martedì 29 maggio 2012

L’attività delle Nuove Br non è terrorismo!

Articolo di Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera del 29 maggio 2012
Caro Direttore, fin dall’inizio, dal primo grado del processo contro gli appartenenti alle “nuove Brigate Rosse”, che si è concluso ieri con la seconda sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano, ho proposto a ciascuno degli imputati di rinunciare alla mia costituzione in giudizio contro di loro, in cambio del puro e semplice riconoscimento del mio diritto a non essere aggredito. Ieri, durante l’ultima udienza del processo, ho ripetuto quella mia offerta di conciliazione e di dialogo. La risposta del loro leader, Alfredo Davanzo, è stata: “Questo signore – che sarei io – rappresenta il capitalismo, lui è l’esecutore di questo sistema e noi eseguiremo il dovere di sbarazzarci di questo sistema”. Dove “sbarazzarci” è evidentemente un eufemismo, mentre l’accento sinistro della frase sta tutto in quell’“eseguiremo”. In ogni caso, la risposta alla mia proposta è stata chiara: “non ti riconosciamo il diritto a non essere aggredito”. E la stessa minaccia ha numerosissimi destinatari, poiché di “esecutori di questo sistema” in giro per l’Italia ce ne sono evidentemente molti altri.A questo punto qualcuno potrebbe sorprendersi che il processo si sia poi concluso con una sentenza che riconosce gli imputati colpevoli, sì, di associazione sovversiva (articolo 270 del codice penale), ma non di terrorismo (articolo 270-bis). Ma chi è addentro nelle cose della giustizia italiana si è sorpreso un po’ meno di questo esito. È plausibile, infatti, che con questa decisione la Corte d’Assise d’Appello abbia inteso conformarsi alla sentenza con cui il 2 aprile scorso la Cassazione aveva annullato la prima decisione, del 2010, della stessa Corte d’Assise, nello stesso processo, nella quale invece le finalità di terrorismo erano state riconosciute. In sostanza, la Cassazione imputava alla Corte milanese di non avere sufficientemente individuato e dimostrato, nel comportamento dei questi brigatisti, “il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l’intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri”, oppure “la volontà di destabilizzare” o addirittura “distruggere gli assetti istituzionali del Paese”. Dunque, progettare un attentato alla sede di un grande quotidiano nazionale e un agguato mirato a ferire o uccidere una persona qualsiasi, assunta quale “rappresentante del capitalismo”, secondo questa nuova giurisprudenza, non è di per sé “terrorismo”. Resta il problema di capire che cosa, allora, secondo la Corte di Cassazione, sia “terrorismo”.
Se non è “terroristico” quel progetto dei nuovi brigatisti, ancor meno può qualificarsi come tale quello degli anarchici che a Genova hanno ferito il dirigente dell’Ansaldo di Genova Roberto Adinolfi. Questi ultimi infatti confessano di non credere nel valore politico della loro azione violenta, ma di farlo soltanto per motivi esistenziali e di auto-gratificazione: “impugnando la pistola abbiamo solo fatto un passo in più per uscire dall’alienazione”; “con una certa gradevolezza abbiamo armato le nostre mani, con piacere abbiamo riempito il caricatore [...] scegliere e seguire l’obiettivo, coordinare mente e mano sono stati un passaggio obbligato, la logica conseguenza di un’idea di giustizia, il rischio di una scelta e nello stesso tempo un confluire di sensazioni piacevoli”; “non cerchiamo consenso, ma complicità”. Qui c’è principalmente la soddisfazione di una qualche pulsione sadica, ma con un’esplicita rinuncia a perseguire concretamente e credibilmente effetti politici generali. Gli attentatori di Genova mostrano una piena consapevolezza della propria incapacità di “esercitare costrizione sui pubblici poteri” o, tanto meno, di “destabilizzare o addirittura distruggere gli assetti istituzionali del Paese”.
Ancor meno, probabilmente, potrà ravvisarsi un siffatto intendimento politico nell’attentato di Brindisi contro un istituto scolastico, dal momento che chi l’ha compiuto non lo ha in alcun modo esplicitato: come potrebbe “destabilizzare o distruggere gli assetti istituzionali del Paese” un attentatore che neppure fa conoscere all’opinione pubblica tale suo preciso intendimento? Neppure lì, dunque, può essersi trattato di terrorismo.
A ben vedere, questo è un bene per il Paese: tra le tante piaghe da curare, almeno questa del terrorismo non ce l’abbiamo più.

Leggi tutto...

lunedì 28 maggio 2012

Nomine a Verona: lottizzazione o nuovo percorso?

La campagna elettorale si è chiusa con la vittoria di Flavio Tosi e la sconfitta di Michele Bertucco, la Giunta Comunale è stata nominata ed il Consiglio Comunale è stato convocato il giorno 28 maggio per le prime formalità. Adesso rimane da affrontare il nodo delle nomine nelle società partecipate o controllate dal Comune. Tutto lascia presupporre che il processo di nomina rimarrà inalterato e, quindi, si procederà con la lottizzazione del potere, il cumulo delle cariche di cui il centro destra è specialista in materia ed il conflitto di interessi.
La maggioranza di Tosi non pensa minimamente che gli equilibri passati hanno prodotto il caso Soardi, la parentopoli veronese ed una gestione non trasparente dei servizi pubblici locali.
Ancora una volta vengono tradite le aspettative e la domanda di partecipazione dei cittadini veronesi e l’esigenza di introdurre nella gestione amministrativa la trasparenza, le competenze e la valutazione indipendente.
Nel periodo post elettorale si registrano alcune dichiarazioni interessanti come principi ma ancora non operative: taglio delle spese, sganciare le nomine dalla politica ed altro. Tutto questo va concretizzano con proposte operative ed efficaci da presentare in Consiglio Comunale altrimenti si rischia la teorizzazione dei problemi.
Intanto si registra un avvenimento molto importante: la sottoscrizione della Carta di Pisa da parte dei consiglieri comunali del Pd e Sel. Questo fatto avrà senz’altro influenza sulle nomine in quanto i consiglieri del centro sinistra si conformeranno alle regole del Codice di Pisa.
Gli articoli del Codice di Pisa che interessano le nomine sono i seguenti:
- Cumulo
L'amministratore deve adeguarsi nel più breve tempo a qualsiasi regolamentazione in vigore volta a limitare il cumulo dei mandati politici, evitando strategie dilatorie volte a posticiparne l’applicazione.
L'amministratore deve astenersi dall'esercitare altri incarichi politici che interferiscano indebitamente con l’esercizio del proprio mandato.
L'amministratore deve astenersi dall'assumere o esercitare cariche, professioni, mandati o incarichi che implichino un controllo sulle sue funzioni amministrative o sui quali, in base alle sue funzioni di amministratore, egli avrebbe il compito di esercitare una funzione di controllo.
- Nomine in enti, consorzi, comunità e società pubbliche o a partecipazione pubblica
L’amministratore deve condizionare qualsiasi nomina, effettuata singolarmente o collegialmente, presso Enti, Consorzi, Comunità e società pubbliche o a partecipazione pubblica, alla preliminare adesione dei soggetti da nominare al presente Codice. L’amministratore deve altresì vigilare sulla successiva adesione a tali disposizioni da parte dei soggetti nominati e, in caso di mancato rispetto, porre in essere tutte le iniziative necessarie al fine di assicurarne l’ottemperanza ovvero sanzionarne l’inadempimento, conformemente a quanto previsto dall’art. 21 del presente Codice. L’amministratore deve altresì procedere a tali nomine, qualora queste richiedano competenze di natura tecnica, a seguito di un bando di valutazione comparativa dei candidati, mediante provvedimento motivato in base al parere ovvero alla designazione di un comitato di garanzia.
Tali regole sconvolgono il vecchio iter procedurale che si basava sull’appartenenza politica ad un partito o ad una corrente e sulla fedeltà al personaggio politico proponente. Ovviamente le competenze e la valutazione indipendente non erano tenute in considerazione.
Nella conferenza stampa di sabato scorso Michele Bertucco, capo gruppo del Pd in consiglio comunale, ha dichiarato in modo chiaro che il gruppo sta preparando una proposta di modifica del regolamento che disciplina le nomine, il quale non prevede meccanismi di trasparenza e di verifica dei curriculum e dei requisiti dei candidati.
L’art. 1, punto 4 lettera a), recita “Possono presentare candidature: a) i componenti del Consiglio Comunale e gli Assessori; b) ….”.
Tale regola non consente ai cittadini veronesi in possesso dei requisiti di professionalità e di probità richiesti di presentare la propria candidatura indipendente nei consigli di amministrazione delle società controllate dal Comune in quanto ogni candidatura deve essere sottoscritta dai consiglieri comunali.
Le regole in atto producono la lottizzazione del potere tra i gruppi presenti in consiglio comunale attraverso il seguente iter:
- La scelta dei candidati avviene  all’interno dei gruppi politici  e, pertanto, ogni gruppo consiliare stabilisce le proprie candidature in rapporto ai posti assegnati;
- Le candidature di ciascun gruppo consiliare vengono individuate dal Sindaco dalla sottoscrizione di ciascuna candidatura  apposta dai consiglieri comunali;
- La individuazione dell’appartenenza politica di ciascuna candidatura permette al Sindaco di effettuare e di assegnare la rappresentanza nei consigli di amministrazione ai gruppi presenti in Consiglio Comunale.
Tale sistema, spoil system e sottoscrizione delle candidature, perpetua la lottizzazione del potere da parte dei partiti, escludendo la trasparenza e la valutazione indipendente delle competenze dei candidati negli organi delle società controllate dal Comune.
Occorre modificare il regolamento comunale che disciplina le nomine con poche regole efficaci per regolamentare la scelta dei candidati al fine di privilegiare la trasparenza e la valutazione delle competenze:
- Possibilità per i cittadini veronesi in possesso dei requisiti richiesti di presentare la candidatura nei consigli di amministrazione delle società pubbliche senza la sottoscrizione dei consiglieri comunali;
- Pubblicazione dei c.v. delle persone che hanno presentato la candidatura;
- Introduzione del colloquio pubblico nel quale i candidati sono chiamati a discutere del loro curriculum, competenze, eventuali incompatibilità e conflitti di interesse. Questa procedura scoraggerebbe la presentazione di candidature non all’altezza dei compiti richiesti;
- Istituzione di una commissione indipendente di valutazione dei c.v. e dei colloqui.
La scelta degli amministratori nelle società controllate dal Comune è una scelta strategica in quanto si ripercuote sulle scelte aziendali, sulla qualità dei servizi pubblici locali e sul livello di benessere dei cittadini. La scelta di effettuare delle nomine soltanto per il controllo politico e non per le competenze è una scelta inadeguata rispetto ai problemi complessi di una società in continua evoluzione che richiede conoscenze e competenze.
Un altro problema da affrontare è quello della governance e della moltiplicazione delle società di gestione dei servizi pubblici locali: 4 società controllate da Agsm (AGSM Energia spa, AGSM Distribuzione spa, AGSM Trasmissione srl e Consorzio Industriale G. Camuzzoni scarl), 3 società di trasporto pubblico locale di cui due non più operative (Amt e Aptv) che costano annualmente solo per le retribuzioni degli organi circa 356 mila euro, 4 società partecipate da Amia (Ser.it 99,74%, Transeco 57%, Drv 48% e Consorzio G.P.O. 4,19%).
Occorre tenere presente che gli organi delle società controllate indirettamente dal Comune vengono nominati dalle società di primo livello che le hanno costituite. Di queste società non sono resi pubblici i bilanci e la qualità dei servizi. Nell’unica società operativa del trasporto pubblico locale ATV, essendo una società controllata da Amt e Aptv,  non è rappresentata la minoranza che è presente in Amt cioè nella società comunale che non gestisce più il trasporto pubblico locale. 



