giovedì 30 agosto 2012

Pietro Ichino e le primarie del PD

Intervista a Pietro Ichino a cura di Tommaso Labate pubblicata sul Corriere della Sera il 30 agosto 2012
Il 29 settembre, a Roma, ci sarà un'iniziativa del "gruppo dei quindici", che a luglio chiese pubblicamente al Pd di portare l'agenda Monti nella prossima legislatura. Certo, entro quella data avremo già visto e valutato i programmi dei partecipanti alle primarie. E decideremo chi sostenere. Nel frattempo, però, non si può escludere nulla: neppure che lo stesso gruppo presenti una sua candidatura alla leadership del centrosinistra». 
Potrebbe candidarsi lei, professor Ichino? 
«Che sia io a candidarmi è proprio da escludere. Può essere che me lo chiedano. Nel caso, valuterò. Ma come si fa a dirlo quando ancora non si conoscono i programmi degli altri e neppure il modo in cui si voterà alle primarie?».
Pietro Ichino - classe '49, giuslavorista di rango, riformista doc, senatore del Pd, appassionato di scacchi spiega che dal gruppo dei quindici iper-montiani del Pd - con lui ci sono, tra gli altri, Enrico Morando, Giorgio Tonini, Umberto Ranieri - potrebbe venir fuori un nuovo nome per le primarie. Un altro sfidante per Bersani e Renzi.
Professore, forse si è dato troppo per scontato il suo sostegno a Renzi?
«Nel comunicato stampa che ho fatto ieri (martedì, ndr) non ho scritto di "aver scelto Renzi". Ho scritto che Renzi si è rivolto a me, che ha chiesto la mia collaborazione per una parte del suo programma e che gliel'ho assicurata ben volentieri, come sto già facendo. E come avrei fatto con ogni altro candidato del Pd alle primarie che me l'avesse chiesto. Compreso Bersani».
Solo che Bersani non gliel'ha chiesto.
«No, non me lo ha chiesto. Ma se per esempio domani altri candidati alle primarie mi chiedessero di collaborare ai loro programmi, sarei lieto di farlo. Lo farei per Bruno Tabacci, per Stefano Boeri... La mia collaborazione con Renzi non esclude le altre. Quello che conta sono le cose da fare, i programmi. E i programmi di una sfida come le primarie, su alcuni punti, ben possono anche essere convergenti».
Significa che non si sente turo dire quale sarà la nostra arruolato nella campagna di Renzi?
«Con Renzi non abbiamo parlato del mio ingresso nella sua squadra. Potrà essere che se ne parli nel prossimo futuro, ma chi ne parla ora parla a vanvera».
Messa così, sembra che lei non abbia neanche deciso se votarlo, Renzi.
«Se dalla campagna elettorale per le primarie risulterà che solo Renzi fa proprie le mie idee, le mie proposte, non avrò alcun dubbio sul candidato a cui dare il voto. Ma è possibile verificarlo soltanto quando si conosceranno i programmi di tutti i candidati e le regole del gioco, compreso se saranno primarie a turno unico o a doppio turno».
E poi c'è l'appuntamento del 29 settembre. La vostra assemblea dei quindici. Quelli dell'«agenda Monti al centro nella prossima legislatura».
«Ripeto: se non si riterranno soddisfacenti i programmi degli altri candidati, potremmo anche valutare una nostra candidatura. In questo momento sarebbe prema- scelta».
Nello staff di Renzi dicono di voler portare avanti l'agenda Monti. Ed Enrico Letta sostiene che Bersani lo sta già facendo.
«Bersani ha detto testualmente che il suo futuro governo avrà una sua agenda, solo in parte coincidente con l'agenda Monti. Ma questo potrebbe anche andar bene se le differenze consistessero in perfezionamenti, correzioni di errori, riempimento di lacune. Il problema è che invece alcune prese di posizione del vertice del Pd fanno pensare, su alcuni punti cmciali, più a un netto cambiamento di rotta che alla prosecuzione del programma avviato da Mario Monti».
A quali prese di posizione si riferisce?
«In materia di lavoro e welfare, Cesare Damiano e Stefano Fassina predicano una vera e propria inversione di rotta. Per non parlare della vicenda sconcertante dell'esclusione di Elsa Fornero dalle feste del Pd, che lo stesso Fassina - non smentito - sostiene essere stata decisa dalla segreteria nazionale».


