di un “contratto di ricollocazione” il cui standard minimo sia fissato per legge, firmato dal lavoratore con l’impresa. Durante il primo periodo l’impresa stessa sarà così fortemente incentivata a scegliere il meglio delle società di outplacement, e curare che quella prescelta fornisca il servizio di tutoraggio nel modo migliore.
Sarà poi compito delle Regioni coprire in tutto o in buona parte il costo standard di mercato dei servizi di outplacement, attingendo ai contributi del Fondo Sociale Europeo oggi inutilizzati e riqualificando la propria spesa in questo campo, sulla base di leggi regionali che prevedano accordi-quadro regionali e/o convenzioni individuali con le singole imprese interessate.
Il fatto che il trattamento complessivo di disoccupazione sia composto da una parte coperta dall’assicurazione generale e una parte a carico dell’impresa che licenzia consente di ridurre l’entità del contributo assicurativo per (evitando un indebito allargamento del cuneo contributivo) e al tempo stesso di istituire un premio implicito per l’impresa più capace di manpower planning.
La firma del “contratto di ricollocazione” tra impresa e lavoratore può infine costituire infine un potente fattore di riduzione del contenzioso giudiziale sul licenziamento, che di fatto finirà coll’attivarsi soltanto nei casi in cui il lavoratore ne denuncerà la natura discriminatoria o di rappresaglia.

(1) Questa affermazione trova conferma nel manifesto firmato proprio in questi giorni da un gruppo di giuslavoristi facenti capo alla rivista Lavoro e diritto, tra i quali Umberto Romagnoli e Luigi Mariucci, in difesa dell’impianto fondamentale della disciplina attuale dei licenziamenti, nel quale si legge questa frase: “Se un licenziamento è illegittimo, l’articolo 18 dispone che quell’atto sia rimosso , come accade quando si fa abbattere l’opera costruita da un vicino lesiva del diritto di proprietà del confinante…“. Lo stesso manifesto prosegue così: “…e come accade in tutte le forme di inadempimento contrattuale, in cui è il creditore adempiente che può scegliere tra esecuzione del contratto e risarcimento dei danni”; ma qui gli autori del manifesto sembrano dimenticare che, in materia di contratti, dal Codice Napoleone in poi la regola generale è quella del divieto di vincoli perpetui e pertanto del diritto di recesso di ciascuna delle parti dal contratto a tempo indeterminato. Se dunque si vuole fare riferimento al diritto comune dei contratti, non si può identificare senz’altro il licenziamento con l’inadempimento; e occorre riconoscere che la regola generale è la recedibilità, non la perpetuità del rapporto.