Leggi tutto...

domenica 27 maggio 2012

Verona, Pd e Sel sottoscrivono la Carta di Pisa

I consiglieri Comunali del Pd e di Sel nella conferenza stampa di ieri hanno sottoscritto il Codice etico e assunto l’impegno di proporne la sottoscrizione al Consiglio Comunale.  Il Codice Etico è proposto dall’Associazione Avviso Pubblico, impegnata nella lotta contro la corruzione e le mafie, sottoscritto per la prima volta dal sindaco di Pisa Marco Filippeschi.
La lotta alla corruzione ed alle mafie sono problemi che interessano anche Verona e le altre città del Nord.
Il comune di Verona, come tanti altri Comuni, potrebbe aderire alla Associazione Avviso Pubblico.
In campagna elettorale il centro sinistra aveva preso l’impegno con i cittadini veronesi di ispirarsi nell’attività politica ai fattori della trasparenza, della partecipazione e  delle competenze. Fattori questi che possono cambiare il volto di Verona nella gestione dell’attività amministrativa e dei servizi pubblici locali. I comportamenti dei consiglieri comunali se ispirati alla correttezza, alla probità ed alla trasparenza possono cambiare in meglio i contenuti dell’attività politica e recuperare il rapporto tra le istituzioni ed i cittadini.
I consiglieri che hanno sottoscritto il codice sono:  Michele Bertucco, Vincenzo D´Arienzo, Stefano Vallani, Luigi Ugoli, Elisa La Paglia, Orietta Salemi e Fabio Segattini del PD e Mauro De Robertis di Sel.
La Carta prevede diverse forme di adesione, non è necessaria una votazione collegiale. Può essere adottata dall'intera amministrazione o solo dal Sindaco; dalla Giunta o dal singolo assessore; dall'intero consiglio comunale oppure dai singoli consiglieri, e chiama in causa anche i rappresentanti nominati nelle aziende pubbliche e partecipate.

Tutto quello che si deve fare è dichiarare la propria adesione al primo consiglio utile e sottoscrivere pubblicamente la Carta impegnandosi all'adempimento delle sue disposizioni. Disposizioni che, rispetto al Codice Etico raccomandato dall'Ue, sono ancora più stringenti in fatto di trasparenza e partecipazione, regolando minuziosamente tutti gli aspetti inerenti all'attività politica, dai regali ricevuti a possibili forme di clientelismo; dal conflitto di interessi al cumulo delle cariche.
Agli amministratori è fatto divieto di ricevere finanziamenti e altre forme di sostegno della propria attività politica da parte di concessionari o gestori di pubblici servizi oppure di privati che hanno rapporti di natura contrattuale con l'amministrazione. Viene invece fatto obbligo di stabilire un rapporto di fiducia e collaborazione con i cittadini, ai quali devono rendicontare almeno una volta all'anno, con l'autorità giudiziaria, con i mezzi di comunicazione e naturalmente con l'amministrazione stessa.
In caso di rinvio a giudizio o di applicazione di misure di prevenzione personale o patrimoniale per reati di corruzione, concussione, mafia, estorsione, riciclaggio, traffico illecito di rifiuti, l'amministratore è tenuto a dimettersi.
La mancata osservanza del Codice da parte di un amministratore deve spingere gli altri sottoscrittori  (o in loro luogo i cittadini o i portatori di interessi) ad applicare le sanzioni previste dal Codice, che vanno dal richiamo formale alla censura pubblica fino alla revoca della nomina o del rapporto fiduciario.
I consiglieri comunali che sottoscrivono il codice etico si impegnano a perseguire la trasparenza, la   partecipazione ed a rendicontare ai cittadini l’attività che svolgono. Inoltre, la carta prevede il divieto del cumulo delle cariche amministrative, del clientelismo e degli incarichi che possano generare conflitto di interesse.

Leggi tutto...

venerdì 25 maggio 2012

Festa della Polizia, ecco perché noi non ci saremo

Articolo di Silvano Filippi, segretario regionale Siulp Veneto, pubblicato sul Corriere di Verona il 25 maggio 2012
Negli anni scorsi avevamo evitato di esprimere pubblicamente il nostro dissenso in occasione della celebrazione della Festa della Polizia. L’istinto della protesta era stato contenuto dal senso di responsabilità. Quest’anno però è davvero difficile tacere di fronte a festeggiamenti che da un lato stridono con i drammi della quotidianità, e dall’altro con la precarizzazione dell’operatività della Polizia di Stato impegnata a confrontarsi diuturnamente con una infinita sequela di carenze di risorse, umane ed economiche. Non si tratta di una presa di posizione contro i Questori. Non stavolta, almeno.
Perché stavolta la nostra ira è rivolta a quel Governo “sedicente” tecnico che, a dispetto delle premesse, altro non ha fatto se non assicurare la continuità con il più deteriore metodo “politichese”. Nella sostanza si continua cioè ad abbondare in chiacchiere per nascondere l’incapacità, o peggio, la non volontà, di tradurre gli annunci in fatti concreti.
E così, mentre i Poliziotti, a causa dei noti tagli al bilancio, sono costretti a pagarsi le uniformi, la cancelleria, i pasti, e financo ad anticipare le spese per le missioni, per organizzare la Festa della Polizia a Roma si sciala senza il minimo scrupolo. Ben 250 allievi delle Scuole di Polizia ed altre svariate decine di uomini sono stati impiegati per tutto il mese di maggio per le prove di marcia e di schieramento in armi. Spendere centinaia di migliaia di euro per un paio d’ore di patetica parata, soprattutto in questo periodo storico, è a nostro avviso immorale. Siamo di fronte all’ennesima riproposizione di un rito stantio utile solo a compiacere un establishment incapace di guardare oltre le finestre della torre d’avorio su cui si è arroccato.
Un rito replicato poi in ciascuna provincia dai rispettivi Questori, i quali, per organizzare una celebrazione il più possibile autorevole, mancando le risorse, sono stati costretti ad andare a elemosinare soldi da sponsor ora per il noleggio del palco, ora per il buffet, per non sfigurare al cospetto della solita ristretta cerchia delle “Autorità” invitate.
A tutto questo si accompagna l’amarezza per un esecutivo che, invece che andare ad incidere sugli sprechi da noi ripetutamente denunciati, propone deliranti soluzioni quali chiudere una ventina di Questure. Ma evita accuratamente di occuparsi delle migliaia di inutili e costosi presidi a distanza di poche centinaia di metri l’uno dall’altro, dei 60 milioni di euro spesi ogni anno per impiegare l’Esercito in servizi di pattuglia del tutto privi di efficacia, dei tremila poliziotti impiegati per i rinnovi dei permessi di soggiorno, attività che in tutti i Paesi “evoluti” è affidata agli enti territoriali, nonché della vergogna nazionale delle centinaia di scorte concesse a soggetti che l’unico rischio che corrono è quello di doversi pagare la benzina il giorno in cui dovessero essere privati di questo malcelato irritante benefit.
Ecco perché noi, in questa Polizia lontana dalla sensibilità dei cittadini e dalle esigenze dei Poliziotti, una Polizia che non riesce a rinunciare ad autocelebrarsi in un momento in cui il Paese è attraversato da una serie di criticità di inaudita gravità, non ci riconosciamo.
E siccome è evidente a questo punto che la Festa di questa Polizia tutto è tranne che la festa dei Poliziotti, a questa festa i segretari provinciali di tutto il Veneto, in quanto Poliziotti, non parteciperanno.