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martedì 28 agosto 2012

Alla scoperta del Sud

Articolo di Serena Capodicasa sull’esperienza “Vie del Sud” dalla Basilicata alla Sicilia
A Luglio mi chiama Domenico Petrolo del dipartimento cultura del PD Nazionale, e mi propone di fare un viaggio con lui, Roberto e Giulia, rispettivamente un reporter dell'Avanti on-line e una ragazza che lavora per il Ministero dell'Istruzione. Questo viaggio ha un obiettivo: scoprire cos'è veramente il Sud, e farlo conoscere all'Italia attraverso la stampa. Domenico mi ha chiamata perché portassi al Nord ciò che avrei visto, dando il mio contributo di amministratrice di un territorio completamente diverso e in cui è presente una forte cultura anti-sud. Con me è venuto Damiano Pagani, veronese doc, psicoterapeuta e formatore aziendale, con l'intento di conoscere un lato dell’“umano", della società, che sicuramente è differente da quello che vediamo a Verona tutti i giorni.
Siamo partiti entrambi il 5 Agosto per raggiungere Giulia e Domenico a Potenza, e nel percorso verso Sud ho fatto tappa in un luogo di cui conservo un meraviglioso ricordo: sono stata accolta di Domenica dal Comune di Matera, dove il sindaco Salvatore Adduce mi ha parlato di com’è nata la delibera che lo scorso anno è stata votata all'unanimità dal Consiglio comunale materano contro il gioco d'azzardo, documento pioniere nei comuni italiani sul tema.
La sera mi sono ritrovata con Damiano, Giulia e Domenico e ci siamo diretti verso Sant'Arcangelo, paesino della Basilicata che ha al suo interno un progetto fondato dal premio Nobel Betty Williams, la "Città della Pace", che ospita persone di diverse nazionalità in asilo politico. Le operatrici che lavorano in questa realtà, giovani che sono andate a studiare fuori dal loro paese per poi però tornarvi, ci hanno spiegato come Sant'Arcangelo reagisce alla presenza di stranieri, con un’accoglienza unica e incredibile.
Abbiamo poi visitato il Parco del Pollino, il più grande parco nazionale italiano, semi sconosciuto ai più: una meraviglia valorizzata da un giovane ragazzo che, dopo aver studiato fuori, è tornato in Basilicata per realizzare il sogno di rilanciare il suo territorio, inventandosi l'installazione di opere d'arte nel parco, che attirassero turisti da tutto il mondo.
Lasciata la Basilicata, siamo andati a Taranto: lì abbiamo visto gli orrori dell'ILVA, abbiamo incontrato gli abitanti di Tamburi, il quartiere che sorge accanto alla mega acciaieria, i quali ci hanno parlato dei loro tumori, ci hanno mostrato le polveri sottili che le donne spazzano via ogni mattina dai terrazzi chiusi, ci hanno spiegato la contraddizione di avere più paura di perdere il lavoro che di morire a causa delle sostanze emesse dall'acciaieria. Nella stessa giornata, frastornati un po' dalle polveri tarantine, un po' dai racconti degli abitanti, ci siamo spostati a qualche chilometro dalla città, dove siamo saliti sulla barca della Jonian Dolphin Conservation, organizzazione portata avanti da Carmelo che tutela i delfini del golfo di Taranto. I delfini? Ebbene si! Abbiamo guardato sconvolti i delfini che saltavano intorno alla nostra barca a pochi chilometri dall'ILVA, delfini che stanno bene in quell'acqua per la particolare conformazione marina del golfo, che arriva a profondità di oltre un chilometro e riesce a mantenere un basso tasso di inquinanti nell’acqua. Ma potrà andare ancora molto avanti la loro presenza in quelle acque a rischio?
Lasciata Taranto, ci siamo diretti a Sibari, in Calabria. Lì abbiamo trovato Benito, un agronomo che ha girato mezzo mondo con il suo lavoro, che ha preso in mano centinaia di ettari di terreno della Curia, su cui fa crescere riso e verdura e frutta di ogni genere. Il riso in Calabria? Proprio così, contro il deserto. Il terreno su cui cresce il riso è una lastra di salgemma scioltasi dalle montagne, e la risaia è l'unico mezzo per evitare che questa porti alla desertificazione di un terreno fruttuoso e meraviglioso. Grazie alla rete nazionale di molte cooperative questo riso e il resto del coltivato portano lavoro e denaro a questo territorio, una parte del quale serve a mantenere l'orfanotrofio del paese.
La sera stessa siamo andati a Reggio Calabria, per raggiungere e conoscere il Banco Alimentare Calabrese, seguito da un gruppo di persone che ha cominciato da un piccolo deposito e ora ha ottenuto interi container del mercato ortofrutticolo del luogo, garantendo sostentamento, seppur tra mille difficoltà date da una regione molto povera e con poca industria alimentare, agli utenti di più di 450 associazioni calabresi che si occupano di poveri.
Il giorno abbiamo allacciato gli scarponi e siamo saliti sull'Aspromonte, con l'associazione Amici dell'Aspromonte, che ci ha accompagnato a vedere magici spettacoli della natura che purtroppo non sono conosciuti, a causa della storia della scarsa promozione fatta di questo massiccio, famigerato luogo dei rapimenti che hanno avviato l'Ndrangheta a divenire una delle più grandi organizzazioni criminali, che ora più che allora è radicata in quel territorio, dove moltissimi consigli comunali sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose.
Scesi dall'Aspromonte e passato lo stretto di Messina, siamo corsi a Palermo, dove abbiamo conosciuto Giacomo e i ragazzi della Torrefazione ITI, azienda confiscata alla mafia che, nonostante le mille minacce arrivate, è stata rimessa in funzione e ora produce uno dei migliori caffè palermitani. Dopo aver bevuto quest’ottimo caffè, siamo andati allo Zen2, quartiere di Palermo inesistente secondo il piano regolatore, fatto di case occupate e di allacciamenti a elettricità e acqua gestiti dalla mafia, dove la micro criminalità non si vede perché è un terreno in cui i soldi sporchi si fanno con delle grandi partite di droga. In questo quartiere fatto di discariche a cielo aperto e futuro molto oscuro, c'è una realtà meravigliosa, portata avanti da Mariangela, ragazza forte e determinata che capeggia un gruppo di donne che con "Laboratorio Zen Insieme" costruisce borse bellissime, fa laboratori di teatro, circo, gestisce il doposcuola per i ragazzi del quartiere, crea cioè, per le donne e per i bambini, un futuro diverso. Da 20 anni.
Damiano ed io siamo tornati a Verona con un’immagine del Sud molto variegata, solo in parte corrispondente allo stereotipo che abbiamo quassù, cioè di un Sud fatto di mafia, di omertà, d’inquinamento e di assenza delle Istituzioni, dello Stato. Noi più di tutto abbiamo visto altro, quel qualcosa che c'è in tanti borghi e realtà delle regioni meridionali, ma che ai nostri media non arriva (o non vogliono farlo arrivare): un Sud fatto di coraggio, di voglia di cambiare, di riscatto e di maniche rimboccate, un sud di ecosostenibilità e di formazione, di lotta e di resistenza. La resistenza contro uno Stato che non c'è e che si cerca, la resistenza contro l'omertà e l'ignoranza. Domenico, il nostro capitano di viaggio, spiega con queste parole i nostri pensieri di fine percorso: "Molte cose sono rimaste come 10 anni fa ma molte altre esperienze, oggi positive e dinamiche, 10 anni fa non c’erano. Ora c’è un diverso coraggio, una diversa consapevolezza, forse perché il momento è più difficile o forse perché abbiamo maggiori strumenti. La battaglia è lunga e difficile, ma noi non ci scoraggiamo, i semi del cambiamento stanno già cominciando a germogliare".