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sabato 17 marzo 2012

Eleonora Voltolina: Se potessi avere 1000 euro al mese

Eleonora Voltolina è giornalista professionista, ha creato e dirige la testata online Repubblica degli Stagisti. Ha collaborato a lungo con le pagine culturali e con il sito web del settimanale Panorama. Nata a Roma nel 1978, è cresciuta a Venezia e oggi vive e lavora Milano. Si è laureata con lode in Scienze della comunicazione all’università La Sapienza. Nel luglio 2010 esce per Laterza il suo libro "La Repubblica degli stagisti. Come non farsi sfruttare". Nel 2011 è stata chiamata dalla Commissione lavoro della Camera dei Deputati per un’audizione sulla condizione giovanile, nell’ambito di una indagine sul mercato del lvoro in ingresso e sulle principali difficoltà dei giovani. A livello europeo ha contributio a stilare la Carta europea per la qualità di stage e praticantati, presentandola a Parigi in occasione della Youth Employment Conferenze. Le sue ricerche sono state utilizzate per la presentazione di interrogazioni parlamentari.
Il libro esce nel momento in cui il Governo e le parti sociali sono impegnate a riformare gli ammortizzatori sociali ed il mercato del lavoro. Da tali riforme dipende il futuro dei precari, giovani e non, ed un sistema di tutele con una platea più ampia di lavoratori.
Al momento i precari, che appartengono a numerose categorie, non hanno tutele (malattia, maternità, sussidi di disoccupazione) e quello che è più grave non possono costruire il loro futuro in quanto la retribuzione è maledettamente bassa a parità di mansioni con i lavoratori a tempo indeterminato.
Esiste una gran confusione nel mondo del lavoro: le partite iva sono confuse con i professionisti, i falsi lavoratori autonomi con i veri lavoratori autonomi.
In Italia non vi è soltanto il problema della disoccupazione che è salita al 9,2% senza i cassaintegrati a zero ore ma anche lo sfruttamento dei giovani precari chiamati dalle imprese a mettere al servizio la loro conoscenza e competenza perché le imprese, sbagliando, affrontano la competitività del mercato dal lato dei costi e non, come si dovrebbe fare, dalla parte dell’innovazione e della ricerca.
“Non vi siete distratti né addormentati sui banchi. Siete giovani, volenterosi e avete finito di studiare più o meno nei tempi giusti. Il problema però è che nonostante master, corsi di specializzazione e tripli salti mortali non avete ancora un lavoro retribuito il giusto, per guadagnare di più dovete lavorare in nero e se siete fortunati vi rinnovano il contratto a progetto facendovi stare a casa solo un mese, quanto basta per non avere troppi diritti. Oppure, se lavorate in un negozio come commesse vi assumono come "associate in partecipazione" anziché come dipendenti subordinate e così vi pagano meno. O, peggio ancora, il vostro lavoro diventa quello di cercare lavoro, un'attività con cui non ci si annoia mai. Sono alcune delle storie che trovate in queste pagine: non sono solo i "soliti noti" - artisti, giornalisti, ricercatori ma anche categorie insospettabili come medici, avvocati, architetti. Eleonora Voltolina spiega capitolo dopo capitolo perché nessuna categoria è immune e racconta come sia possibile che in Italia milioni di persone non riescano a mantenersi con quel che guadagnano e perché il periodo di formazione in tutte le professioni si stia dilatando a dismisura e aumentino i contratti "di collaborazione autonoma", cocopro e partite iva, che nascondono normale lavoro dipendente. Pagina dopo pagina, troviamo dati e racconti di vita vissuta di chi è stato - o è ancora - precario, ma soprattutto sfruttato”.

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Bilancio Veneto 2012 inefficiente e spregiudicato