Leggi tutto...

giovedì 24 maggio 2012

Eleonora Voltolina, condizioni degli stagisti e dei precari

Intervista a Eleonora Voltolina a cura di Antonino Leone pubblicata su Sistemi e Impresa n. 5, maggio 2012
Eleonora Voltolina, giornalista professionista, ha creato e dirige la testata online Repubblica degli Stagisti. Nata a Roma nel 1978, cresciuta a Venezia, laureata in Scienze della comunicazione, alla “Sapienza”, oggi vive e lavora Milano. Nel luglio 2010 è uscito per Laterza il suo libro “La Repubblica degli stagisti” sottotitolo “Come non farsi sfruttare”, cui ha fatto seguito nel marzo del 2012 “Se potessi avere mille euro al mese” per la stessa casa editrice. A livello europeo ha contributo a stilare la Carta europea per la qualità di stage e praticantati. Le sue ricerche sono state utilizzate per la presentazione di interrogazioni parlamentari e la stesura di proposte di legge, e nel 2011 è stata chiamata dalla Commissione lavoro della Camera dei Deputati per un’audizione sulla condizione giovanile, nell’ambito di una indagine sul mercato del lavoro in ingresso. Ha collaborato con Panorama e con Il Fatto quotidiano.
Gli effetti della crisi economica e finanziaria del nostro paese si ripercuotono in modo grave sui ceti più deboli (disoccupati, cassaintegrati, pensionati) e particolarmente sui giovani e sui precari, i quali hanno perso il diritto di costruire il proprio futuro. Dei problemi dei giovani ne abbiamo parlato con Eleonora Voltolina, la quale sta dedicando il suo impegno con Repubblica degli stagisti a favore dei giovani che in questo momento non intravedono prospettive positive nella loro vita professionale.
Come è nata la sua passione per il giornalismo?
A dir la verità sono entrata in questa professione un po’ per caso. Nel 2005 un amico si era iscritto al concorso per entrare all’Ifg, la scuola di giornalismo “storica” di Milano, e aveva convinto anche me. Poi la vita è strana, lui non entrò, io invece mi classificai e da lì cominciò il percorso. Ma adesso… penso che non avrei mai potuto fare nient’altro!
Vuole raccontare il suo percorso da giornalista disoccupata a fondatore della testata on line Repubblica degli Stagisti?
Non direi che fossi “disoccupata”, ma sicuramente ero precaria e squattrinata. Collaboravo qui e lì, ma non riuscivo a mettere insieme più di 500-600 euro al mese e soprattutto raramente riuscivo a scrivere dei temi che mi piacevano, perché ovviamente un collaboratore dev’essere sempre disponibile a scrivere quel che gli chiedono. Io ero appassionata di mercato del lavoro ma vedevo che il problema dei giovani sfruttati e sottopagati – già nel 2007/2008, in epoca pre-crisi –  non veniva adeguatamente “coperto” dai media, e il fenomeno degli stage – letteralmente in esplosione – era  ignorato. Così ho deciso di aprire uno spazio su internet dedicato a questo tema, la Repubblica degli Stagisti. Siccome ha avuto un bel successo, dopo poco più di un anno ho deciso di scommetterci: ho creato una piccola srl che ne diventasse la “casa editrice”, l’ho trasformato in sito web, registrato in Tribunale come testata giornalistica, ideato un sistema di finanziamento che permettesse di pagare uno stipendio a me e a tutti i miei collaboratori. Ed eccoci qui: dopo tre anni abbiamo una sede, una dipendente con contratto di apprendistato, sei-sette collaboratori fissi giornalisti, oltre 50 aziende che credono nei nostri progetti aderendovi e sostenendoli. E finalmente nessuno può dirmi “No, di occupazione giovanile non puoi scrivere, non ci interessa”.
Quali sono gli obiettivi che Repubblica degli Stagisti si propone?
Abbiamo cominciato focalizzando le nostre news sul tema degli stage e tirocini, diventando dei veri specialisti. Ma dal 2011 l’obiettivo è diventato ben più ambizioso: raccontare a 360 gradi il mondo dell’occupazione giovanile, con i suoi problemi e le sue opportunità. Da sempre facciamo un giornalismo di approfondimento e alcuni nostri scoop – come i superstage attivati dal Consiglio regionale calabrese nel 2008 oppure i praticantati non pagati presso le avvocature dell’Inps – sono diventati interrogazioni parlamentari. Ma accanto a questo lavoro di denuncia affianchiamo sempre la parte costruttiva. Facciamo lobbying, nel senso nobile del termine: facciamo proposte alla politica, con le imprese, con i sindacati affinché il tema dell’occupazione giovanile sia messo in cima all’agenda. E diciamo sempre che non tutte le imprese sono uguali: i ragazzi devono imparare a riconoscere quelle buone. Ma quelle buone devono impegnarsi di più per farsi riconoscere!
Lei ha pubblicato due libri,  “La Repubblica degli stagisti. Come non farsi sfruttare” e “Se potessi avere 1000 euro al mese. L'Italia sottopagata”. Cosa viene proposto ai lettori nelle sue pubblicazioni?
Un approccio del tipo “conoscere per deliberare”. Entrambi i libri cercano di mettere a nudo un problema – nel primo caso quello degli stage, nel secondo più in generale quello dei giovani sottopagati o costretti addirittura a lavorare gratuitamente – fornendo dati, ricerche, e inframezzandoli con storie vere di vita vissuta. Affinché i numeri non restino lì, astratti, ma vengano calati nella vita di ciascuno di noi. E l’appello ai singoli lettori è sempre quello di agire, di non lasciarsi trascinare dagli eventi, ma di cercare i modi per far sentire la propria voce. Ma in realtà questi libri dovrebbero anche essere letti dai “decisori”, che molto spesso legiferano senza conoscere la realtà concreta.
Quali sono i problemi degli stage in Italia e quali prospettive di cambiamento vi sono all’orizzonte?
Oggi lo stage è al centro di una revisione, ha cominciato il governo Berlusconi a sorpresa nell’estate del 2011 ponendo attraverso un decreto due nuovi paletti – una durata massima di sei mesi per tutti gli stage extracurriculari, e il divieto di attivare stage a favore di persone diplomate o laureate da oltre 12 mesi – e ora il governo Monti sembra intenzionato a riformulare complessivamente tutta la normativa, per ridurre gli abusi ed evitare che lo stage continui ad essere il concorrente sleale del contratto di apprendistato. Ma il tema è molto complesso perché le Regioni rivendicano una competenza esclusiva in materia di formazione, e osteggiano le azioni del governo volte a disegnare un quadro di linee guida nazionali su questa materia. Invece c’è assolutamente bisogno di un quadro unitario, perché non ci sarebbe niente di peggio che avere 20 normative regionali diverse sullo stage, e leopardizzare i diritti e i doveri degli stagisti!
La riforma Fornero contrasta in modo efficace il precariato e facilita la trasformazione del lavoro precario in rapporto di lavoro a tempo indeterminato?
Riformare il mercato del lavoro è certamente un passo che andava fatto da anni e che nessun partito aveva il coraggio di fare, per non rischiare di inimicarsi l’opinione pubblica che su questo tema tende ad essere “conservatrice”, a non volere che siano messi in discussione i diritti acquisiti. Il ministro Fornero ha dunque preso sulle sue spalle una responsabilità che tanti altri prima di lei avevano scansato. Il disegno di legge che ha presentato è interessante, soprattutto per le misure previste come contrasto all’abuso delle odiose tipologie “finte autonome” – cococo, cocopro, partite Iva. Anche se, a mio avviso, si sarebbe potuto fare di più virando più decisamente verso una semplificazione delle tipologie contrattuali, con l’introduzione di un contratto unico a tutele progressive “ichiniano” e di un salario minimo.
Esiste uno spazio di precariato nella professione di giornalista?
Uno “spazio”? Esiste praticamente solo precariato per i giovani che si affacciano alla professione. Nel mio ultimo libro infatti il capitolo dedicato ai giornalisti ha un titolo mesto: “Da quarto potere a quarto stato”. Purtroppo la maggior parte dei giornalisti oggi fa la fame: i dati della cassa previdenziale Inpgi raccontano che i freelance under 40 portano a casa mediamente 6.525 euro, vale a dire 544 euro al mese. Nemmeno sufficienti per la sopravvivenza.
Secondo lei la bassa produttività dell’Italia dipende anche dal lavoro precario e dall’assenza di  investimenti in formazione nei confronti delle persone che non hanno un rapporto di lavoro stabile con l’impresa?
Certamente l’inquadramento instabile non aiuta i lavoratori a stare bene sul posto di lavoro, e quindi a dare il massimo. Come dice l’artista Ascanio Celestini, lavorare con contratti temporanei è un po’ come avere una bomba ad orologeria sotto la sedia, e l’ansia costante di restare in mezzo alla strada se il contratto non verrà rinnovato. Per quanto riguarda la formazione, il contratto di apprendistato è stato negli ultimi 10 anni drammaticamente sottoutilizzato, malgrado tutti i ministri del lavoro abbiano gridato ai quattro venti di volerlo rilanciare. Ora staremo a vedere.
La scelta delle imprese di competere riducendo i costi premia il paese oppure occorre confrontarsi con l’innovazione nel mercato globale?
Questa scelta sta letteralmente distruggendo il Paese. Anche perché sottopagando i lavoratori, questi non avranno più la possibilità di far andare avanti l’economia, comprare oggetti e servizi, andare in vacanza, mangiare fuori. Cercare solo di ridurre il costo del lavoro è un boomerang. Detto questo, la tassazione è davvero troppo alta in Italia: bisognerà lavorare al più presto e con decisione sul problema del cuneo fiscale, cioè della differenza tra il costo che un’impresa sopporta per un dipendente e quanto a quel dipendente arriva effettivamente in tasca alla fine del mese. Ed eliminare alcune vere e proprie perversioni, come l’Irap: che è una tassa che le imprese pagano su ciascun dipendente, quindi che di fatto dissuade i datori di lavoro dall’assumere!