Per maggiori info www.viedelsud.blogspot.it

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Crescita: finanza e società

Articolo di Mauro Magatti pubblicato sul Corriere della Sera il 26 agosto 2012
Il tema della crescita è, ormai da molti mesi, al centro del dibattito. Mentre, infatti, c' è un ampio consenso attorno all' idea che un ciclo storico sia terminato, assai minore è la convergenza attorno alle linee dello sviluppo futuro.
La questione nasce dal fatto che la crisi in corso rimette in discussione la natura del processo di accumulazione - che è il modo attraverso cui il capitalismo, allargando la propria base produttiva, crea le condizioni per la crescita. Anche se, nel corso del tempo, le soluzioni adottate per ottenere tale risultato sono state diverse, la linea evolutiva appare sufficientemente chiara: diventando «mature», le nostre società sono sempre più profondamente implicate nello sforzo di creazione di valore.
È almeno dal Dopoguerra, dall'avvento cioè della stagione keynesiana, che il processo di accumulazione - coinvolgendo nuovi strati sociali e mobilitando la spesa pubblica - ha decisamente virato verso una progressiva «socializzazione». Una tendenza che ha trovato pieno dispiegamento nella società dei consumi, dove la logica capitalistica si generalizza alla totalità del sociale: da quel momento in avanti è l' aumento dei consumi individuali a trainare la crescita dei mercati.
I limiti di quella soluzione, però, sono stati raggiunti più velocemente del previsto. Già negli anni 70, nei Paesi anglosassoni si coglie che le possibilità sono, per questa via, limitate. Ed è a questo punto che entra in scena l' ultima fase, quella che ci ha portato alla crisi in corso, nella quale la finanziarizzazione - associata alla deregulation globale - è diventata l' elemento cardine di una nuova stagione di accumulazione: come ci risulta oggi meglio comprensibile, l' espansione finanziaria - che ha comunque portato con sé maggiore efficienza e aperto nuovi mercati su scala planetaria - è diventata il motore del processo di creazione del valore. Una soluzione che, se ha avuto il merito di accelerare tale processo - dando vita ad una fase di crescita economica globale molto rapida - lo ha dall' altro indebolito proprio nel suo radicamento sociale. In fondo, l' economia poteva crescere a prescindere dalla società. La questione della crescita - e dunque della natura della accumulazione - torna a porsi nel momento in cui quella condizione di espansione illimitata, per sole linee esterne, si complica. E si complica per una ragione di fondo, e cioè la (ri)scoperta del fatto che un sistema esteso e complesso di promesse di pagamento (quale è il sistema finanziario) si può reggere solo su ordini politici (cioè istituiti e, come tali, limitati) che ne garantiscano la solvibilità in ultima istanza. Ciò spiega come mai proprio l' Europa, unita dalla moneta unica ma priva di un sistema politico sovrano, si ritrovi da mesi nell' occhio del ciclone. Per questo, nelle nuove condizioni ci si pone la domanda: è ancora sensatamente possibile pensare che la mera espansione finanziaria possa costituire la via principale dell' accumulazione capitalistica? Se si risponde di no, come credo che oggi si debba fare, e se si non si prende la strada sbagliata della decrescita, ecco allora che è doveroso interrogarsi sulla nuova logica di ampliamento della base produttiva, o meglio di creazione del valore, che potrà affermare nei prossimi anni. Nel nuovo quadro che si va formando, non solo sarà più difficile e controverso avere accesso alle consistenti opportunità di profitto ancora disponibili a livello mondiale, ma soprattutto non le si potrà più assumere come necessariamente in crescita. Per compensare tali difficoltà, il nuovo ciclo di accumulazione dovrà investire, ancora più massicciamente di quanto non sia già accaduto, sulla propria base cognitiva. E ciò per almeno due ragioni. La prima è che, all' interno di un pianeta sempre più unificato da un sistema tecnico-economico planetario, il confronto sarà ancora più stringente rispetto ai livelli di efficienza e di innovazione. La seconda è che, soprattutto nelle società mature, la conoscenza costituirà un fattore decisivo per allargare le opportunità di mercato.
Tuttavia, questa prima dimensione, da sola, non sarà sufficiente. Sia perché costosa, sia perché relativamente incerta.
Un contributo ugualmente importante dovrà venire anche da nuove forme di «accumulazione sociale e culturale», dove con tale espressione si intende la cura dei luoghi e delle persone che sono il patrimonio di intelligenza e creatività da cui si può sprigionare quel nuovo valore di cui le società avanzate sono alla ricerca. In un mondo sempre più integrato sul piano tecnico-economico, al di là di una certa soglia cognitiva, a fare la differenza - come sempre insegnano Amartya Sen e Martha Nussbaum - sarà il differenziale derivante dalla qualità delle persone, dei luoghi, delle istituzioni. In questo senso, l' economia tornerà a legarsi alla società: la nuova stagione dell' accumulazione dipenderà più decisamente dalla capacità di produzione di valore sociale, che altro non è che un sistema di priorità: fare di più con meno eliminando gli sperperi e le rendite; includere e integrare la dimensione sociale in contesti a crescente complessità umana; valorizzare lo spirito di iniziativa e le capacità individuali, oltre che la bellezza e l' efficienza di contesto. La buona notizia è che tutto ciò porterà con sé un nuovo modello di crescita che promette di essere migliore di quello che abbiamo lasciato alle nostre spalle. Naturalmente a condizione che si capisca di che cosa si sta parlando e che si costruisca un consenso attorno a ciò che fonda il futuro di una società di questo tipo: centralità della scuola e della università, della conoscenza e della cultura, dell' intrapresa e dell' investimento, della collaborazione e della cooperazione.


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mercoledì 22 agosto 2012

Quale futuro per le nuove generazioni?

