sabato 25 febbraio 2012

Innovazioni nel mercato del lavoro

Articolo di Manuela Campanella pubblicato su Europa il 25 febbraio 2012
La proposta del Partito Democratico sul lavoro si basa sull’idea originaria di Boeri-Garibaldi di creare un contratto di inserimento per il quale i vincoli ai licenziamenti entrano in vigore solo dopo i primi tre anni. Questo modello ha certamente il merito di ridurre la giungla di contratti di lavoro ad una sola forma di inserimento dei nuovi assunti. Tuttavia presenta anche il notevole difetto di creare una soglia di tre anni difficilmente superabile (anche nel caso di sgravi fiscali), in quanto il passaggio all'assunzione con tutte le protezioni viene lasciato esclusivamente alla buona fede delle imprese.
Una riforma che si basi solo su questi presupposti avrebbe il grande limite di non affrontare i nodi cruciali che impediscono un sano funzionamento del mercato del lavoro, ovvero:
Al momento il nostro sistema esclude ampie fasce di lavoratori dalle forme di sostegno al reddito esistenti. Inoltre, gli ammortizzatori sociali previsti rivestono una funzione quasi sempre puramente assistenziale, non prevedendo nessuna forma di prestazione d'opera in cambio, né formazione né ricollocamento. Questo congela una frazione consistente della manodopera in una situazione di inattività (se si esclude il lavoro nero) e rende sempre più difficile il loro rientro al lavoro.
L'argomentazione che spesso adduce chi difende le restrizioni ai licenziamenti si basa sul presupposto per cui l'eliminazione di questi vincoli non aiuta in nessun modo i lavoratori ma peggiora solo i loro diritti. Al contrario molti studi empirici e modelli economici (si veda ad esempio Lazear 1990 e Risager e Sorensen 1997) dimostrano che l'occupazione diminuisce all'aumentare dei costi di licenziamento (tra questi figurano anche i costi relativi all’art.18). Per tanto le restrizioni diminuiscono considerevolmente le possibilità dei disoccupati di trovare un impiego.
Non a caso nessuno tra i paesi industrializzati ha limitato la facoltà delle imprese di licenziare per motivi economici. Solo la Germania prevedeva una normativa simile e un governo di sinistra guidato dal Cancelliere Schroeder nel 2003 si è affrettato ad eliminarla.
Per riformare il sistema attuale è necessario passare dalla sicurezza del posto di lavoro alla sicurezza del mercato del lavoro, garantendo l'insieme dei provvedimenti che consento al lavoratore di spostarsi agevolmente da un posto di lavoro all'altro con la copertura di un reddito: indennità di licenziamento e/o di disoccupazione, attività di formazione e di riconversione, attività di collocamento pubblico o privato, outplacement specializzato.
È fondamentale quindi porre in essere politiche che vadano nella direzione di ammortizzatori sociali pagati dalle imprese quali: 1) indennità di licenziamento per tre anni; 2) formazione; 3) ricollocamento, che superano di gran lunga le tutele delle restrizioni in uscita che verrebbero per tanto ridimensionate. I vantaggi che le imprese e i lavoratori ne trarrebbero insieme ai nuovi investimenti esteri funzionerebbero come volano per la crescita e la creazione di nuova occupazione. È probabile anche che la maggiore meritocrazia e produttività che ne deriverebbero unita ad una maggiore soddisfazione di tutte le parti sociali innescherebbe un circolo virtuoso che migliorerebbe sempre di più le condizioni del sistema Paese in tutti i suoi ambiti.

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Ammortizzatori sociali: equità e trasparenza

Per rimuovere le difficoltà dei lavoratori che si trovano in specifiche condizioni sociali occorre che il sistema degli ammortizzatori sociali sia equo e trasparente rispetto alla valutazione dell’azienda, allo status dei lavoratori ed all’erogazione dei sussidi.
Le imprese durante la propria vita effettuano interventi di riorganizzazione, ristrutturazione e riconversione ed adeguano la pianta organica alla domanda dei consumatori per adattarsi ai cambiamenti del mercato e riprendere il cammino della crescita. Spesso le imprese che intraprendono tali interventi riducono la pianta organica e, di conseguenza, una parte dei lavoratori è sospesa ed ha bisogno di tutele. Più grave è la condizione dei lavoratori licenziati da imprese che decidono di cessare l’attività imprenditoriale.
Lo status dei lavoratori che vivono tali condizioni può essere classificato nel modo seguente:
1) Lavoratori che non lavorano per sospensione o riduzione dell’attività lavorativa per eventi aziendali temporanei (contrazione del mercato, intemperie stagionali). Tali lavoratori hanno diritto alla Cassa integrazione guadagni (Cig) ordinaria;  
2) Lavoratori sospesi che conservano il rapporto di lavoro con l’impresa ma non hanno alcuna sicurezza di rientrare nell’azienda di provenienza. La sospensione dal lavoro avviene per ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione aziendale, crisi aziendale e procedure concorsuali. Tali lavoratori sono posti in Cig straordinaria;
3) Lavoratori licenziati che sono costretti a trovare una nuova occupazione. Tali lavoratori hanno diritto all’indennità di disoccupazione o di mobilità.
I casi indicati presentano degli elementi diversi rispetto allo status dei lavoratori (licenziati, sospesi) ed al sussidio (requisiti, durata, importo) di cui hanno diritto ed un elemento comune rappresentato dalla condizione di disoccupazione.
Il primo caso è interessato solo alle politiche di sostegno del reddito in quanto superata la fase di temporanea crisi aziendale i lavoratori rientrano in azienda.
Il secondo caso è complesso in quanto i lavoratori rimangono legati all’azienda, la quale non ha prospettive di ripresa dell’attività (es. Cig a zero ore), e sono collocati in Cig straordinaria per lunghi tempi per assicurare loro una forma di sostegno del reddito. Lo strumento della Cig non consente al lavoratore sospeso di riqualificarsi e rientrare nel mercato del lavoro.
Il terzo caso interessa i lavoratori licenziati, ai quali viene assegnato il trattamento di disoccupazione o di mobilità, il quale deve essere collegato con i servizi di outplacement e di riqualificazione professionale finalizzati agli sbocchi occupazionali esistenti.
Solo il primo ed il terzo caso sono trasparenti rispetto allo status dei lavoratori. Nei tre casi l’importo del sussidio è inferiore alla retribuzione percepita in costanza di rapporto di lavoro e basso per garantire ai lavoratori una vita dignitosa.
La recente riforma delle pensioni con l’innalzamento dell’età pensionabile non facilita la correlazione tra gli ammortizzatori sociali e la pensione (mobilità lunga, prepensionamenti) e, quindi, occorre trovare nuove soluzioni che risolvano lo stato di sofferenza dei lavoratori e rendano produttive le risorse impiegate dallo stato.
Un moderno Welfare del lavoro, cosi come avviene in molti paesi europei, deve essere organizzato su tre fattori essenziali: - il sostegno del reddito in misura adeguata alle necessità del lavoratore (1°, 2° e 3° caso); - la riqualificazione professionale mirata alle esigenze del mercato del lavoro (2° e 3° caso); - servizi efficaci di outplacement (2° e 3° caso).
La mera erogazione dei sussidi, cosi come avviene in Italia, riveste una funzione assistenziale che fa lievitare l’ammontare complessivo delle prestazioni e del lavoro nero e svaluta la professionalità ed il potere contrattuale dei lavoratori. La qualità dei servizi di outplacement e di riqualificazione professionale vanno controllati tramite alcuni parametri (es. il tempo medio di rioccupazione) che permettono di valutare l’efficacia della gestione ed il risparmio sul fronte dei sussidi economici.
In Italia il 72% dei disoccupati non gode di prestazioni a sostegno del reddito contro la media europea del 20-30% e la quota di Pil erogata ai disoccupati (0,7%) è la più bassa tra i maggiori Paesi dell’Unione Europea.
L’ammortizzatore sociale su cui maggiormente poggia la tutela dei lavoratori è la Cig, la quale permette ai lavoratori delle imprese industriali in crisi di ricevere un sussidio economico. L’indennità per Cig è pari all’80% della retribuzione che il dipendente avrebbe percepito per le ore di lavoro non prestate tra le zero ore ed il limite dell’orario contrattuale e comunque non oltre le 40 ore settimanali.
I lavoratori delle imprese non industriali, generalmente, non accedono alla Cig ed hanno diritto, in caso di cessazione del rapporto di lavoro e possedendo i requisiti stabiliti, all’indennità di disoccupazione d’importo più basso rispetto all’indennità per Cig. L'indennità di disoccupazione ordinaria, infatti, è così calcolata: - 60% della retribuzione media dei tre mesi precedenti il licenziamento, per i primi 6 mesi; - 50% per i successivi 2 mesi; - 40% per i 4 mesi successivi nel caso di lavoratori che alla data del licenziamento abbiano superato i 50 anni di età.
L’importo dei sussidi economici non può superare un limite massimo mensile stabilito ogni anno.
I lavoratori atipici non hanno diritto ad alcuna prestazione ad eccezione di una prestazione definita a partire dal 2009 e in via sperimentale dal DL 185/2008 a favore dei collaboratori coordinati e continuativi che si trovano in particolari condizioni (monocommittenza, reddito lordo conseguito l’anno precedente non superiore a 20.000 euro e non inferiore a 5.000 euro, contributi accreditati nell’anno almeno un mese e nell’anno precedente almeno tre mesi, senza contratto da almeno due mesi). L’indennità consiste in una somma liquidata in un’unica soluzione, pari al 30% del reddito percepito l’anno precedente e non superiore a 4.000 euro.
Il sistema di ammortizzatori sociali, il quale risale agli anni ’70, è stratificato per effetto di una serie di interventi normativi che nel tempo hanno gradualmente esteso le tutele iniziali per far fronte a nuove esigenze, senza, tuttavia, definire un sistema compiuto e aggiornato, ed è farraginoso con diversi soggetti istituzionali che a vario titolo intervengono nel finanziamento e nella gestione di tali interventi. La crisi economica è stata affrontata in Italia estendendo, dal 2009, la Cig in deroga, applicandola alle imprese che non contribuiscono alla Cig e ad alcune fasce di lavoratori atipici e rinnovando la Cig alla scadenza.
Il sistema degli ammortizzatori sociali è formato da numerose prestazioni, è diversificato per requisiti, importo e durata ed incompleto perché non mette nelle condizioni i lavoratori di rioccuparsi tramite un mix di servizi.
La riforma urgente degli ammortizzatori sociali deve porre attenzione alla persona e non al posto di lavoro, eliminando distorsioni e lacune del sistema attuale, e considerare i seguenti elementi:
- Politica attiva del lavoro. I sussidi economici vanno integrati da servizi efficaci di riqualificazione professionale e di outplacement finalizzati alla rioccupazione e condizionati alla partecipazione attiva alle iniziative di rioccupazione.
- Estensione degli ammortizzatori sociali. L’estensione degli ammortizzatori sociali può essere realizzata attraverso: - l’allargamento della platea delle imprese tenute a versare i contributi per finanziare il Welfare; - la ridefinizione del lavoro dipendente cosi come proposta da Ichino, Nerozzi e Madia nei loro disegni di legge (dipendenza economica, monocommittenza, livello di reddito) al fine di eliminare i falsi lavoratori autonomi ed allargare la base dei lavoratori dipendenti;
- Protezione uniforme e semplificata. L’unificazione delle prestazioni, con riferimento ai requisiti, agli importi ed alla durata, elimina i privilegi e le distorsioni del sistema e risponde alla domanda di equità sociale e di efficienza della spesa pubblica. La diversificazione dei sussidi è causa, oltre che di disparità di trattamento per lo stesso evento, di contrattazioni defaticanti e di difesa dello status quo. La durata e gli importi dei sussidi vanno unificati ed adeguati alle esigenze dei lavoratori ed alle migliori esperienze europee (Danimarca, Germania).
L’attuale sistema non sostiene adeguatamente i lavoratori e le imprese perché non prevede interventi che qualificano la spesa pubblica, mettano i disoccupati nelle condizioni di rioccuparsi e le imprese in crisi di effettuare chiare scelte di gestione che vincolano il livello di tutela per i lavoratori (es. lavoratori sospesi da aziende che non riprendono l’attività).
Lo status dei lavoratori, sospesi e licenziati, ci aiuta a delineare l’unificazione degli ammortizzatori sociali ed a classificarli in due categorie: - Cig ordinaria per i lavoratori sospesi; - Indennità universale di disoccupazione per i lavoratori licenziati.
Si potrebbero unificare gli ammortizzatori sociali in un’unica indennità universale di disoccupazione adeguata ed equa, superando i problemi che l’attuale sistema produce.
Condivido la proposta del Ministro del Lavoro, Elsa Fornero, sugli ammortizzatori sociali organizzati su due pilastri, Cig ordinaria per le crisi a tempo definito e sussidi di disoccupazione estesi, e del senatore Pietro Ichino di unificazione delle prestazioni di disoccupazione (90% del salario per il primo anno, 80% nel secondo e 70% nel terzo) e di attivazione di servizi efficaci di outplacement e di riqualificazione professionale.