Leggi tutto...

Messaggio a Pietro Ichino

L’economista ed ex senatore dell’Ulivo Franco De Benedetti scrive a Pietro Ichino consigliandogli di proseguire la battaglia dai giornali e dalla cattedra, liberandosi dai vincoli dell’attività parlamentare e dalla disciplina di gruppo. Pietro Ichino risponde con un censimento degli argomenti pro e contro la sua candidatura del prossimo anno. Il senatore Ichino invita i lettori del suo blog a partecipare alla discussione.
Essendo un grande estimatore del senatore Pietro Ichino, ho inviato il seguente messaggio, invitandolo a ricandidarsi nel 2013.
Caro Pietro,
accetto il tuo invito ed esprimo la mia opinione sulla tua eventuale candidatura del prossimo anno.
Dopo aver seguito le tue proposte attraverso la stampa, il tuo blog ed in incontri organizzati a Verona, ritengo che il tuo impegno politico sconvolge lo status quo e prospetta dei cambiamenti eccezionali a favore di coloro che chiedono equità e trasparenza. Alle tue proposte seguono consensi convinti, dissensi costruttivi e dissensi legati alla paura di generare degli effetti non prevedibili e non gestibili con gli strumenti del passato e ad una visione ideologica della società che non tiene conto dei cambiamenti intervenuti nel pianeta. Quest’ultima posizione è rappresentata anche da coloro che sono titolari di privilegi che non intendono perdere a vantaggio dei meno fortunati.
La tua non candidatura significherebbe lasciare spazio nelle istituzioni a coloro che non avvertono la necessità di un nuovo equilibrio equo e responsabile. Inoltre, i lettori del tuo sito, gli elettori e gli iscritti al Pd  che condividono le tue idee rimarrebbero orfani e senza punti di riferimento in settori molto importanti: Lavoro, Pubbliche Amministrazioni ed altri settori.
Non rappresentare più a livello istituzionale le tue proposte non condizionerebbe o non arricchirebbe le scelte future del Partito Democratico nella prossima legislatura e, quindi, ci troveremmo ad accettare supinamente scelte non puntuali rispetto ai tempi che viviamo.
La scelta peggiore di un politico è quella di pensare e di prodigarsi in funzione della propria sopravvivenza. Per tale motivo spesse volte è assente una capacità strategica di medio e lungo termine. Questo non è il tuo caso e per tale motivo sono convinto che la tua candidatura nelle prossime elezioni politiche sia essenziale.
L’alternativa di operare dall’esterno non offre tutte quelle possibilità che un politico serio e competente può utilizzare per avviare il cambiamento necessario nel Pd e nella società. Ricorda tutti gli incontri ai quali hai partecipato ed i semi che hai piantato che non possono essere distrutti dall’erbaccia.
Dopo il Governo Monti occorre una classe politica competente che sappia affrontare i problemi complessi del terzo millennio. La tua candidatura ha questo scopo per il bene del Paese. 

Leggi tutto...

martedì 22 maggio 2012

Italia, cresci o esci

E’ il titolo dell’ultimo libro di Roger Abravanel e Luca D’Agnese, Garzanti, 2012
«Abbiamo compreso, tutti noi italiani, che la situazione è grave. Finalmente si inizia a parlare di crescita: la vera priorità del paese. Non possiamo però illuderci che alcuni provvedimenti del governo possano risolvere per magia tutti i problemi. È da vent’anni che l’Italia non cresce. È dunque necessaria una trasformazione di cui ancora non si è capita la portata.»
In questi mesi abbiamo capito, tutti noi italiani, che la situazione del paese è grave e dobbiamo tutti impegnarci per uscire da questa crisi. Ancora fatichiamo a capire, però, che per risolvere «il caso Italia» non bastano i tagli e le imposte. Per salvare noi stessi e assicurare un futuro ai nostri figli, la regola dev’essere la crescita: senza sviluppo sarà impossibile riconquistare la fiducia dei mercati internazionali, ridurre il debito pubblico e la pressione fiscale, creare nuovi posti di lavoro. Perché questo accada, dobbiamo liberarci dei vecchi pregiudizi (a cominciare da falsi miti come «Piccolo è bello») e rendite di posizione. È necessario superare il tradizionale immobilismo della società italiana, per abbracciare la «cultura della crescita». Serve una rivoluzione, fondata su meritocrazia e rispetto delle regole: non solo perché è moralmente giusto, ma soprattutto perché è più conveniente per tutti.
Roger Abravanel e Luca D’Agnese lanciano un «manifesto per la crescita», con proposte concrete e spesso radicali su lavoro, tasse, giustizia civile, scuola, spesa pubblica… Italia, cresci o esci! è rivolto a tutti gli italiani, e soprattutto a chi ha meno di trent’anni, perché sono i giovani le vere vittime della mancata crescita: lavori precari, pensioni da pagare per i loro genitori, una scuola che non dà loro le necessarie competenze della vita.
Roger Abravanel è director emeritus di McKinsey e consigliere di amministrazione di aziende italiane e internazionali. È autore di Meritocrazia e di Regole (con Luca D’Agnese), entrambi pubblicati con Garzanti.
Luca D’Agnese è stato partner di McKinsey e amministratore delegato di aziende del settore energia. Attualmente è presidente di enel Romania.

Leggi tutto...

domenica 20 maggio 2012

Zycko a Verona per Consolidamento IT

Martedì 29 maggio 2012 si terrà a Verona, alle ore 14,30 presso il Crowne Plaza Hotel, un convegno su “Consolidamento IT: linee guida per creare un progetto ad alte performance”. Il convegno è organizzato dalla rivista Sistemi e Impresa e tenuto dalla società Zycho.
Zycko è il distributore internazionale a valore aggiunto di soluzioni IT all'avanguardia che coprono tutte le aree dell'infrastruttura IT,  come il data networking, il data storage, la virtualizzazione, e il data center. Grazie alla sua conoscenza del mercato, Zycko si impegna in un lavoro di due diligence per selezionare partner strategici e tecnologie che offrono ai suoi clienti un'opportunità per differenziarsi in un mercato affollato con soluzioni best in class.
Il primo appuntamento dello Zycko Vision Tour è dedicato al Consolidamento IT, il processo per cui tutte le risorse informatiche vengono centralizzate a favore di headquarter e filiali satelliti. Centralizzare significa, quindi, ridurre la complessità infrastrutturale minimizzando, o eliminando completamente, ogni ridondanza hardware e di gestione/manutenzione, liberando buona parte del budget IT per investimenti più mirati e specifici.
Oggi specifiche soluzioni IT semplificano il consolidamento senza che le performance, anche nelle filiali, siano inficiate in alcun modo. Durante l'incontro saranno presentate tecnicamente quelle tecnologie best in class che fanno la differenza in un progetto di consolidamento IT.
Il convegno è rivolto a Responsabili Sistemi Informativi, Amministratori Delegati e Direttori Generali.
La partecipazione al convegno è gratuita, ma subordinata alla preiscrizione. L'iscrizione potrà ritenersi valida solo dopo conferma della Segreteria Organizzativa. Per motivi organizzativi le persone non preiscritte non saranno ammesse al Convegno.
A questo link http://www.este.it/res/convegno/eid/70/p/ trovate maggiori informazioni sul road show insieme con le modalità per l’iscrizione.