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 21 agosto 2012
Mario Monti ha fatto bene a ricordarlo l'altro ieri a Rimini: ma quante volte è già stata usata questa espressione? Quanti lamenti, quante promesse abbiamo sentito? Tornare sul dibattito ha un sapore quasi imbarazzante. Tanto più che, come ha messo bene in luce il servizio di Federico Fubini apparso ieri su questo giornale, invece di migliorare la situazione peggiora, al netto della crisi. Moltissimi Paesi fanno meglio di noi, hanno tassi di occupazione giovanile (e totale) ben più alti dell'Italia. Sin dal suo insediamento, questo governo ha mostrato una nuova sensibilità per la condizione giovanile. Ma la politica concretamente adottata è stata quella dei piccoli passi. La riforma Fornero ha introdotto un pacchetto di misure promettenti: apprendistato, agevolazioni per l'assunzione di giovani e donne, limitazione dei contratti «usa e getta», accesso più ampio alle indennità di occupazione. Qualche effetto positivo arriverà senz'altro, ma non aspettiamoci scosse. Dal «Cresci Italia», dal «Semplifica Italia» e dal decreto sviluppo (finalmente convertito in legge) il governo si aspetta consistenti ricadute occupazionali: tuttavia, come lo stesso Monti ha ribadito a Rimini, ci vorrà tempo prima che le riforme producano risultati. E intanto? Il conto che facciamo pagare ai nostri giovani diventa ogni giorno più salato. La politica dei piccoli passi non è più sufficiente, soprattutto per un governo che ha scelto l'equità intergenerazionale come uno dei suoi più qualificanti obiettivi. Per accelerare il passo (anche sul piano politico) si deve prendere spunto dai Paesi virtuosi e applicare con maggior serietà le raccomandazioni europee. La strategia «Europa 2020» ci chiede ad esempio di accrescere il tasso di occupazione dall'attuale 61% al 70% nei prossimi otto anni e sollecita a quantificare obiettivi di medio termine, diciamo di qui a due o tre anni. Altri Paesi Ue l'hanno fatto nel loro ultimo Programma Nazionale di Riforma, l'Italia no. Perché? Proporsi traguardi precisi nel medio periodo servirebbe a creare un senso di maggiore urgenza. Sappiamo bene che da noi alzare il tasso di occupazione significa soprattutto dare lavoro a giovani e donne. La semplice indicazione di obiettivi non dà ovviamente garanzie che questi vengano raggiunti. Perciò il passo più importante da fare è quello delle garanzie: occorre immaginare qualche «penalità» in modo che, se si manca l'obiettivo, il conto non venga pagato dai giovani. L'esempio da imitare potrebbe essere quello dell'Olanda negli anni Novanta. Qui un governo di grande coalizione introdusse questa regola: se in un dato anno il tasso di occupazione non sale secondo il ritmo programmato (al netto del ciclo), nell'anno successivo viene sospesa l'indicizzazione delle prestazioni sociali. La sospensione avvenne effettivamente per tre anni consecutivi, fra il 1993 e il 1995, con l'appoggio dei sindacati e del partito socialdemocratico al governo. Parte dei fondi così risparmiati andò a finanziare le politiche attive del lavoro e quelle di formazione. Tra il 1991 e il 2001 il tasso di occupazione dei giovani olandesi crebbe di quasi 15 punti percentuali, portandosi al di sopra del 65% (oggi, nonostante la crisi, è al 68%, più del doppio di quello italiano). A voler essere davvero ambiziosi si potrebbe poi giocare d'anticipo rispetto alla stessa Unione europea. A Bruxelles si sta riflettendo su una misura che dovrebbe diventare presto oggetto di una Comunicazione ufficiale: la cosiddetta Youth Guarantee (garanzia per i giovani). Si tratta di un vero e proprio diritto di ogni studente che termina la scuola secondaria a ricevere un'offerta di lavoro, di tirocinio/apprendistato o di ulteriore programma formativo. Per un Paese come l'Italia sarebbe una vera e propria rivoluzione ed è chiaro che avrebbe alti costi finanziari ed organizzativi. Ma, lo ripeto, senza passi ambiziosi, che smettano di «far pagare il conto» ai giovani e rimodulino l'intensità e la gamma delle tutele lungo il ciclo di vita, l'Italia continuerà a mantenere i propri figli nel recinto dell'inattività, della precarietà, della dipendenza, con considerevoli danni sociali ed economici. Secondo gli esperti, in Europa ci sono oggi quasi sei milioni di giovani inattivi, il che comporta circa 100 miliardi di euro di «perdita» in mancato sviluppo. A Bruxelles si sta pensando di mobilitare il bilancio Ue per co-finanziare la Youth Guarantee: una prospettiva che tornerebbe a grande vantaggio dell'Italia. È un vero peccato che tale progetto non figuri fra i temi che occupano l'agenda europea sulla crisi e le discussioni sul cosiddetto Growth Compact. Ma, si sa, l'Europa sembra aver smarrito di questi tempi la capacità e il desiderio di presentarsi alle opinioni pubbliche (e ai suoi giovani) come soluzione, invece che come problema.

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giovedì 16 agosto 2012

Pietro Ichino, invecchiamento attivo

Lettera sul lavoro di Pietro Ichino pubblicata sul Corriere della Sera il 15 agosto 2012
Caro Direttore, la notizia del disegno di legge per la promozione dell’invecchiamento attivo a cui sto lavorando con alcuni altri senatori democratici, data sul Corriere da Enzo Marro sabato scorso, ha suscitato reazioni contrastanti. La materia del dissenso può apparire un po’ tecnica; vale però la pena di mettere a fuoco il problema, anche per chi non è un “addetto ai lavori”, perché quello che è in gioco qui, a ben vedere, non è soltanto una questione di politica del lavoro e previdenziale, ma un aspetto particolare della questione politica cruciale sulla quale gli italiani sono chiamati a decidere nelle ormai prossime elezioni politiche: proseguire sulla linea dell’“agenda Monti”, o cambiare strada? Sul terreno specifico del lavoro e del welfare, in un Paese come il nostro in cui ancora nel 2011 l’età media del pensionamento di anzianità, cioè di due terzi di coloro che andavano in pensione, è stata pari a 58 anni e tre mesi: siamo convinti o no che non si possa continuare così e che si debba operare urgentemente per aumentare il nostro tasso di occupazione nella fascia di età superiore ai 55 anni?
Oggi soltanto un terzo degli italiani è attivo nel mercato del lavoro nella fascia di età tra i 55 e i 70 anni, mentre nel nord-Europa il tasso di occupazione in questa fascia è intorno ai due terzi. Vogliamo puntare ad arrivare rapidamente almeno al 50 per cento, o tutto sommato consideriamo che non sia questo uno degli obiettivi prioritari della nostra politica del lavoro? Pensiamo che ogni cinquantenne o sessantenne in più al lavoro favorisca la creazione di occasioni di lavoro per i giovani, perché continua a creare ricchezza e non succhia risorse pubbliche, oppure
siamo convinti che il modo migliore per dar lavoro ai giovani sia mandare in pensione i cinquantenni e sessantenni il più presto possibile, per far posto nel tessuto produttivo alle nuove generazioni?
I più decisi nel sostenere la seconda alternativa, quella che il nostro Paese ha costantemente praticato nell’ultimo mezzo secolo, sono comprensibilmente i cinquantenni e sessantenni che nell’autunno scorso erano vicini all’età del pensionamento secondo le vecchie regole e per effetto del decreto “Salva-Italia” del dicembre scorso si sono visti bruscamente allontanare di qualche anno l’agognata “quiescenza”. Quelli più vicini sono stati “salvaguardati”. Gli altri hanno ragione a lamentare il difetto di gradualità di quel decreto; ma non devono prendersela con il
Governo, il quale – in una situazione di pericolo gravissimo – ha dovuto fare in due settimane quello che i Governi precedenti avrebbero dovuto fare nell’arco dei venti anni precedenti e non hanno fatto. Politici e sindacalisti, dal canto loro, non devono alimentare l’idea che chi perde il posto a cinquant’anni non possa ritrovarlo. La maggior parte dei “non salvaguardati” è convinta che intorno ai 55-58 anni di età, con 35 o 38 anni di contribuzione al 33 per cento, ci si sia guadagnato il “diritto” a una pensione pari a tre quarti della retribuzione dell’ultimo periodo (per lo più doppia rispetto a quella iniziale) per gli altri 25 anni di vita che un italiano può attendersi a 58 anni; ma basta un elementare calcolo aritmetico per constatare che i conti non tornano. E che quindi occorre un periodo di contribuzione più lungo. Ancor meno i conti tornano quando – come nella maggior parte dei casi dei lavoratori “esodati non salvaguardati” – il lavoratore poco dopo i 50 anni di età, con soli 25 o 30 anni di contribuzione alle spalle, ha aderito a un piano aziendale di “incentivazione all’esodo” che prevedeva altri cinque o sei anni di cassa integrazione e “mobilità” per arrivare alla pensione a un’età intorno ai 58: è evidente a chiunque che la vita adulta di una persona non può essere divisa a metà tra lavoro e pensione. Nessun sistema previdenziale può garantire questo, se non al costo di un pesante contributo statale; ma questo significa sottrarre
risorse all’assistenza per chi ne ha veramente bisogno, ai servizi pubblici e agli investimenti. È questo il motivo per cui dobbiamo urgentemente smettere di affrontare le crisi occupazionali aziendali in questo modo.
Per chi è stato coinvolto negli anni passati in accordi di questo genere è giusto che lo Stato stanzi le risorse indispensabili perché nessuno resti privo del necessario sostegno del reddito. Ma questo va fatto non tornando indietro, ripristinando le vecchie regole. La compensazione deve consistere in un sistema di incentivi economici e normativi che rafforzi incisivamente la possibilità per queste persone di trovare una nuova occupazione appropriata, e in un trattamento di disoccupazione di entità congrua, per chi nonostante quegli incentivi non riesca a reinserirsi nel
tessuto produttivo. Per favorire l’invecchiamento attivo, poi, occorre facilitare per il sessantenne al lavoro il passaggio al tempo parziale, la possibilità negli ultimi anni di lavoro di combinare il part-time in azienda con un anticipo parziale della pensione senza aggravi per l’Erario,
la possibilità di concordare con il datore di lavoro periodi sabbatici senza perdita di contribuzione e senza aggravi per l’impresa.
Tutto questo è quanto si propone il disegno di legge a cui sto lavorando con altri senatori democratici, per completare rafforzandola, e non per smontare, la riforma avviata nel dicembre scorso dal Governo.