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venerdì 24 febbraio 2012

Il futuro dell’impresa in Italia

Intervista a Matteo Colaninno, deputato, imprenditore ed ex presidente dei giovani industriali, a cura di Antonino Leone pubblicata su Sistemi e Impresa n. 2 – febbraio 2012
L’impresa italiana può dare un notevole contributo per uscire dalla crisi economica e finanziaria. Occorre utilizzare i fattori più adeguati per migliorare la posizione competitiva delle imprese italiane nel panorama internazionale. Di questo argomento ne abbiamo parlato con Matteo Colaninno, il quale è parlamentare e membro della commissione attività produttive e possiede una rilevante esperienza nel mondo imprenditoriale.
Peter Drucker asseriva negli anni ‘70 che l’obiettivo dell’impresa non è la massimizzazione dei profitti. Nel terzo millennio qual’è la funzione sociale dell’impresa?
Drucker, unanimemente riconosciuto come un guru del management, aveva una straordinaria capacità di visione. Oggi possiamo considerare il suo messaggio ancora attuale, poiché la massimizzazione dei profitti o la creazione di valore per gli azionisti non possono essere obiettivi unici e assoluti nel tempo e la crisi che stiamo attraversando lo dimostra. L’approccio dello “shareholder value” che ha dominato il mondo manageriale negli anni più recenti si è infatti dimostrato inadeguato rispetto alla crisi, perché attribuendo un’enfasi eccessiva ai risultati (finanziari) di breve periodo mette in discussione il pilastro fondamentale della continuità aziendale, che certamente poggia anche sulla redditività e sulla solidità aziendale. Lo scenario del dopo crisi richiederà una gestione aziendale orientata alla capacità di adattamento e di innovazione, alla responsabilità sociale. Un’attenzione non più focalizzata esclusivamente sugli interessi degli azionisti, ma diffusa a tutti gli “stakeholders” rappresenta il passaggio decisivo per una rinnovata funzione sociale dell’impresa.
Nel periodo della rivoluzione industriale bastava produrre per conseguire il successo dell’impresa. Oggi invece il successo di un’impresa deriva da tanti fattori interni ed esterni. Quali sono i fattori più rilevanti per il successo di un’impresa? La capacità competitiva di un’impresa dipende da un “mix” di fattori, il cui peso può variare sensibilmente nel tempo o da settore a settore. Certamente, guardando anche alle imprese capaci di reagire alla crisi non solo in chiave di resistenza passiva, ma addirittura invertendo la tendenza, molto rilevanti appaiono la capacità di investire in innovazione, la qualità del capitale umano e la proiezione sui mercati globali.
Il sistema economico e sociale di un paese influisce sulla posizione competitiva dell’impresa. Quali sono i punti di forza e di debolezza del nostro sistema che influenzano la vitalità e la crescita delle imprese? Tradizionalmente, l’impresa italiana ha potuto contare su punti di forza come lo spirito di iniziativa, la grande operosità delle persone e il forte legame con il territorio di appartenenza, che hanno determinato la nascita e il successo di un modello imprenditoriale unico. Un risultato eccezionale, raggiunto nonostante i grandi limiti evidenziati dal sistema Italia nel suo complesso: burocrazia eccessiva, carico fiscale e contributivo elevato, deficit infrastrutturale, una finanza per l’impresa del tutto inadeguata. Non possiamo sottovalutare oggi la fragilità del nostro sistema industriale dinanzi alla crisi, né tantomeno le ristrutturazioni aziendali necessarie per ritrovare competitività in uno scenario profondamente diverso rispetto a quello ante 2008.
L’imprenditore a quali fattori interni all’impresa deve porre attenzione per adattare l’impresa ai cambiamenti del mercato?
Non vi è dubbio che i cambiamenti vadano possibilmente anticipati, per evitare pericolosi effetti di spiazzamento rispetto alle previsioni. Se ci riferiamo a cambiamenti di mercato comparabili a quelli devastanti fatti segnare dalla crisi in corso, allora diventano determinanti una dose di flessibilità del ciclo produttivo rispetto a bruschi cali della domanda da un lato e una gestione attenta del capitale circolante per prevenire la “sofferenza” finanziaria, come purtroppo è invece avvenuto per tantissime imprese finite poi in “default”.
Le imprese italiane fanno molto ricorso alle assunzioni precarie per abbassare i costi del personale ed adattare con facilità il proprio organico alla congiuntura. Nel contesto globale la competitività di una impresa può essere realizzata diversamente e con quali elementi? Una corretta dose di flessibilità del lavoro è essenziale per l’impresa, ma trovo illusorio che un certo abuso di questa leva possa condurre a qualcosa di differente dal rischio di precarizzazione dell’impresa stessa e della società intera. Al contrario, un’impresa che voglia competere seriamente nel contesto globale non può prescindere da un capitale umano di qualità. Ma altrettanto determinanti sono le risorse finanziarie a servizio degli investimenti – sempre più funzionali a una strategia di internazionalizzazione sotto forma di insediamenti produttivi nei Paesi a più alta crescita – e una costante attenzione al rapporto qualità-prezzo del prodotto, a causa di un consumatore medio divenuto molto esigente nei Paesi occidentali.
In questo momento di crisi non è facile per lo Stato trovare risorse ingenti da investire a favore del sistema imprese e nello stesso tempo non è facile attrarre investimenti esteri. Quali sono i motivi che non favoriscono gli investimenti esteri in Italia rispetto agli altri paesi? La bassa attrattività dell’Italia rispetto agli investimenti esteri è un dato ormai acquisito, che potrebbe risentire anche della decisione di alcuni gruppi stranieri di abbandonare – a torto o a ragione – il nostro Paese nel corso di questi ultimi anni. Le cause dello scarso “appeal” italiano sono numerose e ampiamente analizzate ogni anno dai report elaborati da istituzioni finanziarie e “think tank” di indubbio prestigio e affidabilità. L’Italia è percepita in media come un Paese difficile per “fare business”, a causa di un sistema costoso, poco flessibile e scarsamente efficiente. Sarà difficile rovesciare questa idea fino a quando, ad esempio, non verranno drasticamente ridotti i tempi necessari a tutelare un contratto (1.210 giorni, a fronte dei 518 giorni della media OCSE) e i costi legali, pari al 30% del valore di una causa (in Germania sono la metà).
Quali sono i provvedimenti più efficaci adottati del governo Monti a favore delle imprese? Il governo Monti già nel “salva Italia” ha previsto alcuni interventi molto utili: la deducibilità dell’Irap dall’Ires, l’irrobustimento dei fondi di garanzia per le PMI e la misura dell’ACE (allowance for corporate equity) per incentivare una maggiore capitalizzazione delle imprese, storicamente caratterizzate da una “leva” eccessiva rispetto al capitale di rischio. Le prime indicazioni in tema di riforma fiscale vanno nella giusta direzione e dobbiamo augurarci che, dopo le persone fisiche, arrivino provvedimenti funzionali all’abbassamento della pressione fiscale e contributiva che grava sulle imprese e sul lavoro.
Quali prospettive di riforma per il mercato del lavoro? È purtroppo facile ipotizzare che il lavoro almeno per quest’anno sarà ancora in sofferenza, con rischi di ulteriore perdita di occupazione, non solo a causa della recessione economica, ma anche delle ristrutturazioni aziendali a cui ho fatto cenno in precedenza. Guardando alla trattativa in corso sulla riforma del mercato del lavoro, la priorità spetterebbe dunque agli ammortizzatori sociali e alle tutele per i lavoratori. Il dibattito, invece, si è finora concentrato in maniera esagerata sull’articolo 18, che non pare in realtà rivestire un ruolo così determinante perché una maggiore libertà di licenziamento non si traduce affatto in un rilancio dell’occupazione. L’auspicio è che le parti sociali e il governo trovino una sintesi equilibrata, per approvare una riforma certamente utile e importante in un clima di coesione oggi ancor più essenziale del passato per il nostro Paese.