I consiglieri regionali Franco Bonfante e Roberto Fasoli del PD hanno valutato la proposta di Bilancio 2012 del Veneto del centro destra e rilasciato la dichiarazione che segue.
“Il bilancio fa acqua da tutte le parti: dopo la spregiudicatezza degli anni scorsi, la passività, l’incapacità e la supponenza dell’attuale Giunta hanno trasformato l’amministrazione regionale in una macchina fuori controllo. Vogliamo dare il nostro contributo per riportarla in carreggiata, nell’interesse dei cittadini veneti”.
Nel fare il punto della situazione, a metà strada della discussione degli emendamenti prevista la prossima settimana, i due esponenti del Pd analizzano in controluce le falle della manovra 2012 ed evidenziano le proposte messe in campo.
“Bisogna considerare innanzitutto i motivi che hanno portato a questa situazione. Sul finire della scorsa legislatura, il centrodestra di governo ha scelto di privare la Regione di alcune entrate, dalla tassa sui consorzi di bonifica per gli urbani fino all’addizionale Irpef. Contestualmente sono emersi vari ‘buchi’ nelle gestioni di enti come Veneto Strade, Arpav, e i costi della sanità, pari ad 1,3 mld, che oggi costringono ad un piano di rientro che costa all’anno ben 40 milioni di euro alle casse regionali per i prossimi 25 anni.
La Giunta dimostra tutta la sua incapacità nel capire che la progressiva riduzione dei fondi a disposizione obbliga a riconsiderare la struttura stessa del bilancio e della complessiva macchina regionale. Si procede invece con un logica di tagli lineari che scontentano tutti e non costruiscono alcuna prospettiva politica credibile per la nostra regione.
IRPEF. “Tanto per dare un’idea della passività nella quale la Giunta naviga, era ancora possibile un rattoppo delle falle se ad esempio si decideva di introdurre l’addizionale aggiuntiva regionale solo sui redditi altissimi, esentando il 98,2% di contribuenti. Ebbene, con questa operazione, che andava perfezionata entro il 31 dicembre 2011, senza penalizzare le fasce deboli, si sarebbero ottenuti maggiori introiti per quasi 50 milioni di euro di spesa corrente. Una cifra – dicono Bonfante e Fasoli - che con l’effetto moltiplicatore, si sarebbe tradotta in 200 milioni di risorse da destinare agli investimenti. Invece, per il secondo anno consecutivo, il Veneto è a zero come capacità di investimento.
FONDI ‘DORMIENTI’. Da parte degli esponenti democratici arrivano poi altri elementi di possibile correzione in corsa della manovra: “Cominciamo con lo svincolare alcuni fondi ‘dormienti’, come quello di riserva, come quello dei 17 milioni bloccati dal 2007 da destinare alle micro e piccole imprese: parliamo di 500 aziende che sono in fase di chiusura proprio per mancanza di credito. Senza dimenticare che sul fronte dei servizi sociali esistono 3,7 milioni depositati nel conto dell’assessorato di Sernagiotto che a nostro avviso dovrebbero essere invece messi a disposizione della collettività”.
MALA GESTIONE. I consiglieri del Pd mettono la lente d’ingrandimento su altri fronti: “Da un lato va detto che la Regione, per colpa di una gestione oggettivamente poco attenta, si trova a dover pagare 21 milioni di euro per ricorsi persi (con un incremento di 15 milioni rispetto al 2011) mentre altri 18 milioni dovrà restituirli allo Stato a causa di un loro utilizzo errato, ovvero il pagamento di contributi per l’acquisto di autobus”.
RECUPERO IVA. “C’è quindi il nodo del recupero dell’Iva, frutto della lotta all’evasione fiscale. C’è un articolo di Finanziaria che indica questa fonte di introito, peccato non ci sia nemmeno una cifra di previsione. Abbiamo chiesto che venga presentata ogni tre mesi una relazione dettagliata che permetta di sapere esattamente quante risorse entrano, in modo da poter decidere almeno in sede di assestamento il loro utilizzo”.
RECUPERO BOLLO AUTO. “Analogamente – hanno proseguito Bonfante e Fasoli – invece di fare gare d’appalto da 72 milioni di euro più Iva per i servizi di avviso cartacei sulle scadenze del bollo auto, la Giunta valorizzi sia gli uffici interni che gli strumenti moderni di comunicazione, dall’utilizzo delle e-mail e degli sms, fino a quello dei social network”.