Disegno di legge

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martedì 7 agosto 2012

Welfare integrativo alla Coop

Articolo di Dario Di Vico pubblicato sul Corriere della Sera il 7 agosto 2012
«Capiterà sempre più spesso che in alcune aree di intervento il pubblico sia costretto a ritirarsi e che questa ritirata coincida con la scomparsa del servizio. A quel punto interviene la cooperazione, non certo per fini politici ma per garantire innanzitutto la tenuta sociale». Paolo Cattabiani è il presidente di Legacoop Emilia Romagna e come ha anticipato all' Unità sta studiando attivamente nuove forme di impegno delle cooperative. Due, in particolare, sono i progetti ai quali Legacoop sta dedicando grande attenzione: a) «una grande mutua dei cittadini» integrativa del Servizio sanitario nazionale e capace di offrire prodotti a prezzi calmierati; b) cooperative di utenti che rilevino il servizio nei paesi di montagna dove le Poste chiudono. Spiega Cattabiani: «Noi ci siamo sempre posti l'obiettivo di organizzare l'offerta, ora pensiamo che siamo giunto il tempo di occuparci anche della domanda sociale e la crisi dello Stato ci spinge a farlo con una certa velocità».
Cominciamo dalla mutua che è sicuramente il progetto che farà più discutere. Le riflessioni delle Coop sono nel solco di quello che viene chiamato il «secondo welfare», in sostanza di fronte alla crisi dello Stato sociale i corpi intermedi si organizzano e mettono in campo soluzioni capaci di surrogare/integrare l'intervento pubblico. Cattabiani pensa a una mutua alla quale possano aderire tutti i cittadini (e non solo i soci Coop) pagando l'iscrizione a un prezzo piuttosto favorevole e dunque alla portata di un pensionato e di un precario (si può ipotizzare qualche decina di euro). La mutua successivamente offre una serie di prodotti sanitari specialistici - e quindi non in concorrenza con il Ssn - a prezzi competitivi e potrà farlo grazie a economie di scala. Insomma, più cittadini aderiranno alla nuova mutua più i servizi potranno essere a buon mercato. Il potenziale in casa Coop c'è: anche solo sperimentalmente si può partire dallo zoccolo rappresentato dai 2,5 milioni di iscritti emiliano-romagnoli (in Italia complessivamente sono 7 milioni), ci si può appoggiare ai punti vendita della grande distribuzione di Coop Italia e infine si può fare affidamento sul know how messo a punto da Unisalute, una società dell'Unipol che già fornisce pacchetti di welfare aziendale sul mercato (un cliente è la multinazionale Luxottica). Aggiunge Cattabiani: «Nei discorsi che andiamo facendo c'è l'idea di partire dalla nostra filiera e dalla mia regione, poi se saremo bravi potremo espandere il tutto sul territorio nazionale». Tra i servizi che sicuramente saranno presi in esame spiccano le cure e la prevenzione odontoiatrica, ma non solo.
Le Coop in Emilia e Romagna hanno già sette piccole mutue che a breve dovrebbero esser razionalizzate per costituire il primo gradino della nuova iniziativa. Il progetto delle «grande mutua» ha un orizzonte temporale tra i 2 e i 4 anni ma i primi passi vanno fatti subito. L'intento è anche quello di offrire qualità, «non pensiamo certo di organizzare un ghetto sanitario, i prezzi saranno bassi per la forza dell'organizzazione industriale e non perché saranno mediocri». Accanto a prodotti più standardizzati ci saranno anche soluzioni più personalizzate e ovviamente l'utente pagherà in ragione dei servizi di cui usufruirà effettivamente. Dal punto di vista del conto economico Cattabiani pensa che una mutua possa chiudere in pareggio anche con soli 40 mila utenti, di conseguenza con i numeri che può garantire il sistema Coop non ci dovrebbero essere problemi di sorta. «D'altro canto chi meglio di noi, con la nostra cultura solidaristica e mutualistica, può caricarsi il compito di surrogare lo Stato in bolletta?».
Per quanto riguarda il servizio postale si pensa, invece, a creare nei paesi tagliati dalla riorganizzazione del servizio alcune cooperative di comunità, che evidentemente non sono orientate al profitto ma con una buona dose di lavoro volontario suppliscono alla ritirata dello Stato. In questo caso sarà necessario stipulare una convenzione con le Poste e poi la distribuzione verrebbe curata a livello locale. Le idee ci sono e non resta che metterle in pratica, sostiene Cattabiani.