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giovedì 23 febbraio 2012

Il futuro del lavoro Il lavoro del futuro

E’ il tema dell'incontro organizzato dal PD di Verona presso l’Hotel San Marco, via Longhena 42 Verona, per il giorno 27 febbraio alle ore 20,45.
Il Tema dell’incontro è impegnativo ed interessante, considerata la trattativa tra il Governo e le rappresentanze sociali e sindacali che si sta svolgendo in questo periodo
Introduce e coordina l’incontro Roberto Fasoli, consigliere regionale del PD e Vice-presidente della Commissione Attività produttive;
- Michele Corso, segretario generale CGIL di Verona;
- Massimo Castellani, segretario generale CISL;
- Lucia Perina, segretario generale UIL di Verona;
- Luigi Mariucci, docente di diritto del lavoro alla Università di Venezia-Ca' Foscari e membro del Forum nazionale Lavoro del PD.
All'incontro sarà presente Michele Bertucco, candidato Sindaco per il comune di Verona.
“La trattativa sul lavoro, afferma Roberto Fasoli, è ad un punto molto delicato e credo serva grande prudenza e determinazione per arrivare ad un accordo tra governo e parti sociali. Il ruolo del sindacato è di estrema delicatezza e la ritrovata unità d'azione va preservata con cura. Il PD deve lavorare per un'intesa vera che tenga assieme le forze sociali e parli a tutto il mondo del lavoro. Impresa non facile, considerato che sembra farsi strada un’opinione, tutt’altro che da sottovalutare, per la quale si può andare avanti anche senza l’accordo con le parti sociali. Ha fatto bene Bersani ad avvertire che se non c’è accordo il voto favorevole del PD non è scontato. Il PD infatti deve considerare fondamentale il rapporto con le parti sociali e in particolar modo con le organizzazioni sindacali dei lavoratori. Nessuno può ignorare quanto sia difficile oggi dare risposte concrete e solidali ad un mondo del lavoro estremamente frammentato e il sindacato non va sterilmente criticato ma aiutato, se pur da una posizione distinta e autonoma come deve essere quella di un partito, a trovare la strada per riuscire a costruire diritti e tutele per l’insieme del mondo del lavoro, con una particolare attenzione alle fasce più deboli che non solo giovani e donne ma anche i lavoratori espulsi dai processi produttivi in età avanzata, che faticano a rientrare nel mondo del lavoro”.
“Resta inoltre inteso, conclude Fasoli, che senza una ripresa dell’economia, frutto di adeguate politiche industriali e di bilancio, nessuna riforma del mercato del lavoro potrà garantire l’occupazione e il superamento del precariato, vera piaga sociale. Molti sono i temi relativi al lavoro oggetto della difficile trattativa in atto e di ciò si parlerà nell’incontro organizzato dal PD di Verona per lunedì 27 febbraio alle 20.45 (Hotel San Marco di Verona)”.
Ritengo che vi siano le condizioni da parte del Governo, delle organizzazioni sindacali ed imprenditoriali di realizzare un buon accordo sul mercato del lavoro e sugli ammortizzatori sociali, affrontando i problemi reali dell’Italia (sostegno più ampio ai lavoratori, competitività delle imprese e prospettive certe per i giovani, le donne ed i precari). Occorre privilegiare tutto questo e non favorire i tatticismi e le pseudo strategie del dopo Monti perché ancora non siamo usciti dalla crisi economica e finanziaria.
Inoltre, l’incontro è un’occasione per approfondire il tema del lavoro: il lavoro ieri, oggi e domani.

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mercoledì 22 febbraio 2012

La voce dei giovani

I ventenni scrivono al premier e al ministro del lavoro
Cari presidente del Consiglio e ministro del Lavoro, in queste ore si discute ovunque della riforma del mercato del lavoro. Il contributo di noi studenti ventenni giunge in forma sincera e spontanea, il nostro non è tifo scriteriato né corporativismo generazionale: è serio interesse per il futuro, anche occupazionale, che ci vedrà giocoforza protagonisti. Riteniamo doveroso partecipare al dibattito con le nostre proposte e osservazioni: si ragiona di diritti (che ci sono negati, si potrebbe aggiungere) e vorremmo offrire il nostro modesto punto di vista. Le idee che proviamo a riassumere in questa lettera aperta non trovano spazio nello scontro ideologico in atto, anche perché non germogliano all' interno di esperienze rigidamente consolidate; non ci riteniamo «arruolati» nello schema ottocentesco di sigle ed etichette: anzi ci spiace che le scorciatoie lessicali abbiano avuto la meglio sui contenuti. Siamo colposamente sospesi tra il vuoto di aspettative ed il miraggio di sicurezze, senza possibilità di metterci in gioco con le stesse garanzie che i nostri padri e i nostri nonni si vedono attribuite. Proprio nelle scorse settimane Lei è intervenuto a proposito della necessità di ridare opportunità concrete a chi oggi rischia di restare senza tutela alcuna. Il mondo cui ci affacciamo ci pare follemente bipartito: da un lato i privilegi acquisiti, dall' altro le occasioni perse.
Dal guado in cui rischiamo di essere intrappolati, non tolleriamo che - come troppo spesso accade - le posizioni su un argomento tanto delicato cedano alla banalizzazione del partito preso. Vorremmo essere cittadini maturi di un Paese in cui ci si rivolge ai giovani con un occhio di riguardo e siamo convinti che ora si possa realizzare la tanto agognata inversione di rotta: è tempo di premere l' acceleratore sulle riforme. È inoltre evidente che, solo se si riuscisse a puntare tutto sulla nostra generazione, anche la vicenda economica nazionale ne trarrebbe diretto vantaggio. «Tutelare un po' meno chi è oggi tutelato e tutelare un po' di più chi oggi è quasi schiavo nel mercato del lavoro o proprio non riesce ad entrarci». Concordiamo senza dubbio con le parole del presidente; quanto al metodo, aggiungiamo pure che, in questo momento di trattative serrate, si rischia di lasciare fuori dal tavolo della concertazione un' intera categoria di portatori di interessi: quella di noi giovani. La nostra voce è stata marginalizzata e resa afona, anche per via di nostre comprovate responsabilità: abbiamo subito le decisioni e consentito che la nostra indifferenza lasciasse ampi spazi di manovra a chi non ha avuto a cuore le nostre sorti. Nel sistema economico in cui operiamo, è richiesta la capacità di essere competitivi e dinamici: non abbiamo scritto noi le regole del gioco ma siamo tenuti a rispettarle per vincere la sfida della crescita. Anche le imprese italiane quindi, per offrire nuova occupazione e competere a livello internazionale, devono poter «stare sul mercato». Abbiamo forti speranze ed una notevole fiducia in questo esecutivo, crediamo insomma che sia il momento giusto per osare. Chiediamo che si rinunci definitivamente al clima di discriminazione nei confronti dei giovani. È un errore cui occorre porre rimedio, in fretta: spostare la bilancia del futuro dal privilegio al merito è l' impegno con cui vorremmo si cimentassero in questo momento le istituzioni patrie. Sappiamo che il dibattito è attorcigliato attorno a temi abusati, rinunciamo dunque a parlarne per evitare l' autoreferenzialità del già detto. Non ci scandalizza che si cominci a ragionare del cosiddetto «motivo economico o organizzativo per il licenziamento», nell' ottica di una intelligente spinta riformatrice. Oggi imprenditore e lavoratore si muovono nella stessa direzione e condividono i medesimi obiettivi, entrambi vogliono il bene dell' azienda. Si aggiunga che il «nanismo» del settore imprenditoriale è anche cagionato da norme oggi superate, che hanno finito per imporre un regime di incertezze in cui risulta vincente il precariato come modello d' impiego, specie per i giovani. Non ci stiamo: proprio perché crediamo di valere molto, ci diciamo pronti alla sfida. Si valutino merito, creatività e talento: si premino i più bravi attraverso un nobile sistema di incentivi economici e sociali. Quella che auspichiamo è anche una riforma culturale, i nostri padri oggi vivono nella bambagia delle tutele grazie ad un «dispetto generazionale»: siamo costretti noi tutti a soccombere rispetto alle mille garanzie che le generazioni che ci hanno preceduti si sono arbitrariamente assegnate. È tempo di ristabilire le priorità e allocare con equità i necessari sacrifici: l' egoismo dei protetti, l' ingordigia dei privilegiati sono malattie che rischiano di ammorbare il nostro avvenire. Scommettiamo senza indugio nella flessibilità e distribuiamo lealmente le tutele: sono queste le nostre richieste, in sintesi. Le sigle politiche che hanno guidato il Paese negli ultimi decenni, anche per via di un ossequio screanzato verso la propria base elettorale, hanno totalmente escluso il tema del lavoro dall' agenda di governo. Hanno così prevalso le forze della conservazione costringendo il Paese a rinunciare alla sua anima «solida» e «solidale». Fate presto, vi scongiuriamo. Sappiamo che la squadra di governo è al lavoro per ridisegnare i contorni normativi della materia, ci piacerebbe tenesse conto dei nostri spunti. Signor presidente, non neghi neppure ai giovani la chance di ripartenza e «rimuova gli ostacoli di ordine economico e sociale» che hanno finito per realizzare l' attuale regime di apartheid occupazionale fra protetti e non protetti. Buon lavoro da tutti noi. Antonio Aloisi, Milano Annalaura Sbrizzi, Napoli Matteo Scattola , Durham (Uk) Piero Majolo, Vicenza Matteo Leffi , Trieste Francesca Luvisotti, Roma Ilaria Lezzi , Lecce Timoteo Carpita, Roma Luca Signorello , Trapani Flavio Morrone, Salerno Giulio Giannelli , Gorizia Riccardo Vurchio, Modena Amedeo Enna , Udine Filippo Caiuli, Potenza Francesco Perin , Venezia Nicolò Politi, Catania Luigi De Maria , Perugia Ester Madonia, Catania Maria Dora Maresca , Avellino