ENTI: FIGLI E FIGLIASTRI. “Non è infine accettabile che esistano tra gli enti, le categorie dei figli prediletti e dei figliastri. Perché ad esempio per Avepa sono aumentati gli stanziamenti dai 7 milioni del 2010 ai 29,2 milioni con la previsione di quest’anno?
Perché contemporaneamente realtà come lo Spisal o gli Iat nel settore del turismo, oppure il mondo della cooperazione, sono stati azzerati? Un lavoro di riequilibrio è anche in questo caso necessario. Altrimenti non si rientrerà mai in carreggiata”.
GLI EMENDAMENTI PRINCIPALI DEL PARTITO DEMOCRATICO VENETO Bonfante e Fasoli mettono infine in evidenza alcuni emendamenti alla manovra “che consideriamo come singole battaglie significative per migliorare il bilancio”.
In questo quadro si innesta la proposta di destinare 1 milione a sostegno della legge approvata nel 2010 e di cui Bonfante è stato proponente, ovvero quella per favorire la partecipazione dei lavoratori alla proprietà e gestione d’impresa.
Quindi il fronte della legalità e della sicurezza, tema sul quale Fasoli è fortemente impegnato come capofila nella redazione di una legge anti-criminalità: “Purtroppo la Giunta fa tanta demagogia sulla sicurezza ma concretamente fa ben poco visto che ogni risorsa è stata azzerata: chiediamo almeno di tamponare questa grave lacuna con uno stanziamento di 500 mila euro”.
Altro fronte oggetto di emendamenti è la formazione e l’orientamento al lavoro con la proposta di destinare un aumento di risorse pari a 400 mila euro e altri 3 milioni per la formazione professionale convenzionata.
“C’è poi il mondo della solidarietà: crediamo che iniziative come il banco alimentare vadano sostenute concretamente e per questo chiediamo che vengano stanziate risorse mila euro per il comitato veronese. Da non dimenticare poi la questione della tutela ambientale, dove andrebbero investiti ulteriori fondi per ridurre, attraverso l’utilizzo del Mater BI, la nocività dei rifiuti prodotti dalle attività di ristorazione presso le mense, le feste e le sagre, finanziando la legge approvata dal Consiglio su proposta del consigliere Fasoli”.
A completare il quadro la proposta di ripristinare il fondo che sostiene gli interventi di promozione delle comunità etniche e linguistiche del Veneto, nell’ambito della legge regionale 73 del 1994, “per la prima volta azzerato nella storia del Veneto, alla faccia della tutela delle minoranza linguistiche”.
Il gruppo del Pd ha infine presentato un apposito ordine del giorno sottoscritto da tutti i gruppi, per il sostegno da parte della Regione delle attività del centro per la cura delle malattie del pancreas “che rappresenta l’eccellenza della sanità veronese a livello nazionale e internazionale”.
DICHIARAZIONE DI LAURA PUPPATO, CAPOGRUPPO DEL PD IN CONSIGLIO REGIONALE
“In questo bilancio c’è poca contabilità e tante rese dei conti tra Lega e PdL. E’ chiaro che questo clima impedisce di chiudere in maniera efficace la manovra”.
Il giudizio è della capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Laura Puppato intervenendo a Verona in apposito incontro, che avverte: “da parte nostra c’è la massima disponibilità ad approvare in tempi rapidi la manovra. Ma a patto che finisca lo stillicidio delle ritorsioni, delle vendette dentro la maggioranza. Questo atteggiamento sta producendo una montagna di emendamenti illegittimi e impropri, il cui significato è solo quello di voler pestare i piedi al reciproco alleato di governo, ormai sempre più avversario. Come se non bastasse il ritardo gigantesco di oltre 3 mesi con il quale il centrodestra ha affrontato questo bilancio”.
“Il cessate le armi è indispensabile se si vuole davvero rispondere immediatamente e seriamente ai cittadini, lavoratori ed imprese del Veneto, dai settori del welfare a quello del turismo e dell’edilizia, che stanno attendendo da mesi risposte certe. Solo così – conclude Puppato - sarà possibile infatti individuare un pacchetto di priorità con la quantificazione esatta delle risorse da destinarvi. Nessun’altra condizione per l'immediata chiusura di un bilancio da troppo tempo atteso e che, attraverso l’approvazione di un maxi emendamento, renda questa manovra tardiva quantomeno un po' meno inadeguata alle attese del Veneto”.