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lunedì 6 agosto 2012

I cambiamenti della Bce

Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 5 agosto 2012
Giovedì a Francoforte è successo qualcosa di importante che chiarisce come agirà la Banca centrale europea nei prossimi mesi. I dettagli non sono ancora definiti, ma il quadro generale ora lo è. Si apre un nuovo capitolo della riflessione sull' evoluzione dell' architettura economica e politica dell' Unione. La Bce interverrà sul mercato dei titoli pubblici per calmare i tassi di interesse sul debito di Paesi sotto stress.
La Bce lo farà, secondo la formulazione del presidente e del suo staff, non per salvare Stati indebitati, ma al fine di permettere il funzionamento della politica monetaria: per comprimere le grandi differenze tra le condizioni del credito dei Paesi dell' Unione così come sono andate a manifestarsi da un anno a questa parte. Tali interventi trovano la propria giustificazione in un' analisi secondo cui le differenze tra i tassi non rifletterebbero solo la capacità dei Paesi di rispettare gli obblighi con i creditori, ma sarebbero anche il sintomo di una sfiducia di questi ultimi sulle possibilità di sopravvivenza dell'euro. La sfiducia sarebbe verso l' insieme dell' Unione e verso i mezzi che si è data per combattere quella crisi finanziaria che ha colpito non solo noi ma tutto il mondo. A differenza di quanto dice la parte più conservatrice dell' establishment tedesco, la Bce ammette quindi che l' azione del mercato genera tassi di interesse distorti che vanno corretti.
Un altro elemento importante della nuova politica della Banca centrale è il fatto che rinuncerà al suo stato di creditore privilegiato, stato che preoccupava gli altri sottoscrittori del debito, in parte vanificando l' effetto degli interventi fatti nel passato: nel caso in cui una ristrutturazione del debito fosse necessaria, dunque, la Bce sarà penalizzata come gli altri creditori. Queste sono novità importanti che dovrebbero costituire un polmone di ossigeno per Paesi come l' Italia e la Spagna, ma - elemento chiave della nuova politica - l' intervento della Bce avverrà solo a certe condizioni. Per beneficiarne, gli Stati dovranno aderire a un programma di riforma e aggiustamento di bilancio che sarà monitorato dalla Bce e dall' insieme dei governi dell' Unione attraverso il fondo salva Stati (Efsf).

La condizionalità degli interventi è necessaria a ottenere l' assenso tedesco e ad alleviare i timori che gli Stati indisciplinati possano usare l' ossigeno che viene dato loro per ritardare le riforme e allentare il rigore di bilancio. La condizionalità ha però un prezzo. Crea incertezze sui tempi e sui modi d' attuazione del programma, sulle responsabilità delle parti e soprattutto sugli effetti politici ed economici di perdita di sovranità degli Stati che si dovranno sottomettere al monitoraggio europeo. L' Italia, che con ogni probabilità dovrà percorrere questa strada, ne sperimenterà presto l' effetto sul suo sistema politico. Ma non c' è solo questo. Il principio della condizionalità sembra contraddire proprio l' analisi su cui l' intervento si basa: se l' Italia paga oggi un tasso di interesse sul suo debito molto più alto rispetto a quello di dieci anni fa, la ragione non è solo il rischio-Italia, ma il rischio sistemico che un' architettura dell' euro incompleta e difettosa ha rivelato in tempi di crisi.
L' azione decisa ma condizionale, promessa da Mario Draghi, è il frutto di un compromesso tra anime diverse di un' Europa che non si pensa ancora insieme.
Il compromesso è un passo avanti perché dà il tempo di lavorare su altri fronti e in particolare su quello dell' unione bancaria che dovrebbe aiutare a frenare quel processo di rinazionalizzazione dei mercati finanziari che sta distruggendo le basi fondamentali del progetto europeo, rendendo cosi difficile al Sud fare ripartire il credito. Ma non basterà. Per ripartire, l' Europa ha bisogno di innescare un processo di aggiustamento macroeconomico che non sia solo basato sul rigore dei Paesi indebitati. L' aggiustamento deve coinvolgere e responsabilizzare il Nord come il Sud e deve poggiarsi su politiche espansive al Nord che sostengano la ripresa in tutta l' Unione. Allo stesso tempo deve essere permesso un abbattimento graduale del debito. Gli ostacoli alla formulazione di politiche comuni stanno senz' altro negli interessi economici che dividono creditori da debitori, ma anche nella differenza culturale tra un' area conservatrice europea - non solo tedesca - e un' area più progressista che si ispira al modello keynesiano anglosassone. È bene che queste differenze vengano fuori esplicitamente e che accompagnino quel processo politico di maggiore integrazione senza il quale l' Europa non è possibile. Ma, come insegnano gli avvenimenti seguiti alla Prima Guerra Mondiale, i debitori hanno poca voce in capitolo.