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martedì 21 febbraio 2012

Verona: Del Rio e Castagnetti per Michele Bertucco

L’incontro con Graziano Del Rio, sindaco del Comune di Reggio Emilia e presidente dell’Anci, e Pierluigi Castagnetti, deputato del PD, ha deluso le aspettative di qualche giornalista che ha indagato sullo stato di salute del PD  nei confronti della candidatura di Michele Bertucco a Sindaco del Comune di Verona.
E’ stato scambiato il convegno del PD di Verona in una riunione di corrente dove bisognava decidere chissà che cosa.
Dalle dichiarazioni degli esponenti presenti al convegno risulta in modo inequivocabile che il candidato a sindaco per il comune di Verona per il PD e per tutto il centro sinistra è Michele Bertucco senza ombra di dubbio.
L’incontro è stato molto importante ed interessante per i contenuti espressi dai relatori, i quali hanno messo in risalto la cultura delle autonomie locali del PD che nessuna altra forza politica può reclamare. Infatti, l’impegno dei cattolici democratici  e della sinistra nelle autonomie locali ha lasciato delle testimonianze indelebili nella storia politica del nostro paese e nelle testimonianze attuali.
Graziano Del Rio ha sottolineato i valori che devono presidiare la gestione del comune, prima fra tutti il rapporto con la comunità ed i più deboli. Si ricorda che Reggio Emilia è il comune che si posiziona tra le prime posizioni per la qualità della gestione dei servizi pubblici e per la partecipazione dei cittadini. Quindi, una città guidata dal centro sinistra e da Graziano Del Rio in modo efficace ed efficiente.
Pierluigi Castagnetti ha richiamato la tradizione dei cattolici democratici, da Don Sturzo in poi, nelle autonomie locali ed ha sottolineato l’importanza delle competenze possedute dai politici.
L’incontro è stato aperto da Stefano Vallani, segretario cittadino del PD, che ha posto alcune questioni ai relatori sulla gestione dei comuni.
Michele Bertucco ha concluso gli interventi, proponendo all’attenzione del pubblico le criticità della città (società pubbliche, aeroporto, fiera, ambiente ecc.) ed il fallimento della Giunta di Flavio Tosi che è stata incapace di creare un sistema tra le forze istituzionali complessivamente considerate e le forze economiche della città al fine di posizionare Verona tra le città maggiormente sviluppate che sono in grado di attrarre i talenti (imprese e persone).
Antonino Leone, responsabile PA del PD di Verona, ha richiamato gli interventi dei relatori per quanto riguarda le competenze, la trasparenza e l’indipendenza da introdurre nella gestione del comune di Verona e da tenere presenti nell’impegno politico dei partiti scaligeri per il bene dei cittadini.

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sabato 18 febbraio 2012

Corruzione e presenza mafiosa

Articolo di Pierpaolo Romani, coordinatore di Avviso Pubblico, pubblicato sul Corriere di Verona il 18 febbraio 2012
Nelle ultime settimane, sono stati resi pubblici una serie di dati riguardanti lo stato della lotta alle varie forme di criminalità in Italia. In particolare, sul versante del contrasto alle mafie possiamo fare riferimento alle relazioni inaugurali degli anni giudiziari, alla relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia) relativa al primo semestre 2011 e, da ultimo, alla relazione della Direzione nazionale antimafia (Dna) che ha analizzato quanto accaduto in Italia dal luglio 2010 al giugno 2011.
Due i dati principali che emergono: il diffondersi della corruzione e l’espandersi della presenza mafiosa, soprattutto della ‘ndrangheta calabrese, nel Nord Italia e nell’economia legale, particolarmente nei settori dell’edilizia, dei trasporti, della grande distribuzione, della gestione e trattamento dei rifiuti e, in tempi recenti, anche nel settore del gioco.
Per quanto concerne il Veneto, nella relazione della Dna si sostiene che sulla base di una “strategia di delocalizzazione del crimine organizzato” la nostra regione sarebbe diventata terra di conquista della camorra alla quale, “per ragioni inspiegabili”, si sarebbe lasciato “campo libero” anche da parte della ‘ndrangheta calabrese, ormai massicciamente presente in Lombardia.
 Vista l’autorevolezza della fonte, questa considerazione va accolta con assoluto rispetto e valutata con la massima attenzione. Tuttavia, ci pare il caso di rammentare che, seppur in misura diversa da quanto sin qui emerso rispetto al territorio lombardo, anche in Veneto da anni si registra la presenza di esponenti della ‘ndrangheta. Nel 2008, ad esempio, la Commissione parlamentare antimafia, nella sua relazione sulla mafia calabrese, ha scritto che in Veneto opera la cosca dei Grandi Aracri di Cutro. Inoltre, tra la fine del 2009 e i primi giorni del 2012, la magistratura e le forze dell’ordine hanno svolto alcune operazioni che hanno portato all’arresto per traffico di droga, in provincia di Verona, di esponenti delle cosche di Corigliano Calabro e di Vibo Valentia. Beni per diverse centinaia di migliaia di euro sono stati sequestrati e confiscati ad ‘ndranghetisti residenti in provincia di Verona e di Belluno e due latitanti calabresi sono stati arrestati l’anno scorso nella provincia scaligera. Nel Comune di Garda, inoltre, come abbiamo già avuto modo di raccontare, ha operato il consorzio di imprese “Primavera”, oggetto di un’interdittiva antimafia da parte del prefetto di Reggio Emilia vista la presenza in esso di persone legate alla malavita calabrese.
Opportunamente, nella parte della sua relazione dedicata al Veneto, la Dna lancia l’allarme su due fenomeni delinquenziali, sui quali più volte abbiamo invitato a vigilare con la massima attenzione: l’usura e il riciclaggio. In un periodo di grande crisi, com’è quello che stiamo vivendo, è molto facile che esponenti delle organizzazioni mafiose, coadiuviati da insospettabili colletti bianchi, immettano nel circuito economico legale veneto dei capitali sporchi approfittando della difficoltà finanziaria e di liquidità nella quale versano diversi piccoli e medi imprenditori. La Dna, a tal proposito, cita due esempi. Il primo è quello di un signore siciliano, già oggetto di una misura di prevenzione patrimoniale e figlio di una persona che è stata arrestata con l’accusa di essere stata un prestanome di Bernardo Provenzano. In provincia di Treviso, questo signore e la sua consorte hanno acquistato una serie di immobili per 1,5 milioni di euro, una cifra incompatibile con la loro dichiarazione dei redditi. Il secondo esempio citato dai magistrati antimafia è quello dell’indagine “Serpe” dell’aprile 2011, che ha coinvolto una cinquantina di imprenditori nostrani, finiti in un giro usurario gestito da una compagine criminale collegata al clan camorristico dei casalesi.
A fronte di questi fatti, appare urgente riflettere su alcuni dati riportati in un altro documento ufficiale, l’ultima relazione della Dia, secondo la quale nel primo semestre 2011 in Veneto, rispetto ai sei mesi precedenti, le denunce per usura sono diminuite del 63% – unica regione in Italia a registrare un simile calo – passando da otto a tre mentre le segnalazioni di operazioni finanziarie sospette, effettuate soprattutto da banche, intermediari finanziari e dagli uffici della pubblica amministrazione, sono aumentate del 23%, passando da 698 a 861.
Certamente le forze dell’ordine e la magistratura stanno facendo un buon lavoro, nonostante la scarsità di persone e di mezzi. Ma tutto questo non basta. Il sentore che abbiamo è che il problema della presenza mafiosa in Veneto sia più pronunciato di quello che sinora è emerso e che ancora oggi diversi soggetti non denuncino tutto quello che sanno o che hanno subito. Chi sa deve parlare e denunciare. Chi denuncia deve essere assistito e non lasciato solo. Soltanto così il Veneto e l’Italia potranno liberarsi per sempre delle mafie.