Leggi tutto...

venerdì 18 maggio 2012

Origini della malattia dell’Italia

Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 17 maggio 2012
NOI E GLI ALTRILa malattia italiana nasce prima dell'euroMartedì sono stati pubblicati i dati sul Prodotto interno lordo (Pil) del primo trimestre di quest'anno. L'area euro in media è vicina a crescita zero (0,02% rispetto al trimestre precedente), in linea con le aspettative. I numeri della Germania e dell'Italia, invece, si discostano dalle previsioni: la prima, con una crescita del +0,5, ha sorpreso positivamente, la seconda, con -0,8, negativamente. L'Italia, unica tra i grandi Paesi della eurozona (inclusa la Spagna), mostra tre trimestri consecutivi di crescita negativa; la Germania, che aveva avuto crescita negativa nel quarto trimestre 2011, ritorna su territorio positivo e inizia il 2012 con una solida performance.
Il profilo trimestrale del Pil, si sa, è molto variabile, quindi non è saggio leggere troppe cose basandosi soltanto su uno o due trimestri di dati. Nell'esaminare la differenza tra i dati tedeschi e italiani voglio andare quindi più indietro nel tempo e proporre due finestre di osservazione.
Prima finestra, gli ultimi sei anni. La Figura 1, quadrante di sotto, mostra che il tasso di crescita del Pil dei due Paesi si muove in modo molto sincronizzato, ma in Italia, sia prima sia dopo la recessione del 2008, è in media più basso di circa due punti. Non è così per l'export. Il quadrante superiore della stessa figura mostra come il tasso di crescita delle esportazioni nei due Paesi sia praticamente identico.
Se ne deduce che, a differenza di quanto si sente spesso dire, lo scarto di crescita del Pil tra Italia e Germania va soprattutto attribuito alla domanda interna, cioè consumo, investimento e spesa pubblica al netto delle tasse. In parte questo è certamente legato alle politiche di austerità, ma il tasso di crescita del Pil in Italia era più basso di quello tedesco anche prima della crisi e quindi le cause devono essere più complesse.
Prendiamo ora la seconda finestra, quella degli ultimi quarant'anni e esaminiamo il livello del Pil pro capite. La crescita è un termine astratto, ma se la crescita stagna per molti anni questo finisce per avere un effetto sul livello del reddito, cioè su quanto i cittadini si mettono in tasca.

La figura 2 mostra il Pil pro capite di Germania, Italia, oltre alla media dei primi dodici Paesi entrati nella zona euro meno l'Italia. E quello degli Stati Uniti.
Negli anni Settanta Germania, Italia e la media dei dodici avevano livelli di reddito simili tra loro ma erano Paesi più poveri degli Stati Uniti, con uno scarto tra il 25 e il 35%. Fino a circa il 1995 la Germania e Italia si sono poi mosse insieme, ma da quel punto, mentre la media dell'eurozona e della Germania continuano nella traiettoria storica, l'Italia si discosta. La crescita diminuisce e questo ha un effetto sul livello del reddito degli italiani. Da qui nasce il grande rallentamento italiano: la moneta unica, creata nel 1999, non lo ha né arrestato né peggiorato. Con questa finestra più ampia si vede che in Italia la bassa crescita viene da lontano ed è questo che ci rende più poveri in modo persistente.
Ma c'è un'altra lezione da trarre da grafico 2. Nonostante i tanto declamati successi della Germania, il gap tra il reddito pro capite di Germania e Stati Uniti rimane stabile. Anche lasciando fuori la crisi recente i cittadini tedeschi e europei sono più poveri in media del 25% rispetto a quelli americani e questa differenza è molto simile a quella che si aveva quaranta o dieci anni fa. Ancora una volta né l'euro né il mercato unico hanno provocato visibili cambiamenti.
Ci sono tre lezioni da trarre da questi fatti. Primo, le deludenti performance recenti dell'Italia rispetto alla Germania non sono dovute al maggiore successo nell'export di quest'ultima ma a una domanda interna che in Italia è particolarmente depressa. Da qui l'importanza di pensare a politiche che la sostengano. Secondo, la bassa crescita del nostro Paese è un problema tutto italiano che nasce quindici anni fa e che poco ha a che fare con la crisi dell'euro. Questo problema va risolto affrontandone le sue cause strutturali. Terzo, l'Europa nel suo insieme, compresa la più virtuosa delle sue figlie, la Germania, è da quarant'anni ad un livello di reddito molto più basso di quello degli Stati Uniti. La sopravvivenza dell'euro e dell'Unione Europea dipenderà dal sapere affrontare con coraggio le cause di questa differenza e dalla capacità di analisi del perché il mercato unico e la unione monetaria abbiano largamente deluso le loro promesse iniziali. Forse questo sarà il momento in cui si smetterà di dare colpa agli speculatori e si comincerà a guardare alle vere cause dei nostri insuccessi.

Leggi tutto...

giovedì 17 maggio 2012

Don Calabria senza prospettive

Sulla chiusura dei corsi professionali presso l’Istituto Don Calabria di Verona intervengono Gianni Dal Moro, deputato del Pd, e Roberto Fasoli, consigliere regionale del Pd, che contestano la decisione della Regione Veneto di chiudere i corsi di formazione professionale.
Si riporta integralmente il comunicato stampa degli esponenti del Pd di Verona.
“Nella complessa vicenda che riguarda i corsi di formazione professionale dell’Istituto Don Calabria la prima cosa da fare oggi è assicurare ai ragazzi iscritti alla classe prima di poter frequentare una scuola coerente con le scelte da loro fatte e al tempo stesso salvaguardare l’occupazione del personale docente e non docente dei corsi di formazione professionale.
E’ assolutamente evidente che ci sono precise responsabilità per la situazione di disagio che si è venuta a creare,  responsabilità che sarà utile eventualmente accertare un attimo dopo aver risolto il problema degli alunni e delle loro famiglie.
La formazione professionale in Veneto rappresenta un punto di eccellenza, anche se negli ultimi anni il taglio delle risorse ha messo a durissima prova il lavoro dei centri, che solo al prezzo di sforzi notevoli sono riusciti a mantenere l’attività. Da anni il contributo regionale cala e gli stessi pagamenti avvengono con ritardi gravissimi che mettono in difficoltà i centri di formazione professionale. Nonostante ciò l’attività è continuata anche con risultati più che lusinghieri.
In questo quadro la decisione presa dall’Istituto Don Calabria di uscire dall’attività di formazione professionale rivolta ai ragazzi normo-dotati ha lasciato in molti un senso di delusione perché l’Istituto si trova nella stessa condizione degli altri centri che hanno invece deciso di proseguire l’attività. Ora se è legittimo prendere una decisione del genere e se sono vere le gravi difficoltà in cui versa il settore, è altrettanto vero che nelle stesse condizioni, se non in condizioni peggiori, altri enti hanno deciso di mantenere vivo l’impegno verso le migliaia di ragazzi e ragazze che frequentano un sistema formativo di particolare importanza per la nostra città e la nostra regione.
Del resto la recente costruzione del centro di Via San Marco, con attrezzature di primo livello doveva servire esattamente a questo scopo e a tal fine si erano mobilitate le istituzioni. Che nel panorama veronese venga a mancare, per una parte di attività, l’offerta formativa dell’Istituto Don Calabria non è cosa da poco e sarà necessario uno sforzo congiunto del sistema dell’istruzione e della formazione professionale pubblico e privato per garantire ai giovani veronesi il mantenimento di un buon livello di qualità dell’offerta formativa.

Al tempo stesso la Regione Veneto è chiamata ad una seria rivisitazione del suo impegno in un settore strategico per la nostra regione, sia in termini di rioganizzazione di corsi sia in termini di aumento delle risorse disponibili per non correre il rischio che l’abbandono dell’attività finisca per coinvolgere anche altri centri con un danno gravissimo per il sistema formativo veneto.
Il sistema della formazione professionale vede ridursi il finanziamento a fronte della medesima quantità e qualità di attività con la certezza  che il sistema non potrà reggere a lungo.
Diversi Enti si pongono la domanda se è ancora possibile svolgere una  attività che realizza inserimenti occupazionali altissimi e con la partecipazione ai corsi di oltre il 10% dei ragazzi/e dopo la terza media, operando con un parametro di finanziamento tra i  più bassi in Italia.
Altre sono le spese da tagliare, in altri settori, ma sulla formazione delle giovani generazioni il danno è incommensurabile.
Si attui una seria razionalizzazione degli enti formativi, sostenendo  quei centri professionali radicati col sistema produttivo, con una consolidata capacità di formare per competenze; si semplifichi la macchina burocratica e organizzativa regionale per impiegare la quasi totalità dei fondi a sostegno dell’attività dei centri riducendo tutte le spese accessorie. Di scarsa visione e asfissia muore il nostro tessuto sociale ed economico del nostro territorio.
L’impegno del PD sarà quello di garantire a tutti i giovani un adeguato livello di offerta formativa agendo a livello nazionale con  provvedimenti di legge e a livello regionale perché sia rivista e
adeguata la legislazione regionale, come richiesto da tempo dal  sistema della formazione professionale e dalle organizzazioni  sindacali, e perché siano messe a disposizione adeguate e più consistenti risorse”.