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mercoledì 14 marzo 2012

Prospettive per gli ammortizzatori sociali

E’ difficoltoso realizzare i cambiamenti giusti in Italia perché gli attuali equilibri sono così forti ed impermeabili e rappresentano una sintesi di interessi consolidati che non è facile scardinare. Questo sta avvenendo con la riforma degli ammortizzatori sociali, al di là delle battute del Ministro Fornero.
L’attuale equilibrio degli ammortizzatori sociali trova consenzienti i sindacati e le imprese  che non vogliono sacrificare le proprie convenienze nell’interesse superiore dell’Italia.
Le lagune e le sperequazioni insite nell’attuale sistema di Welfare rappresentano per i soggetti interessati non delle distorsioni ma le condizioni per mantenere privilegi e continuità.
Se un errore può essere imputato al Ministro Fornero è quello di non aver presentato lunedì scorso al  tavolo dell’incontro con i sindacati e le imprese una politica attiva del lavoro (riqualificazione professionale, outplacement) efficace finalizzata a rioccupare i lavoratori disoccupati che di conseguenza ridurrebbe i periodi di disoccupazione e di erogazione dei sussidi economici. 
Sono nate polemiche sulle difficoltà del Governo a reperire risorse per finanziare la riforma senza tenere conto che possono essere effettuati dei risparmi introducendo due regole.
La prima regola per risparmiare risorse da utilizzare in modo produttivo è rappresentata dall’organizzazione di un mix di servizi finalizzati alla rioccupazione dei lavoratori licenziati. Tale regola è essenziale per fornire al lavoratore disoccupato non solo un sussidio economico ma soprattutto una prospettiva occupazionale in tempi accettabili.
La seconda regola è delineata dall’erogazione del sussidio condizionato alla disponibilità effettiva del lavoratore ad accettare le proposte di riqualificazione professionale e di ricollocazione. I lavoratori che rifiutano di partecipare attivamente all’utilizzazione di tali strumenti decadono dal diritto di percepire i sussidi a sostegno del reddito. Il senatore Pietro Ichino propone la firma di un contratto ricollocazione tra l’impresa ed il lavoratore.
Senza una politica attiva del lavoro la durata dei periodi di sostegno del reddito tende ad allungarsi causando l’aumento dei costi, abbassando la qualità del Welfare e l’espansione del lavoro nero
Ritengo che la previsione di una lunga durata delle prestazioni a sostegno del reddito non deve preoccupare per i costi in quanto un’efficace politica attiva del lavoro incide sicuramente sui periodi dei sussidi riducendoli e con essi i costi.
Intanto il ministro Elsa Fornero ha dichiarato che “ci sono abbastanza risorse per fare una buona riforma degli ammortizzatori sociali”. “Le risorse, ha aggiunto il Ministro Fornero, non verranno attraverso la riduzione della spesa di Assistenza”. Le risorse, ha concluso, "verranno da altri capitoli che sono capitoli di spesa che possono essere ridotti e capitoli di entrata che possono essere aumentati”.
Il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia è caratterizzato da una pluralità di prestazioni diversificati nell’importo, nella durata e nei requisiti. Tale differenzazione non ha ragione di esistere in quanto le prestazioni a sostegno del reddito si rivolgono esclusivamente ai lavoratori disoccupati (sospesi e licenziati) che vivono le medesime condizioni e bisogni. Tale differenziazione rappresenta il motivo principale per cui non è facile riformare e condurre ad unità gli ammortizzatori sociali.
Ritengo che l’aumento del costo dei contratti atipici non sia sufficiente ad eliminare il precariato in quanto alle imprese rimane il beneficio di “licenziare” i precari alla scadenza del contratto. Pertanto, occorre intervenire ed eliminare direttamente alcune tipologie di contratti senza affidarsi esclusivamente al costo dei contratti precari superiore a quello dei lavoratori dipendenti.
Per tale motivo occorre ridefinire il lavoro dipendente nel modo proposto da Ichino, Nerozzi e Madia nei loro disegni legge al fine di allargare la platea dei lavoratori dipendenti ed eliminare i falsi lavoratori autonomi. Nei disegni di legge citati il lavoro dipendente deve presentare tre elementi: - dipendenze economica dall’impresa; - monocommittenza, traendo cioè più di due terzi del proprio reddito di lavoro da un unico rapporto; - livello di reddito al di sotto del quale il lavoro prestato viene definito dipendente.
Si ritiene positiva la proposta di finalizzare la Cassa integrazione straordinaria alle imprese che si devono ristrutturare e non sono destinate alla cessazione. Molti sono i casi di imprese destinatarie della Cig straordinaria per ristrutturazione che non hanno ripreso l’attività ed hanno collocato i lavoratori per lunghi periodi sotto la tutela della cassa integrazione.
Il Ministro Fornero propone il contratto di apprendistato come unico contratto prevalente per entrare nel mondo lavoro, proposta condivisa dalle organizzazioni sindacali. Si dimentica che l’apprendistato ha un limite anagrafico, 30 anni, e non è praticabile per i precari che abbiano superato tale limite di età. Inoltre, l’apprendistato, avendo un contenuto fortemente formativo, può essere applicato ai lavoratori senza esperienza lavorativa e, quindi, rimangono fuori coloro che hanno già lavorato.
Il modello proposto dal Ministro Fornero prevede una copertura universale che si bada su due pilastri l’assegno di disoccupazione e la cassa integrazione ordinaria e straordinaria.
Ritengo che occorre conoscere l’intera proposta del Ministro Fornero, comprensiva delle modifiche all’articolo 18, per valutare gli effetti sul cambiamento del mercato del lavoro.