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Le condizioni della precarietà

Articolo di Marco Simoni pubblicato sul Sole 24 Ore il 14 febbraio
Perché in Italia c’è la precarietà? In Germania, Francia e Regno Unito ci sono più giovani che da noi con una durata media del posto di lavoro inferiore a un anno. Eppure in quei paesi, a differenza che da noi, non esiste un discorso pubblico e privato così drammaticamente concentrato sulla precarietà. Evidentemente, si tratta di un tema che non si può afferrare solo con riferimento alla durata dei contratti di lavoro.
La precarietà intesa come condizione esistenziale che restringe gli orizzonti delle persone al presente, impedisce scelte dalla prospettiva più ampia e porta con sé uno stato di sofferenza individuale può essere ricondotta a tre cause.
La prima è certamente legata ai contratti temporanei, ma riguarda soprattutto le componenti non salariali. L’effetto “precarizzante” dipende soprattutto dall’assenza o quasi dell’insieme di diritti che formano parte integrante di una definizione piena di “lavoro decente” come suggerito dagli standard dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil): maternità, ferie, malattia e la protezione del reddito in caso di disoccupazione. Queste prerogative svolgono una funzione chiave nell’allargare le prospettive di scelta e di vita delle persone.
L’assenza di protezione del reddito assieme all’implicita assenza di tutele contro i licenziamenti arbitrari (anche a “capriccio”, o discriminatori) per i quali è sufficiente non rinnovare il contratto a termine, sono le ragioni fondamentali della caduta del potere contrattuale dei lavoratori a tempo. Infatti, in questo ambito, il conflitto capitale/lavoro è collassato: non perché i giovani lavoratori sono imbelli, ma perché la sproporzione di forze è soverchiante per l’effetto di due asimmetrie.
La prima è quella nei confronti dei datori di lavoro. Infatti, mentre la flessibilità senza protezioni espone i lavoratori a una concorrenza sfrenata, molte aziende, enti, studi professionali, sono schermati da una vera competizione di mercato.
La seconda asimmetria è quella tra lavoratori flessibili e lavoratori a tempo indeterminato che fa sì che qualsiasi decisione di ristrutturazione economica ricada innanzitutto, senza costi, e senza compensazione, sulle spalle dei primi, molto spesso con l’accordo esplicito dei sindacati che rappresentano, al contrario, solo i lavoratori a tempo indeterminato.
Privi di potere contrattuale, i lavoratori flessibili hanno visto i loro salari diminuire sempre più. Nel 1998 guadagnavano 70 euro in meno a settimana dei lavoratori standard, nel 2004 92 e nel 2010 ben 120 (dati Lombruni/Taddei 2009, Cgia di Mestre, 2010). Un’ulteriore conferma viene dall’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane riferita al 2008 che mostra come i redditi delle persone con meno di 44 anni siano aumentati di appena il 5% dal 1993 al 2008, mentre sono cresciut di circa il 25% i redditi di chi ha oltre 55 anni. Si tratta di un dato difficile da comprendere, se non con riferimento al fatto che le condizioni di lavoro flessibili hanno riguardato essenzialmente i lavoratori più giovani.
Per questa ragione il terzo tassello per afferrare il tema della precarietà riguarda la casa, perché appunto, a seguito delle riforme degli anni 90 e 2000, in Italia il dualismo del mercato del lavoro ha preso la forma di una spaccatura generazionale.
Dal 1996 al 2008, le case sono in media aumentate del 50% al netto dell’inflazione (Baldini, “La casa degli Italiani”, Il Mulino) e nelle grandi città anche molto di più. Questi aumenti colpiscono soprattutto i più giovani, che devono acquistare una casa o cominciare un contratto di affitto.
Ricapitolando: mentre i prezzi delle case subivano aumenti vertiginosi, i salari dei lavoratori flessibili diminuivano a causa del loro scarso potere contrattuale, in un contesto in cui essi erano anche privi di sostanziali protezioni sociali. Il concorrere di questi tre fattori ha determinato la precarietà che ormai caratterizza larghissimi strati della popolazione under 40 (infatti, in mancanza di anche uno solo di questi fattori, il senso di precarietà individuale si affievolisce di molto).
Dalla prospettiva suggerita da questa analisi è possibile valutare in modo diverso l’azione del governo. Infatti, piuttosto che concentrarsi sugli effetti immediati delle singole misure, diventa cruciale riflettere sulle loro interazioni. Assumono allora una nuova prospettiva le proposte di riforma della cassa integrazione e l’idea di un sussidio di disoccupazione generale; l’obiettivo di unificare il mercato del lavoro in una forma contrattuale largamente prevalente; le norme per lo stimolo della concorrenza recentemente approvate e quelle in cantiere; perfino il ripristino di una tassa sugli immobili che può contribuire (non essendo sufficiente) a raffreddare le dinamiche dei prezzi delle abitazioni.
Si tratta di misure molto diverse tra loro che contribuendo a rafforzare la coerenza complessiva del nostro sistema possono contrastare significativamente il dramma sociale ed economico della precarietà.