Leggi tutto...

martedì 15 maggio 2012

Sistemi e Impresa, articoli di Antonino Leone

Gli articoli trattano argomenti molto attuali: economia, impresa, energia, lavoro, relazioni sindacali. La raccolta comprende i seguenti articoli pubblicati su Sistemi e Impresa dal mese di ottobre 2010 al mese di aprile 2012:   

- I problemi emergenti dell’Italia. Intervista a Irene Tinagli;

- Economia, relazioni sindacali e lavoro in Italia;
Riformare le relazioni industriali, Intervista a Pietro Ichino;
Economia bloccata e lavoro femminile, Intervista a Enrico Morando;

- Pa: freno o opportunità? Intervista a Pietro Micheli;

- Energia e sviluppo sostenibile nel nostro paese. Intervista a Federico Testa;

- Dai tagli lineari alla spending review. Intervista a Enrico Morando;

- Quale futuro per l’impresa in Italia? Intervista a Matteo Colaninno;

- Riformare gli ammortizzatori sociali con equità e trasparenza;

- Riforma del lavoro: si può arrivare in Danimarca passando dalla Germania? Intervista a Pietro Ichino.

Articoli di Antonino Leone
Inoltre si pone all'attenzione la precedente raccolta Il cambiamento nelle PA

Leggi tutto...

venerdì 11 maggio 2012

Esiste l’antipolitica?

Articolo di Nadia Urbinati pubblicato su Repubblica il 10 maggio 2012
La demagogia è una forma degenerata della democrazia, la sua periferia interna. I classici la situavano al punto terminale della democrazia costituzionale o “buona”. Era la conseguenza di un impoverimento della società, del timore della classe media di vedere indebolito il proprio status e dei meno abbienti di perdere quel poco che a fatica avevano guadagnato. In questo scontento che contrapponeva i pochi ai molti poteva emergere un astuto demagogo che metteva in campo forze nuove, desiderose di farsi largo ed emergere.
Oggi la demagogia usa il linguaggio dell'antipolitica per esprimere opposizione alla classe politica attualmente esistente con il prevedibile obiettivo di scalzarla con una nuova. Se poi questa classe politica si è macchiata di corruzione ciò rende l'arringa del demagogo più facile ed efficace. Il Movimento Cinque Stelle rientra in questa categorizzazione demagogica. Beppe Grillo ha fatto dell'antipolitica la sua battaglia e alle recenti elezioni amministrative quel linguaggio ha dato i suoi frutti. La crisi economica e i recenti e meno recenti scandali politici hanno fatto da benzina. Ma che cosa è esattamente l'antipolitica?
Quando si parla di antipolitica nelle società democratiche si usa una parola molto imprecisa. Chi la usa non suggerisce infatti di ritirarsi nella solitudine di un convento, oppure di vivere solo di e per la famiglia, o solo di e per il lavoro. Chi usa l'espressione antipolitica vuole presumibilmente criticare il modo con il quale la politica è praticata ma in realtà sfruttare lo scontento che esiste ed è forte verso le forme tradizionali di esercizio della politica. Non è la politica l'obiettivo polemico e nemmeno la forma partito. Non è la politica perché il parlare di antipolitica è comunque un parlare politico, addirittura uno schierarsi partigianamente, e questo è a dimostrazione del fatto che nelle società democratiche non c'è scampo alla politica, nel senso che ogni questione che esce dal chiuso della domesticità è e si fa politica. Diceva Thomas Mann in un saggio esemplare sull'impolitico che nella società democratica anche chi si scaglia contro la politica è costretto a farlo con linguaggio politico, a farsi partigiano della sua causa. Ci si schiera e si entra nell'agone. L'antipolitica non è possibile.
Così è oggi: non c'è niente di più politico di questa persistente critica della politica. A ben guardare l'obiettivo polemico non è neppure la forma partito, l'associarsi cioè per perseguire o ostacolare determinati obiettivi e progetti politici. Anche i più astiosi demagoghi dell'antipolitica – anche l'arrabbiato Beppe Grillo – si presentano alle elezioni!

Come scriveva Ilvo Diamanti su Repubblica a commento del recente voto amministrativo, il termine “antipolitica” sottintende una valutazione poco convincente quando è usata per spiegare il voto al Movimento Cinque Stelle – benché questo si sia alimentato pantagruelicamente dello slogan dell'antipolitica. Accettando di presentarsi alle elezioni ha accettato le regole democratiche della competizione e, soprattutto, messo in campo persone che, nonostante il linguaggio demagogico di Grillo, vogliono fare politica e discutono di problemi che sono politici, dall'ambiente alla corruzione, agli interessi privati nella cosa pubblica. A ben guardare gli elettori del Movimento sono semmai iperpolitici e vedono tutto in chiave politica (un termine al quale hanno dato un significato negativo, salvo… usarlo proprio per far politica). Scriveva Diamanti che i grillini “mostrano un alto grado di interesse per la politica” e in passato molti di loro hanno votato Lega Nord e anche Pd e Idv. La demagogia non piace ma è innegabile che chi si identifica con il Movimento del demagogo ha una visione politica, non antipolitica. E su questa visione ci si deve interrogare e ad essa occorre controbattere.
Il movimento Cinque Stelle opera come un partito e se vorrà persistere nel tempo dovrà strutturarsi come un partito. Nella democrazia rappresentativa non c'è scampo a questa regola. L'esperienza di Berlusconi insegna: avere i mezzi finanziari non è sufficiente poiché senza struttura e idee propositive la prima grossa sconfitta si rivela fatale. Perché un partito, se partito è, deve essere capace non solo di vincere ma anche di perdere. Un partito nato per solo vincere è un partito destinato all'estinzione. La memoria sulla quale ogni compagine si struttura creando identità collettiva si consolida anche grazie alle sconfitte, esperienze che uniscono, non meno delle vittorie. Quindi il Movimento Cinque Stelle se vuole consolidare la propria presenza nella politica nazionale dovrà essere pronto a scendere nell'agone sapendo che può perdere. La prepotenza verbale del suo leader rivela che questa non è ancora la sua condizione. Se sarà un partito di sola vittoria sarà di breve durata.
Perché dopo la protesta ci sarà la prova del fuoco del potere praticato. Essere eletti, avere una presenza nelle istituzioni, implica fatalmente prendere in mano quel potere urlando contro il quale il movimento di protesta è nato vittorioso. Si tratta di una regola ferrea che contraddice quel che ci aveva abituato a pensare una Democrazia Cristiana che stava in sella sapendo che non rischiava alternativa grazie alla guerra fredda: ovvero che il “potere logora chi non ce l'ha”. Questa massima andreottiana valeva appunto perché chi aveva il potere sapeva di non rischiare di perderlo, cosicché a logorarsi erano appunto coloro che non potendolo avere per vie ordinarie (vittoria elettorale) dovevano scendere a patti con chi lo aveva già a costo di sporcarsi le mani. La massima andreottiana designa una condizione di irrilevanza della democrazia elettorale. Ma in una sana democrazia dove le elezioni funzionano davvero da deterrenza, e sono quindi rischiose (come si è visto il 6 e 7 maggio), allora il “potere consuma chi ce l'ha”. E quindi le vittorie dei movimenti di protesta rischiano di spegnersi in fretta. La vicenda patetica della Lega Nord prova questa regola. Le ali se le scotta chi più si avvicina al sole.
Il Movimento Cinque Stelle o diventa un partito e quindi accetta la sfida di essere vittima della critica di “antipolitica”, oppure scompare. Ma se non scompare, allora deve darsi obiettivi e linguaggi che non sono più quelli della demagogia, roboanti, rozzi, e troppo facili.


Leggi tutto...