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giovedì 2 agosto 2012

Serena Capodicasa, trasparenza a Verona

Nella parte del programma di Tosi “Il Comune per il cittadino” viene posta l’attenzione alla “trasparenza dell’azione amministrativa, intesa come accessibilità totale delle informazioni”. In tale programma è riportato in parte l’art. 11 del D. Lgs n. 150 del 2009 che alla fine del primo comma recita “allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità”.
La trasparenza totale, intesa come accessibilità ai dati ed alle informazioni relative al governo della città, consente di co-creare valore con la partecipazione dei cittadini alla gestione dei servizi. Per realizzare questo obiettivo è necessario che i cittadini siano compiutamente informati dal Comune di Verona, il quale è tenuto a rendere trasparenti tutti i dati e le informazioni inerenti l’organizzazione e la performance dei servizi erogati. In assenza di tale fattore i cittadini ed i soggetti interessati non sono in grado di partecipare alla gestione dei servizi con proposte, interventi, indagini, ricerche e studi.
Nel sito del Comune non risultano le informazioni riguardanti gli aspetti dell’organizzazione, le fasi del ciclo di gestione della performance, il sistema di misurazione e valutazione, gli indicatori di efficienza e di efficacia, l’utilizzo delle risorse in rapporto agli obiettivi programmati, le attività del nucleo di valutazione (decisioni, relazioni, proposte, pareri) ed altro.
Il Comune di Verona non si è dotato degli strumenti, indicati dal decreto, che consentono la realizzazione della trasparenza totale. Infatti,  non ha introdotto il piano e la relazione della performance, dichiarando che l’insieme dei documenti del sistema di pianificazione e controllo  del Comune costituiscono il piano e la relazione della performance, con effetti negativi nei confronti dei cittadini che non sono messi nelle condizioni di conoscere i contenuti specificati dall’art. 11 del decreto. Gli attuali strumenti di pianificazione del Comune (Peg, Pdo e altri), molto complessi e descritti in migliaia di pagine, non permettono ai cittadini veronesi di conoscere gli obiettivi programmati, gli scostamenti, i risultati conseguiti dal Comune e l’uso delle risorse. Pertanto, si ritiene che l’art. 11 del decreto non è stato ancora realizzato.
Inoltre il piano triennale della trasparenza del Comune è troppo generico, non indica l’oggetto della trasparenza ed i tempi di realizzazione.
Nella terza circoscrizione è stato posto all’attenzione il tema della trasparenza delle sedute del Consiglio Circoscrizionale con una mozione presentata dal consigliere di circoscrizione Serena Capodicasa e sottoscritta dagli consiglieri del Pd.
La mozione di Serena è finalizzata  ad effettuare riprese audio video delle sedute del Consiglio di Circoscrizione attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie di comunicazione ed informazione.
"Noi vogliamo dare la possibilità ad ogni cittadino, qualora lo volesse", dichiara Serena Capodicasa, consigliere del PD, di visionare i lavori del Consiglio di Circoscrizione, per conoscere gli argomenti di discussione, per verificare l'attività dei consiglieri votati, per sentire l'amministrazione pubblica ancora più vicina. Siamo nel 2012, e non è accettabile che i consiglieri di maggioranza ritengano che la possibilità di riprendere le sedute sia un argomento di secondo piano e che abbia più aspetti negativi che positivi. Riteniamo sia opportuno dare ai cittadini, in questo momento storico, un segnale di trasparenza rispetto al nostro operato, e questo è migliore dei modi".
Il Presidente della Circoscrizione, Massimo Paci, ha espresso la sua posizione contraria alla mozione e la maggioranza formata dalla Lista Tosi e dalla Lega Nord hanno votato contro la  proposta a favore delle riprese audio video, negando quindi ai cittadini la possibilità di seguire le sedute via web.
I Consiglieri della maggioranza non si rendono conto che così facendo allontano i cittadini dalle istituzioni in un momento di grave crisi nei rapporti tra i partiti e le istituzioni da una parte ed i cittadini dall’altra.
Inoltre, la maggioranza non tiene conto che la trasparenza totale ha un rapporto inversamente proporzionale con la corruzione: più alta è la trasparenza e più basso è il tasso di corruzione. La politica della falsità,  delle bugie e dell’opacità hanno causato nel tempo effetti devastanti. Si ricorda per ultimo il crollo dei mercati finanziari causato dalle banche che hanno collocato mutui subprime presentati ai risparmiatori come sicuri.
La trasparenza viene realizzata a Verona da Tosi e Lega soltanto dal punto di vista formale e delle enunciazioni ……….

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mercoledì 1 agosto 2012

Ermes Ponti: dalla bottega all’impresa di qualità

Intervista a Paolo Ponti a cura di Antonino Leone in corso di pubblicazione su Sistemi e Impresa settembre 2012
 Dietro il successo di un’impresa vi è quasi sempre la storia, i sacrifici e la visione innovativa delle persone che hanno saputo immaginare e costruire il futuro.
I momenti più difficili di un’impresa familiare sono il passaggio generazionale in quanto i successori devono farsi carico del patrimonio di conoscenze che l’impresa rappresenta e coniugarlo alla domanda ed alle esigenze del mercato.
In Ermes Ponti il passaggio generazionale, da Walter a Paolo Ponti, è avvenuto in un continuo, superando gli ostacoli ed i problemi che senz’altro si sono presentati.  
L’avventura della famiglia Ponti inizia nel 1937 quando Walter apre, insieme ad un fratello, un laboratorio di falegnameria.
Più tardi Walter continua ad impegnarsi nel settore con un proprio laboratorio ed investe nell’acquisto di macchinari. L’azienda si consolida e produce mobili che “avevano un certo stile e gusto moderno che li differenziava dall’offerta allora disponibile”.
Nel 1957 avviene una grande innovazione: “Walter fu contattato da un rappresentante di poliestere, allora utilizzato per impermeabilizzare auto e barche. Secondo il rappresentante se appositamente modificato, poteva essere utilizzato anche per i mobili. Seguirono alcuni mesi di sperimentazione, durante i quali Walter ne migliorò l’affidabilità, trasformandolo prima in vernice e poi in prodotto industriale”.
L’azienda presentò tale prodotto innovativo alla Fiera Campionaria di Milano e venne conosciuta anche fuori dell’ambito territoriale di Mantova. 
Alla fine degli anni ’60 Ermes succede al padre Walter e realizza una produttiva collaborazione con
Gio Ponti, famoso designer e architetto milanese, che consente di introdurre nell’impresa  l’importanza del progetto, del design, dell’innovazione non solo nel fare, ma anche nel pensare il prodotto”.
Si arriva così a Paolo Ponti, architetto, che decide di impegnarsi nell’azienda di famiglia. Da questo momento in poi nell’azienda vengono introdotte le best practice manageriali.