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giovedì 16 febbraio 2012

Pietro Ichino per una grande riforma del lavoro

Intervista al senatore Pietro Ichino a cura di Marina Nemeth pubblicata su http://www.firstonline.info/home 
Mario Monti accelera sula riforma del mercato del lavoro e la trattativa con le parti sociali si fa più serrata, fra dichiarazioni ufficiali e scoop, o presunti tali, come l'incontro segreto tra il premier il segretario della Cgil Susanna Camusso. La situazione è tutta in movimento, ma secondo alcuni comincerebbe a delinearsi una base di partenza per arrivare ad un compromesso onorevole che metta d'accordo tutti. E' davvero così? Lo abbiamo chiesto al senatore del Pd e giuslavorista Pietro Ichino.
Riforma del mercato del lavoro: secondo il premier Monti e il ministro Fornero “siamo vicini alle conclusioni”. La volontà del Governo di affrontare la questione senza tabù e in tempi rapidi ha costretto quantomeno sindacati e Confindustria a dialogare fra loro. Ma siamo sicuri che la strada sia diventata in discesa?
Non lo siamo affatto. L’impressione è che si stiano riducendo gli ostacoli di natura politica. Ma restano tutti gli ostacoli tecnici di una riforma di difficile fattura, nella quale più che in qualsiasi altra il diavolo si nasconde nei dettagli. In ogni caso dei grossi passi avanti si sono fatti in questo primo mese di confronto tra Governo e parti sociali.
La strategia di sindacati e Confindustria sembra quella di lasciare sullo sfondo il tema caldo dei licenziamenti. Non sarà un'intesa al ribasso?
Direi piuttosto che si tratta di un riconoscimento della grande difficoltà di un accordo tra sindacati e imprenditori su questo tema specifico, accompagnato però dalla rinuncia a fare barricate su questo stesso tema. Così, le parti potrebbero accordarsi tacitamente di affidare al Governo una sorta di mandato arbitrale, confidando che esso sappia esercitarlo in modo equilibrato. Tutto questo sul presupposto – fin dall’inizio ribadito dal Governo – che comunque la nuova disciplina non si applicherà ai rapporti già costituiti, ma soltanto ai nuovi, in funzione di una forte promozione dei contratti a tempo indeterminato.
Contrasto alla precarietà e ammortizzatori sociali: sono i nodi dai quali il sindacato vuole partire. Come si può farlo senza affrontare il nodo dell'articolo 18?
Effettivamente è difficile farlo. Si tratta, in sostanza, di attivare la transizione a un nuovo equilibrio più virtuoso, ispirato ai migliori modelli del nord-Europa, abbandonando il nostro vecchio “equilibrio mediterraneo” di cui l’articolo 18 costituisce una chiave di volta.
Lei è il sostenitore di un modello di flexsecurity – quello delineato nel disegno di legge n. 1873/2009 – che prevede un contratto prevalente a tempo indeterminato con la possibilità di licenziamento individuale per motivi economici, tecnici o organizzativi, ma con un indennizzo per i licenziati e un assegno di disoccupazione finanziato anche dalle aziende. Le imprese inoltre dovrebbero farsi carico della riqualificazione e del ricollocamento dei licenziati, con il rimborso da parte delle Regioni del relativo costo-standard di mercato. Le collaborazioni autonome in regime di monocommittenza dovrebbero essere ammesse solo oltre la soglia di 40 mila euro di reddito annuo. Oggi quante probabilità ci sono che questa soluzione venga adottata?
Il disegno di legge che lei ha citato propone anche una riscrittura integrale della nostra legislazione in materia di lavoro, con una sua drastica semplificazione: la riduce a una settantina di articoli brevi, chiari e scritti per essere traducibili in inglese. Non è plausibile che una riforma di questa portata possa essere varata in poche settimane come riforma generale, applicabile a tutti i nuovi rapporti di lavoro. Si può pensare, però, che un ordinamento così riformato e semplificato diventi oggetto di sperimentazione, nei casi limitati in cui una Regione e un’impresa intendano impegnarsi a sostenerne i costi. Così, per esempio, si potrebbe offrire a una multinazionale interessata a un insediamento nel nostro Paese di compierlo applicando a tutti i nuovi assunti questo nuovo ordinamento, con costi modestissimi o addirittura azzerati per lo Stato.
Ci sono Regioni e imprese disponibili per una sperimentazione di questo genere?
La provincia autonoma di Trento ha già posto ufficialmente la propria candidatura, mentre la provincia di Torino ci sta pensando seriamente. La Giunta regionale lombarda ha presentato un progetto di legge che contiene una disposizione in larga parte modellata su questa ipotesi. Quanto alle imprese, già quando venne presentato il mio disegno di legge, nel 2009 gli amministratori o responsabili del personale di 75 aziende di varie dimensioni e collocazioni geografiche inviarono una lettera aperta al ministro del Lavoro dichiarando la propria disponibilità a sperimentare il nuovo modello per i nuovi rapporti di lavoro.
Che cosa ci si aspetta dalla sperimentazione?
Se essa decollerà, questo potrà innanzitutto facilitare i nuovi investimenti dall’estero, i quali potranno avvalersi del nuovo ordinamento, più chiaro, semplice ed allineato ai migliori standard nord-europei. Poi, fra tre o quattro anni, potremo valutare pragmaticamente i risultati. Se constateremo che nelle aziende impegnate nella sperimentazione effettivamente le nuove assunzioni sono state quasi tutte a tempo indeterminato, e che i lavoratori eventualmente licenziati saranno stati trattati in modo civile, con tutte le garanzie previste per una loro sicurezza economica e professionale nettamente superiore e più efficace rispetto a quella che sarebbe stata garantita loro nel vecchio regime, a quel punto la decisione di generalizzare l’applicazione della nuova disciplina potrà essere presa senza lacerazioni. Se ci sarà qualche cosa da correggere, lo si potrà fare prima della riforma generale. Se invece si constaterà che il nuovo schema non ha funzionato, si cambierà strada.
Lei ha recentemente affermato che “Il no al posto fisso fa bene anche a chi non ce l'ha”: perché?
Quello che volevo dire è che la possibilità di muoversi, di scegliere, rafforza il potere contrattuale del lavoratore nei confronti dell’imprenditore. Non c’è legge, giudice, sindacato o ispettore che garantisca meglio la libertà, la dignità e la professionalità di chi lavora di quanto le garantisca la possibilità di andarsene sbattendo la porta da un’azienda perché ce n'è un’altra che offre un trattamento migliore. Per questo occorre un mercato del lavoro fluido non solo nella sua metà non protetta, ma anche in quella del lavoro regolare a tempo indeterminato: quella metà che oggi invece è molto vischiosa.
Se non capisco male, lei sostiene che, paradossalmente, l'articolo 18, misura nata per tutelare i lavoratori, ha finito per creare diseguaglianze e ha complicato la ricerca di lavoro di due generazioni di lavoratori (i giovani e quelli di ogni età usciti dal mercato del lavoro che non possono più reinserirsi): è così?
È proprio quello che voglio dire. Non è un caso che i nostri ragazzi oggi trovino facilmente un lavoro soddisfacente in Gran Bretagna, Olanda, Danimarca, Svezia, per non parlare degli Stati Uniti, mentre da noi, quando va loro bene e trovano qualche cosa, in nove casi su dieci trovano dei bad jobs.
Per diminuire la precarietà bisognerebbe dare alle imprese delle contropartite in termini di flessibilità, soprattutto in uscita. Da qui il dibattito su flessibilità buona e cattiva. Cosa ne pensa?
Dobbiamo superare l’idea, molto radicata nell’opinione pubblica di sinistra, che un rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza articolo 18 sia un rapporto precario, nel quale non è protetta la dignità e la libertà morale, politica e sindacale del lavoratore. In nessun altro Paese d’Europa si applica una disposizione di questo genere per i licenziamenti di natura economica od organizzativa: i nove milioni di lavoratori italiani a cui esso si applica sono meno del cinque per cento della forza-lavoro europea; non si può ragionevolmente affermare che il novanta per cento dei lavoratori europei operi in condizioni incompatibili con la loro libertà e dignità personale!
Viceversa, tutti coloro che esaminano da vicino l’esperienza in questo campo dei Paesi scandinavi, dove i vincoli al licenziamento per motivi economici od organizzativi sono ridotti al minimo ma è massimo l’impegno per garantire la sicurezza economica e professionale del lavoratore nel mercato, nel passaggio dal vecchio posto al nuovo, concordano nel riconoscere che essa costituisce un first best su scala mondiale.
Ma aggiungono che in Italia quell’esperienza non si può trasferire.
Perché mancherebbero le risorse e i servizi di alta qualità nel mercato del lavoro. Ma là dove Regioni e imprese siano disposte a metterci le risorse necessarie, anche per ingaggiare i migliori servizi di outplacement offerti dalle agenzie private, perché non dovremmo provarci anche noi?
Obiettano che da noi il mercato del lavoro è asfittico, non offre possibilità di ricollocazione.
Questa affermazione è vera soltanto in parte. È molto diffusa da noi la sottovalutazione di quello che offre il nostro mercato del lavoro. Per fare soltanto due esempi: entro i confini del Comune di Milano, nel corso del 2011 sono stati stipulati 108.000 contratti di lavoro. Nella Regione Veneto 843.000. Le persone che hanno perso il posto nello stesso anno in situazioni di crisi aziendali si contano con due zeri di meno. Certo, per quattro quinti questi nuovi contratti di lavoro sono a termine. Per questo è importante invertire il rapporto: dobbiamo fare in modo che i quattro quinti siano di rapporti a tempo indeterminato, e solo un quinto a termine.
Ma non potremo mai conseguire questo obiettivo, finché rapporto a tempo indeterminato vorrà dire applicazione dell’articolo 18. E poi dobbiamo sfruttare i giacimenti di occupazione che oggi ignoriamo: gli skill shortages, le decine di migliaia di posti che restano permanentemente scoperti in ciascuna regione per mancanza di personale con una formazione adeguata. E dobbiamo aprire il sistema agli investimenti stranieri: se riuscissimo ad allinearci alla media europea per questo aspetto, questo significherebbe più di 50 miliardi di investimenti esteri in più ogni anno nel nostro Paese: centinaia di migliaia di posti di lavoro aggiuntivi. Ma questo presuppone semplificazione e allineamento della nostra legislazione a quelle dei Paesi più avanzati.
Cassa integrazione: così come è oggi questo strumento è diventato una sorta di welfare che non aiuta il lavoratore a riqualificarsi e a rientrare nel mercato. Come cambiarla?
La Cassa integrazione non può svolgere questa funzione, per il semplice motivo che è uno strumento concepito per l’obbiettivo esattamente opposto: quello di tenere legato il lavoratore all’impresa da cui dipende, nei periodi di difficoltà temporanea. Quando invece è certo che il lavoro non riprenderà mai più presso l’azienda di provenienza, occorre attivare uno strumento diverso, che si chiama trattamento di mobilità o di disoccupazione, e che deve essere coniugato robustamente con iniziative di assistenza intensiva per il reperimento della nuova occupazione e per la riqualificazione mirata del lavoratore. Il sostegno del reddito di chi ha perso il posto deve essere anche più elevato rispetto a quello garantito dalla Cassa integrazione, ma sempre condizionato alla partecipazione attiva del lavoratore alle iniziative per il reperimento della nuova occupazione.
La Cgil resta ferma nel suo granitico no ad alcuna modifica all'articolo 18. Cisl e Uil hanno invece aperto ad alcune “manutenzioni”: sia Bonanni, sia Angeletti propongono di tagliare i tempi delle sentenze sui licenziamenti e di sottrarre il licenziamento per motivi economici dal campo di applicazione dell’articolo 18. Sono proposte convincenti?
Sullo sveltire la soluzione delle controversie, tutti sono d’accordo; ma se anche riuscissimo a ridurre la durata media dei procedimenti dai sei-otto anni attuali a due o tre, il problema per i licenziamenti di natura economica od organizzativa non sarebbe risolto: un’impresa non può attendere due anni prima di sapere se una ristrutturazione o una riduzione degli organici sono convalidate dal giudice. D’altra parte, l’esperienza insegna che la valutazione dei giudici sul motivo economico od organizzativo di un licenziamento è sempre estremamente aleatoria, anche perché si tratta di questione sempre altamente opinabile, in una materia nella quale i giudici non hanno la competenza tecnica necessaria.
Si dice che il giudice dovrebbe limitarsi ad accertare l’effettività della scelta imprenditoriale, ma non è quasi mai effettivamente così: il giudice valuta anche se il lavoratore licenziato non potesse essere utilizzato altrove, se non si potessero esperire misure alternative, e così via. Per questo motivo è molto importante l’apertura della Cisl e della Uil a una soluzione che limiti il compito del giudice – e quindi l’applicazione dell’articolo 18 – all’accertamento e repressione del licenziamento discriminatorio o di rappresaglia, e che per il licenziamento economico-organizzativo preveda una tecnica protettiva diversa, tesa a responsabilizzare l’impresa, entro un limite predeterminato, per la sicurezza economica e professionale del lavoratore licenziato.
Pensioni, mercato del lavoro, liberalizzazioni e riforma fiscale sono i quattro pilastri sui quali costruire un nuovo cambio di rotta in Italia. A suo avviso il Governo deve andare avanti anche se il sostegno delle parti sociali risultasse impossibile?
Quello della concertazione è un metodo utilissimo, che può dare a un Paese una marcia in più. Ma per funzionare, quel metodo presuppone che tra il Governo e le associazioni sindacali e imprenditoriali ci sia almeno una visione comune degli obiettivi da raggiungere e dei vincoli da rispettare. Se manca quel prerequisito, il metodo della concertazione diventa una palla al piede per il Governo, un fattore di paralisi. Nella situazione attuale di crisi economica straordinaria e di pericolo non del tutto superato di default in cui versa l’Italia, anche solo un rallentamento della capacità decisionale del Governo potrebbe essere molto rischioso, anche per l’immediata perdita di credibilità che ne deriverebbe, agli occhi degli operatori internazionali, per il programma di risanamento e di stimolazione della crescita economica del Paese.
Sono questi i motivi per cui Mario Monti in queste settimane sta cercando molto intensamente il più largo consenso possibile delle parti sociali sugli obiettivi e i vincoli da rispettare, nell’opera di riforma del mercato del lavoro; e, sulla base di quello, sta sollecitando una negoziazione rapida delle scelte tecniche praticabili per raggiungere quegli obiettivi. Ma, se il consenso dovesse venir meno al tavolo del confronto con le parti sociali, il Governo non avrebbe altra scelta che presentare in tempi molto brevi un proprio progetto coerente con quegli obiettivi alle forze politiche che lo sorreggono, e spostare la discussione in Parlamento. Mi sembra, comunque, che l’evoluzione della trattativa in questi ultimi giorni consenta di sperare che un accordo entro la fine di febbraio si raggiunga.