Walter Veltroni, intervista dopo i risultati elettorali

Articolo di Aldo Cazzullo pubblicato sul Corriere della Sera del 10 maggio 2012
E ora, Veltroni? Cosa resta del quadro politico italiano?
«Resta il riformismo di cui il Pd, come dimostra il voto, è il perno insostituibile. Questo voto consegna all'Italia un'alternativa secca: o un'altra stagione di incertezza, instabilità, populismo di vecchio e nuovo stampo; oppure provare l'unica cura che il Paese non ha mai provato, il riformismo. È il solo modo per fronteggiare una situazione storicamente inedita. Io non so se si ha la consapevolezza di vivere in un momento del tutto particolare, forse unico nel dopoguerra. Diceva Burckhardt: "Noi vorremmo conoscere l'onda sulla quale vaghiamo nell'oceano, ma noi siamo quest'onda". Parlando con Bersani ho usato un'espressione che mi fa piacere lui abbia ripreso: viviamo insieme il '29 e il '92, due cifre capovolte, un mix pericolosissimo di recessione economica e crisi politico-istituzionale. Con il voto l'Italia ha gridato un bisogno di cambiamento. O lo raccogliamo, trovando una soluzione razionale coraggiosamente innovativa, oppure il nostro Paese è esposto a rischi molto seri e molto drammatici».
Quali rischi?
«Pensiamo al contesto europeo. Da una parte, il messaggio di speranza che viene dalla Bastiglia; anche se al primo turno la destra francese ha preso più voti della sinistra e si è confermata la giustezza del sistema a doppio turno. Dall'altro, il voto greco, con il successo dei neonazisti. La Grecia è un Paese a rischio, non solo finanziario. E stata la culla della democrazia. Non vorrei fosse il Paese in cui il contrasto tra le esigenze di una società veloce, globalizzata, frammentata e i tempi e le modalità della democrazia come l'abbiamo conosciuta finora produca una qualche forma di autoritarismo».
Teme per la democrazia?
«C'è il rischio che sulla crisi e sulla disperazione si innesti nel continente un'involuzione antieuropea. Nello stesso tempo, in Italia Si può aprire un'opportunità gigantesca. La destra è esplosa e non tornerà più com'era prima. Ma in politica i vuoti si riempiono. Chi pensasse, come si pensò nel '93, che si va alle elezioni con la situazione di oggi, si sbaglia. Si manifesteranno pulsioni antieuropee, estremiste: non a caso La Russa si è subito congratulato con Marine Le Pen. Esiste poi un elettorato moderato che troverà una sua forma politica».
Con i moderati voi non dovevate allearvi?
«La discussione tattica sulle alleanze nasce dalla convinzione che il sistema sia immobile e si possano spostare solo gli stati maggiori. Il voto ha dimostrato che non è così. Sono sempre stato convinto che una proposta innovativa possa innescare una grande mobilità elettorale. Casini ha tutt'altro disegno strategico rispetto al nostro. Noi dobbiamo puntare su noi stessi, avere fiducia nella possibilità che il riformismo risponda sia alla domanda di radicale rinnovamento che si esprime con il voto al Movimento 5 Stelle, sia alla domanda di innovazione di un elettorato che aveva creduto a Berlusconi o al centro. La grande vittoria della sinistra estrema, che il malessere sociale poteva produrre, non c'è stata. Se il Pd sa essere nel contempo più radicale e più riformista, può rivelarsi, certo non da solo, la soluzione del problema italiano».
Intanto il Pd perde voti e Grillo ne guadagna. Cosa pensa di lui?
«Grillo sugli immigrati e sulla mafia ha detto cose inaccettabili. Ma preferisco parlare dei suoi elettori. Vogliono una politica diversa e hanno trovato questo modo per dirlo. E successo altre volte, si pensi ai grandi successi dei radicali. La politica può fare due cose. Può scrollare le spalle, può demonizzare. Oppure può dare il segno di aver capito la lezione. Ritirarsi dal potere indebitamente occupato, dai consigli di amministrazione. Ridurre il numero dei parlamentari, dimezzare il finanziamento pubblico dei partiti, rivedere le spese della pubblica amministrazione. Spero che il mio partito porti in Parlamento il suo pacchetto complessivo di riforme della politica. Occorre una politica più lieve nella gestione del potere e più ferma negli aspetti di regolazione; come nei Paesi anglosassoni, gli unici - e non è un caso - in cui non c'è mai stata una dittatura. Se si vuole evitare il riflesso autoritario bisogna che la politica riapra i polmoni, sia capace di rappresentare una dimensione di progetto dentro un tempo storico del tutto inedito, segnato dalla bulimia comunicativa».
Cosa pensa dei social network? Come cambiano la politica?
«Opporsi al nuovo è un atteggiamento romantico che può diventare stoltamente antimoderno. I social network sono una grande risorsa democratica. Ma è sbagliato pure non capire le contraddizioni che il nuovo propone. Mi preoccupa la radicalizzazione estrema delle posizioni: l'invettiva, le grida, la rimozione della complessità. Ma questo non è tempo di urla e grida; se c'è stato un tempo complesso nella storia è questo, e come ha notato Michele Serra non sempre tutto è riducibile nei 140 caratteri di un tweet»
Ma ora gli elettori hanno la possibilità di esprimersi non solo con il voto.
«E vero. Se un cittadino voleva criticare Moro o Berlinguer doveva scrivere una lettera, che dopo 10 giorni sarebbe arrivata sul tavolo di una segretaria, che la smistava al funzionario di turno. A Moro e a Berlinguer la critica non sarebbe mai arrivata. Ora sul telefonino arriva in tempo reale. E una bellezza per il riavvicinamento del rapporto. Ma dipende anche dal grado di autonomia del leader: la persona che ti scrive non è il mondo. Ci sono poi momenti della storia in cui l'uomo politico ha il dovere della solitudine. Dagli ultimi discorsi di Moro traspare una solitudine che pagò con la vita. Ma anche Berlinguer ha vissuto momenti di immensa solitudine, quando da sinistra gli arrivavano bordate terribili: revisionista, traditore. Un grande uomo politico, se ha il senso e la visione dello Stato, coltiva il prezzo della solitudine e sa dire dei no. L'opposto di Berlusconi, che a forza di inseguire i sondaggi ha disfatto il Paese».
Nel pacchetto di riforme che lei propone c'è anche il dimezzamento dei vostri stipendi?
«Il problema vero è l'efficienza. La gente è stanca di pagare un sistema che non genera decisioni. I parlamentari precedenti guadagnavano anche più di quelli di oggi, ma davano l'impressione che il meccanismo decisionale funzionasse meglio, e quindi valesse il costo. Le retribuzioni vanno ridotte ulteriormente e senza esitazione portate ai livelli europei, ma la riforma dev'essere complessiva. Il centrosinistra si intesti questa battaglia».
Che impressione le fanno i suicidi?
«Il piccolo imprenditore che si suicida e l'operaio che si toglie la vita sono fratelli. Finché non si capirà la comunanza di destino tra il sistema imprenditoriale italiano e il lavoro, l'Italia non ce la farà. Occorre un salto culturale, un grande patto tra i produttori, non la riapertura di un conflitto tra il piccolo imprenditore e i suoi operai, che sono la sua famiglia. E non si parla abbastanza dell'esistenza in Italia di 650.000 bambini in povertà assoluta. Senza solidarietà, crescita ed equità il Paese si sfascia. Mettiamo al centro del nostro vocabolario due parole-chiave: legalità e comunità».

Leggi tutto...