Paolo Ponti, come qualsiasi azienda di successo, ha dovuto ridisegnare i fattori essenziali dell’organizzazione dell’impresa: adattamento continuo all’incessante cambiamento del pianeta; leadership cooperativa; organizzazione snella e veloce; strategia con obiettivi chiari e tempi certi; metodo di lavoro e processi di produzione di qualità;  l’uso delle energie e delle risorse in direzione del cambiamento e non della difesa dello status quo.
Per capirne di più ne parliamo direttamente con l’architetto Paolo Ponti.
Quali sono state le motivazioni che l’hanno indotta ad entrare nell’azienda di famiglia e le condizioni che eventualmente ha posto per effettuare tale scelta?
La motivazione principale è stata la responsabilità che ho sentito nei confronti della gente che lavorava in azienda; una trentina di famiglie, quasi tutte del territorio, da San Biagio a San Benedetto Po, nella bassa mantovana; ci sono dei maestri falegnami che lavorano qui da quando avevano quattordici anni; molti vengono a lavorare in bici, abitano qui in paese, sono famiglie monoreddito.
Sono artigiani molto bravi che hanno ancora dieci quindici anni di lavoro e possono formare una nuova generazione di falegnami -come li intendo io- “falegnami evoluti”; una figura che sa coniugare la migliore tradizione artigianale italiana con le tecnologie d’avanguardia in questo settore.
Quale era la sua visione iniziale da introdurre nell’azienda?
La mia visione è quella della grande famiglia o della piccola cellula sociale; un micro mondo felice dove le persone lavorano per crescere; non solo per portare a casa lo stipendio o andare in pensione prima possibile, ma per realizzarsi professionalmente e relazionarsi umanamente in modo positivo. In questo senso ho pensato alla figura del “falegname evoluto”, non più come operaio con un ruolo puramente esecutivo, ma come artigiano consapevole e responsabile della qualità eccellente del suo lavoro,  che partecipa della progettazione esecutiva degli arredi che costruisce e poi va ad installare nelle città di tutto il mondo.
Quali cambiamenti ha introdotto nell’azienda?
Fin dal mio primo ingresso in azienda ho cercato di creare un’organizzazione del lavoro flessibile che ci consentisse di essere più performanti rispetto alle richieste del mercato.
Per ottenere questo risultato ho cercato di unificare il processo progettuale e quello produttivo, massimizzando la qualità del progetto e del prodotto e minimizzando i tempi e i relativi costi; i risultati in questi ultimi anni sono stati davvero incoraggianti; per i nostri clienti ancor più che per noi: questo è il motivo della evidente fidelizzazione della nostra clientela che si evince anche semplicemente leggendo le referenze degli ultimi anni.
Considerata la crisi economica che mette in evidenza i problemi di sopravvivenza delle imprese, la sua impresa quali fattori utilizza per superare tali difficoltà? 
La crisi attuale è stata per noi quasi una benedizione; è la crisi che ci ha fatto cambiare, cercare nuovi esigenti clienti, e gli strumenti progettuali, organizzativi e produttivi per soddisfare le loro esigenze.
Più che a una crisi passeggera credo che ci troviamo di fronte ad un cambiamento epocale; nel nostro piccolo noi cerchiamo tutti i giorni di offrire un servizio-prodotto di qualità eccellente ad un prezzo competitivo.
Ci ispiriamo ogni giorno agli studi che abbiamo fatto del rinascimento italiano e ai metodi straordinari con i quali funzionavano le nostre botteghe rinascimentali; l’amore per il proprio lavoro portato all’eccellenza fino a far sconfinare l’artigianalità in arte questo dobbiamo riscoprire come sostengono da anni quelli dell’associazione The Renaissance Link, alla quale abbiamo aderito un anno e mezzo fa per la straordinaria affinità che ci lega ai punti fondamentali del loro manifesto; consiglio a tutti di leggerli nel sito e nei saggi introduttivi ai libri che hanno prodotto raccogliendo 20 positive esperienze di aziende italiane oggi, tra le quali  anche la nostra.
Come viene attuata la ricerca e l’innovazione  di prodotto nella sua impresa al fine di mantenere un livello di competitività accettabile?
Noi progettiamo e produciamo tutti i giorni commesse custom-made; ogni progetto è una ricerca e ogni realizzazione è un’innovazione in qualche suo aspetto: non esiste soluzione di continuità tra progetto, prodotto e ricerca.
Spesso la competitività è una delle “condizioni al contorno” da rispettare per risolvere l’equazione di uno specifico progetto.
Quali sono le competenze distintive della sua impresa molto apprezzate dal mercato?
La competenza che ci distingue sul mercato è l’unificazione delle competenze progettuali e architettoniche e di quelle esecutivo-produttive con una gestione del cantiere totalmente integrata. Abbiamo unito teoria e pratica, come diceva il Vasari. Un unico referente, competente e responsabile di tutto.
La dispendiosità del nostro sistema contract tradizionale sta oggi proprio nella separazione netta tra competenze progettuali e competenze pratiche; questo crea dei “mostri” di inefficienza  che il mercato - fortunatamente-   fa sempre più fatica ad accettare e, dispendiosamente,   finanziare.
Che tipo di leadership esercita nell’impresa e quali sono i rapporti con il personale per conseguire gli obiettivi programmati ed un prodotto di qualità?
Io non mi sento un leader, ma un padre di famiglia; i rapporti con la mia gente sono rapporti di lunghissima data costruiti con una lunga esperienza lavorativa fianco a fianco; a otto anni, dopo la scuola, andavo a lavorare in bottega e ancora oggi, in installazione, mi tolgo la giacca e lavoro con loro.
Sono io che decido in azienda ma li ascolto tutti, uno per uno; idee, obiettivi, problemi.
Un giorno qualcuno mi disse che un vero imprenditore sa ascoltare tutti e decidere, responsabilmente,  da solo.
Considerato che la sua impresa compete a livello internazionale, le chiedo cosa pensa della globalizzazione e quali sono i fattori che utilizza nella competizione globale?
Come dicevo condivido sinceramente l’ottimismo realistico con il quale tanti studiosi – primo fra tutti Francesco Morace che ha un blog su nova 24-  vedono il futuro del Made in Italy.
Nonostante gli sprechi e la cattiva gestione endemica dei nostri governi, in Italia abbiamo un patrimonio culturale, ambientale, industriale invidiabile che se fosse meglio gestito o meno ostacolato, ci potrebbe far diventare in poco tempo leader mondiali in tanti campi…
I motivi che hanno reso possibile l’internazionalizzazione della ermesponti, come di molte altre piccole grandi aziende del Made in Italy, sono essenzialmente due; l’eccellenza della qualità prodotto/servizio offerto e la competitività del relativo costo, comparato con quello prodotti più scadenti.
Credo che la globalizzazione sia una sfida da vincere con le armi delle nostre piccole grandi imprese affilate dalla nostra millenaria cultura, dal nostro innato senso del bello e del benfatto, dal nostro inestimabile know-how produttivo sia artigianale che industriale.
Ovunque nel mondo i clienti chiedono la stessa cosa: la qualità più alta ad un prezzo competitivo.
Credo che questo amore per l’eccellenza ad un prezzo adeguato e contenuto sia la strada dell’italian way; non tutti potremo comprare una Ferrari, ma un Illy caffè…

La foto del post è di Martino Lombezzi, Contrasto, Milano.

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