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mercoledì 15 febbraio 2012

Michele Boldrin e Maurizio Lupi a Ballarò



Ballarò 14 febbraio 2012 - Il dibattito sulla situazione economica dell'Europa tra il vicepresidente della Camera dei Deputati Maurizio Lupi e il docente di economia Michele Boldrin.

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venerdì 10 febbraio 2012

Ammortizzatori sociali, importi 2012

L'Inps con la circolare n. 20 dell'8 febbraio 2012 ha fissato i nuovi importi massimi degli ammortizzatori sociali
Si indicano di seguito gli importi:
1) Trattamenti di integrazione salariale:  
- per retribuzioni inferiori o uguali a 2.014,77 euro

euro 931,28 (netto 876,89)
- per retribuzioni superiori a 2.014,77 euro
euro 1.119,32 (netto 1.053,95)
2) Cassa integrazione settore edile (intemperie stagionali):
- per retribuzioni inferiori o uguali a 2.014,77 euro
euro 1.117,54 (netto 1.052,28)
- per retribuzioni superiori a 2.014,77 euro
euro 1.343,18 (netto 1.264,74)
3) Indennità di mobilità:

- per retribuzioni inferiori o uguali a 2.014,77 euro
euro 931,28 (netto 876,89)
- per retribuzioni superiori a 2.014,77 euro
euro 1.119,32 (netto 1.053,95)

4) Trattamenti speciali di disoccupazione per l’edilizia:
- euro 608,90 (lordo) e euro 573,34 (netto).
5) Indennità ordinaria di disoccupazione non agricola: 
- per retribuzioni inferiori o uguali a 2.014,77 euro
euro 931,28 (netto 876,89)
- per retribuzioni superiori a 2.014,77 euro
euro 1.119,32 (netto 1.053,95)
6) Indennità di disoccupazione a requisiti ridotti:
Restano in vigore gli importi stabiliti per tale anno e indicati nella circolare n. 25 del 4 febbraio 2011, rispettivamente 906,80 euro e 1.089,89 euro.
7) Assegno attività socialmente utili:
L'importo dell'assegno mensile dal 1 gennaio 2012 sarà pari a 556,00 euro.
8) Lavori di pubblica utilità:
Per tale istituto non si applicano rivalutazioni, l'importo dell'assegno mensile rimane quindi anche per il 2012 pari a 413.16 euro.
Circolare INPS n. 20 dell’8/02/2012

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mercoledì 8 febbraio 2012

Michele Bertucco: rilanciare Verona insieme ai cittadini

Liberare nuove energie per guardare con più fiducia al futuro: di questo Verona ha bisogno secondo Michele Bertucco. Messa all'angolo dagli scontri di potere della politica, la città deve poter ritornare a contare sulle proprie forze più genuine, fondate sul merito piuttosto che sul nepotismo, sulla passione civica piuttosto che sulle convenienze politiche, sulla dedizione per l'interesse generale piuttosto che sul calcolo utilitaristico. Così Verona potrà superare la crisi.
A due mesi dall'investitura delle Primarie del 4 dicembre scorso, e al termine di un ciclo di incontri nei quartieri, con i referenti delle categorie e della associazioni economiche che hanno consentito di delineare il quadro entro il quale organizzare gli interventi, Michele Bertucco oggi presenta la campagna elettorale.
VeronaPartecipa è l'iniziativa con la quale si vuole chiamare a raccolta con un percorso di progettazione condivisa le migliori energie veronesi, fino ad oggi escluse o frenate da un sistema di gestione politica chiuso e particolaristico.
Cittadini, Associazioni, Comitati, persone impegnate a qualsivoglia titolo nelle nostre Comunità possono concorrere attivamente a definire tale disegno condiviso di città, al di là degli steccati fino ad oggi posti da questa politica.
“La strategia dei veleni e gli scontri di potere nelle stanze della politica veronese - dice Michele Bertucco - stanno frenando la nostra città, che invece ha risorse per uscire dalla crisi. Verona è migliore di quello che emerge dalle inchieste sulla sua classe politica. Voglio creare le condizioni perché i veronesi meritevoli, quelli che lavorano e si impegnano per la loro comunità, possano intervenire sulle decisioni più importanti. Intendo riaprire spazi per il dialogo e il confronto. Il mio sarà un progetto fatto insieme ai cittadini, con tutti i veronesi che vogliono far crescere la nostra città”.
“In tutti i più importanti passaggi della sua storia – continua Bertucco – Verona ha sempre potuto contare su alcune grandi agenzie di sviluppo che ne hanno saputo rilanciare il benessere, come il Consorzio Zai, la Fiera, la Fondazone Arena. Ora questo fondamentale supporto viene sempre meno per mancanza di un progetto condiviso con la città. Si vendono quote crescenti di patrimonio pubblico, non solo immobiliare, senza una strategia complessiva. Si mantengono invece partecipazioni ormai obsolete in nome di disegni ideologici come le 'autostrade del Nord'. Si rinuncia a dare risposte alla desertificazione industriale che mette a rischio il lavoro dei giovani e minaccia di trasformare in dormitori i quartieri. Una parte della stessa imprenditoria sa bene che siamo in una fase delicatissima in cui non si può più pensare di continuare soltanto a sfruttare posizioni di rendita”.
“Ed ecco perché oggi siamo in aeroporto, altro fondamentale pilastro dello sviluppo del territorio – conclude Bertucco – lo scalo di Villafranca è un bene comune che dobbiamo mettere al servizio di un progetto di rilancio internazionale di Verona che ci riavvicini all'Europa e al mondo".
Michele Bertucco ha presentato il suo staff che lo affincherà durante la campagna elettorale.
Per Info:
Michele Marcolongo
Ufficio Stampa Comitato Bertucco
Tel. 3409200245
E-mail: michelemarcolongo@yahoo.it
Sito web http://www.veronapartecipa.it/