Pierluigi Bersani, intervista dopo i risultati elettorali

Articolo di Goffredo De Marchis pubblicato su Repubblica il 10 maggio 2012
"Il candidato premier tocca a noi. Il Pd vuole allargarsi e aprirsi, il centrosinistra non è sufficiente per governare. Noi puntiamo a un patto di legislatura più ampio. Ma la guida la proporrà il Partito democratico". Preoccupato per la situazione italiana, triste per la morte di Cevenini. Ma Pier Luigi Bersani, dopo il voto amministrativo, vede il traguardo. Con tutta la consapevolezza di un sistema quasi al collasso.
C'è veramente da festeggiare se il Pd tiene ma non cresce?
"Non mi riconosco nelle analisi che leggo e sento in questi giorni. Quando si parla di amministrative si contano quanti comuni uno vince e quanti ne perde e i raffronti si fanno con le precedenti comunali. Il Pd ottiene una vittoria nettissima al primo turno e si presenta in vantaggio per il secondo".
Con molti candidati che non vengono dal Pd.
"Nella stragrandissima maggioranza sono espressione del Pd. Laddove non lo sono per noi è un onore sostenerli. Vogliamo essere l'infrastruttura del centrosinistra, abbiamo inventato le primarie per metterci al servizio della coalizione. A Milano ha vinto Pisapia e il Pd ha ottenuto il record storico di voti. Si vede che la gente ci capisce meglio di alcuni analisti".
Insomma, avete vinto.
"Ma non lo dico per orgoglio di partito. Lo dico perché sono preoccupato. Temo che qualcuno coltivi l'illusione schumpeteriana di una distruzione creativa del sistema politico. Sfasciamo anche l'unico che è rimasto in piedi perché arriverà qualcosa di buono. Significa fare gli apprendisti stregoni su un problema che può franare addosso a tutti".
Bisogna farsi carico anche del crollo del centrodestra?
"Dobbiamo guardare chi incrocia l'effetto dello tsunami che ha colpito Pdl e Lega. Lo fa il Terzo polo? No. Lo fa il centrosinistra? No. Questo conferma due cose. Il transito da un campo all'altro in Italia è molto limitato. E pensare che la crisi del centrodestra possa portare acqua a posizioni centrali o tecnocratiche è un'illusione assoluta. A destra c'è un vuoto, ma l'elettorato non è scomparso. È in cerca di autore e la risposta che cerca non sarà un pranzo di gala, non avrà l'abito della festa".
Cioè non sarà un professore o Passera o Montezemolo?
"Sarà l'incarnazione di una proposta che mi auguro minoritaria ma somiglierà a quelle forze che in Europa interpretano tendenze regressive e populiste. No Unione, no tasse, no immigrati. Un misto di Le Pen, Sarkozy e Lega nostrana".
Perché non ci prova il Pd a occupare il vuoto moderato?
"Ci proviamo. Il centrosinistra per la prima volta può sfondare il muro di gomma tra guelfi e ghibellini che è radicato nella storia d'Italia. È una responsabilità nuova e il Partito democratico non basta. Vogliamo essere più aperti nei programmi e nelle proposte. Ci rivolgiamo a intellettuali, autorità morali, rappresentanti della vita economica per dire diamoci la mano. Penso a un rassemblement democratico contro il ripiegamento difensivo della destra".
Metterete in lista gli esterni?
"Assolutamente sì, saranno liste aperte. Ma non guardo solo a intese elettorali, non puntiamo mica a rifare l'Unione. Penso a una società civile che vuole far parte di questa scommessa. Il Pd si mette a disposizione".
Uno spazio che rischia di essere già occupato da Grillo.
"Il suo è un voto gonfiato dalla protesta ma non c'è solo protesta in quel partito. C'è anche una domanda di stili nuovi di partecipazione, di sobrietà della politica, di cura dei problemi del territorio. Alle provocazione di Grillo rispondo con durezza. Ma il mio atteggiamento verso il movimento 5 stelle è di attenzione. Non abbiamo guerra da fare con loro. Ci sono domande che lì non possono trovare risposta di governo".
A Monti ha detto che non si vede niente di positivo da mesi. È una minaccia?
"Abbiamo scarpinato per l'Italia e c'è una situazione acutissima di sofferenza. Al governo ribadisco lealtà, ho una sola parola. Ma dico: attenzione. Il voto dimostra che nel Paese ci siamo dappertutto. Allora ascoltateci".
Cosa avete da dire?
"Con la vittoria di Hollande Monti ha ora lo spazio e l'autorevolezza per aprire nuovi tavoli di confronto in Europa. Ma i tempi della crescita non sono compatibili con la situazione italiana. Monti deve insistere sulla mini golden rule per sbloccare investimenti. E occorre affrontare subito il tema dei pagamenti alle imprese per far arrivare un bel po' di miliardi di liquidità nel giro di poche settimane. Infine va risolta l'ingiustizia intollerabile degli esodati".
Monti però ha appena confermato la linea del rigore.
"Mica diciamo di far saltare i conti. Se c'è da trovare qualche soldo, troviamolo".
Si può pensare a un rinvio del pareggio di bilancio?
"Se ci danno la golden rule, probabilmente non ce ne sarà bisogno. Ma vedo che la Spagna si prepara a ricontrattare quell'obiettivo. Facciamolo anche noi se serve".
Il voto anticipato non vi tenta?
"Anche per strada qualcuno mi chiede: perché non vuoi andare a votare ad ottobre? Rispondo così: siamo ancora in una situazione delicatissima, abbiamo la possibilità di giocarci una partita in Europa e di correggere un po' le nostre politiche interne per metterci in una zona di ulteriore sicurezza".
Tanto ci penserà il Pdl a staccare la spina.
"Non entro nel campo avverso. Ma non possono scaricare sull'Italia i loro problemi. E non possono pensare di andare avanti tendendo imboscate al governo".
Casini vi avverte: non verremo mai con la foto di Vasto. Con chi lo fate lo schieramento più largo?
"Non inseguo le dichiarazioni quotidiane. Mi affido ai processi di fondo. Quando la dialettica sarà tra un polo democratico e uno che dà risposte regressive ognuno si assumerà le sue responsabilità. Il Pd vuole allargare ma sa di dover essere il baricentro di una proposta alternativa. Anche rinunciando a qualcosa di suo".
Lasciando la candidatura alla premiership a un moderato?
"No. Il dato che si ricava da queste elezioni è che tocca al Pd. Saremo noi a proporre un nome. Non per metterci al comando ma per rendere un servizio e guidare questa fase. Il guidatore lo dobbiamo scegliere noi".
A Palermo il centrosinistra rischia di frantumarsi a meno che voi non scegliate Orlando
"Il candidato è Ferrandelli. Se decidi di fare le primarie le rispetti. Ma aggiungo che si è esaurita la fase politica di Lombardo in regione. Il gruppo dirigente siciliano del Pd deve lavorare per avere al più presto le elezioni".
Il punto dirimente alla fine è sempre quello dell'affidabilità di un centrosinistra con Sel e Idv. È in grado di governare?
"Il voto locale ci dice che non c'è un centrosinistra autosufficiente. La solidità e la credibilità di governo nascono da un centrosinistra affidabile e da un patto di legislatura più ampio. Teniamo fermo questo punto e ci si convincerà che non esiste una strada diversa, non ci sono altre risposte".

Leggi tutto...

giovedì 10 maggio 2012

Accordo lavoro pubblico peggiorativo per i cittadini

Articolo di Alberto Alesina e Andrea Ichino pubblicato sul Corriere della Sera il 10 maggio 2012
«I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». Lo dice l’articolo 98 della Costituzione. Proteggere questi lavoratori contro ogni ragionevole controllo della loro produttività danneggia i cittadini, soprattutto quelli meno abbienti. L’insegnante di inglese che fa male il suo mestiere priva gli studenti poveri di una dote per trovare un buon lavoro: per i ricchi ci sono le vacanze all’estero. Il dipendente assenteista dell’Asl non crea problemi a chi si può permettere l’assistenza medica privata.
Di tutto questo non c’è traccia nella recente intesa sul pubblico impiego tra Governo e sindacati in cui i consumatori non sono stati rappresentati (come mai ancora concertazione?).
Colpisce innanzitutto il modo fumoso e inefficace di incentivare i dirigenti dai quali dipende il buon funzionamento delle strutture. Bastava eliminare la responsabilità erariale del capo ufficio se il giudice decide l’illegittimità di un licenziamento. Oggi nessun dirigente prova a licenziare, per timore di dover rimborsare allo Stato l’indennizzo che venisse riconosciuto dal giudice al dipendente. Occorreva dare attuazione alla norma che, come in Gran Bretagna, prevede l’assunzione di dirigenti solo con l’indicazione precisa di «obiettivi Smart» (specific, measurable, achievable, realistic, timely, cioè specifici, misurabili, raggiungibili, realistici, limitati nel tempo) da raggiungere per il miglioramento delle strutture, e con revoca dell’incarico in caso di mancato raggiungimento (art. 21, decreto legge n. 165/2001). Misure semplici ma accuratamente evitate nell’intesa.
C’è di peggio: la valutazione delle strutture non deve essere cogestita dalla dirigenza con il sindacato, come l’accordo prevede. Incredibile: i valutandi che valutano se stessi! Grazie a internet, oggi la vera valutazione passa attraverso la trasparenza totale (full disclosure) di ogni indicatore del funzionamento degli uffici, inclusa la performance dei singoli dipendenti che (fatto noto a pochi) non è soggetta a tutela della riservatezza (art. 19, Codice Privacy; art. 4, h, L. 15/2009).
Stupisce poi che il governo abbia accettato di utilizzare pesi e misure diverse per i dipendenti pubblici e privati. Sulle eccedenze del personale, l’intesa non dice nulla. Per forza poi la spesa pubblica è intoccabile e si possono solo aumentare le imposte! Basterebbe invece applicare l’articolo 33 del testo unico: il personale eccedentario deve essere collocato in mobilità (con l’80% dell’ultima retribuzione) e deve accettare obbligatoriamente il trasferimento alle amministrazioni che possono utilizzarlo (anche in altro dicastero). E se entro due anni il trasferimento non avviene, il rapporto cessa e si attiva, come nel privato, il sussidio per i disoccupati. Per quale motivo ciò che vale per un metalmeccanico non dovrebbe valere per un dipendente comunale o statale?
Riguardo alle retribuzioni, l’intesa elimina la misurazione relativa della performance introdotta dal ministro Brunetta: premi diversi per il 25% migliore, per il successivo 50%, e infine nessun premio per il 25% peggiore. Si possono discutere i parametri specifici, ma questo tipo di valutazione è utile anche perché tutela i lavoratori stessi dalla possibilità di non essere premiati per cause indipendenti dal loro comportamento. Se un medico fallisce una terapia difficile, potrebbe non esser colpa sua, ma della difficoltà del caso. Se però confrontiamo medici con casi simili, le differenze di risultato non possono che dipendere dai loro meriti individuali.
L’intesa non solo rimuove questo criterio relativo di premialità, diffuso nel privato. Il peggio è che prevede di non valutare i singoli lavoratori ma solo le strutture. Ossia, detto in soldoni, il solito accordo perverso che ha rovinato il settore pubblico italiano: tante assunzioni, pochi soldi dati a tutti, buoni o cattivi, zero rischio di perdere il lavoro anche per i peggiori.
Questo non vuol dire «non fare valutazione dei singoli»: vuol dire fare una valutazione molto precisa che premia proprio i singoli che in ciascuna struttura fanno meno per migliorare l’efficacia del servizio. Tanto chi ci perde, sono solo i cittadini.

Leggi tutto...