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lunedì 12 marzo 2012

Quali risorse per gli ammortizzatori sociali?

Nota tecnica del senatore Pietro Ichino sulla necessità di coniugare con il trattamento di disoccupazione universale un trattamento complementare a carico dell’impresa, redatta in occasione dell’incontro tra Governo e Parti sociali sulla riforma degli ammortizzatori previsto per il 12 marzo 2012.
1. Il problema più grave, in questa materia, non è quello delle risorse. Il problema più grave è che i periodi di disoccupazione tendono ad allungarsi in corrispondenza con la durata del sostegno del reddito. Per evitare questo effetto pesantemente negativo è indispensabile la capacità effettiva di condizionare l’erogazione alla disponibilità effettiva del lavoratore.
2. Oggi i servizi pubblici italiani sono totalmente privi del know-how necessario per l’esercizio di questa condizionalità nell’erogazione del sostegno del reddito al lavoratore disoccupato. Questa incapacità incide pesantemente sulla durata delle erogazioni, quindi sul fabbisogno complessivo.
3. L’unico modo in cui questo nostro difetto di know-how può essere ovviato consiste nell’attivare gli incentivi giusti, nei confronti di chi può realisticamente individuare i servizi di assistenza efficienti e far funzionare la condizionalità necessaria.
4. Questo è possibile oggi soltanto coniugando strettamente l’unemployment benefit universale (UUB) erogato dall’Inps (che è incapace di condizionalità) con un trattamento complementare (CUB) a carico dell’impresa che licenzia, strutturato in modo da gravare di meno per un primo periodo ed erogato sulla base di un “contratto di ricollocazione” il cui standard minimo sia fissato per legge, solennemente firmato dal lavoratore con l’impresa. Durante il primo periodo l’impresa stessa sarà così fortemente incentivata a scegliere il meglio delle società di outplacement, e curare che quella prescelta fornisca il servizio di tutoraggio nel modo migliore.
5. Sarà poi compito delle Regioni coprire in tutto o in buona parte il costo standard di mercato dei servizi di outplacement, attingendo ai contributi del Fondo Sociale Europeo oggi inutilizzati e riqualificando la propria spesa in questo campo, sulla base di leggi regionali che prevedano accordi-quadro regionali e/o convenzioni individuali con le singole imprese interessate.
6. Questo è necessario anche perché, venendo meno il filtro giudiziale sul giustificato motivo di licenziamento, ad esso si sostituisca un filtro costituito dal severance cost a carico dell’impresa che licenzia. Inoltre, il fatto che il trattamento complessivo di disoccupazione sia composto da una parte (UUB) coperta dall’assicurazione generale e una parte (CUB) a carico dell’impresa che licenzia consente di ridurre l’entità del contributo assicurativo per l’UUB (evitando un indebito allargamento del cuneo contributivo) e al tempo stesso di istituire un premio implicito per l’impresa più capace di manpower planning.
7. La firma del “contratto di ricollocazione” tra impresa e lavoratore costituisce anche un potente fattore di riduzione del contenzioso giudiziale sul licenziamento.

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