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martedì 7 febbraio 2012

Pd e Michele Bertucco, aeroporto Catullo di Verona

Conferenza stampa del PD. Michele Bertucco lancia l’iniziativa “Verona partecipa”, mercoledì 8 febbraio alle ore 11,30 presso l’aeroporto Catullo.
Il PD attacca Lega e Pdl sulla gestione dell’aeroporto Catullo
“Chi pensava che con l’assunzione di parenti nelle aziende pubbliche del Comune il peggior malcostume politico di Lega e PDL avesse raggiunto il culmine, si sbagliava.
Nel nostro aeroporto le pratiche spartitorie erano il sistema e superavano ogni immaginazione.
Uno scalo gioiello ridotto in miseria, mentre le assunzioni correvano sul solito manuale spartitorio sul quale le destre sono ben allenate. Compresa la Lega, ex partito del cappio.
La propaganda già in campo non potrà mai nascondere quel metodo. Dalle dichiarazioni di Bortolazzi e Pennacchia emergerebbe una grave accusa: i soci del Catullo, quindi, anche Comune e Provincia, chiedevano e si dividevano le assunzioni sulla base delle quote possedute. Insomma, mentre la nave affondava il Capitano si dimenava tra gli ordini di assumere.
Se non è così Tosi e Miozzi lo dicano, ma con prove pubbliche e certificabili.
Il tema vero, però, non è giudiziario!
Non creda la solita politica che la cosa si risolve in Tribunale.
Ben venga l'inchiesta, massima fiducia nell’operato della Magistratura veronese per fortuna attenta su queste situazioni, ma il malcostume politico scoperto non è censurabile in base alle indagini.
Assumere i parenti o persone con metodi spartitori, anche se fatto nelle regole, è un dato moralmente e politicamente inopportuno e nessun Tribunale può dare un giudizio sul malcostume politico dimostrato dalla Lega Nord e dal PDL.
I veronesi hanno gli stessi diritti dei parenti e degli assunti per lottizzazione!
Il tema è politico e solo in quella sede può essere risolto. Il Partito Democratico chiede che i soci Comune e Provincia istituiscano una commissione consiliare d'inchiesta sull’aeroporto, formata da consiglieri provinciali e comunali, che entro due mesi:
- monitori le modalità, i tempi e le procedure seguite nelle assunzioni;
- valuti le effettive esigenze di servizio a supporto delle assunzioni operate;
- analizzi i curriculum, le competenze e le esperienze professionali maturate e la relativa corrispondenza di queste con le mansioni affidate;
- elabori una proposta volta ad eliminare qualsiasi ombra sulle procedure da seguire in futuro per le assunzioni.
Temi eminentemente politici che solo la politica può affrontare. Non occorre aspettare l'esito delle indagini per farlo. Chi dovesse chiederlo ha solo l'obiettivo di dilazionare il doveroso chiarimento politico e acquisirne una presunta patente di legittimità per comportamenti inopportuni e censurabili.
Un malcostume politico che non deve più ripetersi affinché il nostro aeroporto riprenda a volare”.
Replica di Vincenzo D’Arienzo, segretario del PD di Verona, al Sindaco Flavio Tosi
"Risposta scontata e prevedibile. Lo avevo detto prima ancora che Tosi rispondesse perché è un cliché che usa puntualmente, ed ero sicuro che l'avrebbe detto anche adesso". Il segretario Pd Vincenzo D'Arienzo commenta così la replica sprezzante del Sindaco alla proposta del Pd di istitutire una commissione consiliare d'inchiesta sullo scandalo che sta riguardando l'Aeroporto. "Come per Parentopoli, dove ha usato lo stesso schema - continua D'Arienzo - ha timore di quanto dalla commissione consiliare potrebbero emergere. I membri dei consigli provinciale e comunale hanno il dovere di capire se presidente e sindaco hanno correttamente adempiuto ai propri compiti di socio, tra i quali c'è appunto il controllo sulle aziende partecipate. Spartirsi le assunzioni o assumere parenti può essere fatto anche secondo le regole, ma resta immorale, disdicevole e nega il futuro a tanti giovani probabilmente più capaci. Nel sistema denunciato, la risposta dilatoria di Tosi offende anche il buon senso".
Rilanciare Verona insieme ai cittadini
Michele Bertucco presenta il suo percorso per progettare una nuova città con la partecipazione delle migliori energie veronesi
Mercoledì 8 febbraio 2012, alle ore 11.30 con ritrovo davanti alla sala partenze dell’Aeroporto Valerio Catullo a Villafranca di Verona, Michele Bertucco, candidato Sindaco per le prossime elezioni amministrative di Verona, lancerà l'iniziativa "Verona Partecipa" con la quale chiama a raccolta le migliori energie veronesi per la costruzione del suo progetto per la città.
Durante l'incontro sarà presentata la squadra che affiancherà e organizzerà la campagna di Michele Bertucco e il progetto “Verona Partecipa”, il percorso di progettazione partecipata con cui Cittadini, Associazioni e Comitati potranno concretamente concorrere alla definizione del progetto della nuova Verona.
“La strategia dei veleni e gli scontri di potere nelle stanze della politica veronese - dice Michele Bertucco - stanno frenando la nostra città, che invece ha risorse per uscire dalla crisi. Verona è migliore di quello che emerge dalle inchieste sulla sua classe politica. Voglio creare le condizioni perché i veronesi meritevoli, quelli che lavorano e si impegnano per la loro comunità, possano intervenire sulle decisioni più importanti. Intendo riaprire spazi per il dialogo e il confronto. Il mio sarà un progetto fatto insieme ai cittadini, con tutti i veronesi che vogliono far crescere la nostra città”.
Michele Bertucco ha scelto l'aeroporto per la presentazione del suo progetto perché assieme a Fiera, Fondazione Arena e Consorzio Zai è uno dei luoghi-chiave per lo sviluppo e il futuro di Verona. Il fango delle accuse di spartizioni, favori e nepotismo rappresentano le ceneri da cui il sistema economico e socio-politico di Verona deve risollevarsi, privilegiando merito, passione civica e cura per l'interesse generale sopra ogni interesse particolare.
"Lo scalo di Villafranca è un bene comune - afferma Bertucco - che dobbiamo mettere al servizio di un progetto di rilancio internazionale di Verona che ci riavvicini all'Europa e al mondo".

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lunedì 6 febbraio 2012

Mercato del lavoro, qualcosa si muove

Dopo le interviste rilasciate da Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti si è aperto uno spiraglio nel confronto tra le parti sociali ed il Governo su alcuni temi di difficile confronto.
Raffaele Bonanni nell’intervista si è dichiarato disponibile ad una robusta manutenzione dell’art. 18 e non alla sua abolizione che indebolirebbe le tutele dei lavoratori contro le discriminazioni e la difesa della dignità e la libertà dei lavoratori.
Luigi Angeletti propone una legge sul licenziamento per motivi economici e la garanzia di una corsia preferenziale per le cause di licenziamento di fronte al giudice del lavoro.
Sembra, quindi, che sulle norme che regolano i licenziamenti le parti sociali ed il Governo potranno confrontarsi per eliminare le inefficienze del sistema che si ripercuotono sulle assunzioni e sul sistema degli ammortizzatori sociali.
Si spera che la Cgil superi le posizioni ideologiche sull’art. 18 e sia disponibile a discutere su queste problematiche, la cui risoluzione deve essere coerente con gli interessi generali del paese.
Occorre ricordare che nessuno degli esponenti del centro sinistra è favorevole alla eliminazione dell’art. 18 e che gli attacchi in difesa dell’art. 18 e rivolti ad alcuni esponenti politici e professionisti, i quali intendono riformare il sistema dei licenziamenti per motivi economici ed organizzativi, sono strumentali.  
Si riporta parte dell’intervista a Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, di Giorgio Pogliotti pubblicata su Il Sole 24 Ore del 5 febbraio 2012
Al tavolo tutti sono d'accordo sul mantenimento delle tutele dai licenziamenti discriminatori. Crede sia possibile ragionare sul resto?
Se l'articolo 18 è un ostacolo per alcune inefficienze parliamone. Siamo disponibili ad una robusta manutenzione, ma non all'abolizione che indebolirebbe le tutele dagli abusi e dalle discriminazioni. Ci sono problemi come le lungaggini dei processi, su cui si può intervenire con norme forti che riducano drasticamente i tempi. Tiriamo fuori dall'area dell'articolo 18 questioni come i licenziamenti economici, nella parte che si presta a distorsioni in caso di ricorso alle vie giudiziarie. Troviamo soluzioni per evitare che si allunghino con artifici i tempi, danneggiando lavoratori e aziende. In caso di prolungamento eccessivo dei tempi, lo Stato potrebbe farsi carico del costo dell'inefficienza. Ma il Governo non può essere più realista delle imprese che considerano una robusta manutenzione la scelta più idonea.
Quali sono i punti su cui ritiene vi sia maggiore condivisione al tavolo? C'è sintonia sulle forme principali di sostegno al reddito. Serve un intervento di restyling per rendere più efficiente il sistema. Credo ci si possa mettere d'accordo su soluzioni anche drastiche per assicurare che il periodo in cui si usufruisce di un ammortizzatore sociale venga usato per l'aggiornamento professionale, fino alla perdita dell'indennità in caso di rifiuto di un lavoro. C'è bisogno di un meccanismo deterrente, penso si possano trovare soggetti al di fuori dei consueti e spesso inefficaci sistemi di controllo, con un maggior coinvolgimento delle agenzie interinali, entità ben strutturate che possono attivare meccanismi virtuosi. Tanto più rendiamo questi sistemi di sostegno al reddito trasparenti ed efficaci, tanto più la loro funzione sarà conservata.
Si riporta parte dell’intervista a Luigi Angeletti, segretario generale della Uil, di Alessandro Barbera pubblicata sul Corriere della Sera del 6 febbraio 2012 Segretario Angeletti, il fronte del no alla modifica all’articolo 18 non è più granitico. Il suo collega della Cisl Raffaele Bonanni dice di essere disponibile a valutare una sua «robusta manutenzione». Lei che ne pensa? «L’articolo 18 riguarda la tutela dei licenziamenti senza giustificato motivo, ovvero quelli discriminatori. Credo che nessuna persona sana di mente voglia e possa togliere questo diritto ai lavoratori. Ma se le ragioni economiche per la fine del rapporto di lavoro ci sono, e nell’articolo 18 sono scritte in un modo che risultano troppo complicate per essere affermate, allora scriviamole queste benedette ragioni».
Mi scusi segretario, in sostanza lei è favorevole a modificarlo. Ci può spiegare meglio? «Voglio dire che per quanto mi riguarda l’articolo 18 va bene così com’è. Nel 1970 fu scritto dai migliori giuristi in circolazione. Ma se in quel testo c’è una lacuna, se il mondo nel frattempo è cambiato e occorre sancire un principio, sono disposto a dire sì ad una legge che dica esplicitamente - fatte salve le ragioni discriminatorie - quando il licenziamento è consentito per motivi economici».
Giovedì avrete un nuovo incontro col governo. Metterà questa proposta sul tavolo? E’ convinto che da un punto di vista giuridico la sua ipotesi sia percorribile? «Certo che sì. Soprattutto se verrà accompagnata da una norma che crea una corsia preferenziale per le cause di licenziamento di fronte al giudice del lavoro».
Adesso non ci rimane che aspettare il prossimo confronto tra le parti sociali ed il Governo per capire quali cambiamenti sono avvenuti.
Intervista a Raffaele Bonanni
Intervista a Luigi Angeletti

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Prospettive dei giovani disoccupati

Articolo di Luca Ricolfi pubblicato su La Stampa il 5 febbraio 2012
Disoccupazione giovanile, articolo 18. Prima di discuterne, forse bisogna ricordare alcune verità.
La prima è che i giovani disoccupati non sono affatto 1 su 3, come da mesi si sente ripetere senza tregua, ma 1 su 14. Per l’esattezza: non il 33%, bensì il 7,1% della popolazione nella fascia dai 15 ai 24 anni. Più o meno quanti erano nel 2006-2007 quando l’economia cresceva, molti di meno che negli Anni Novanta e nei primi Anni Duemila. In Spagna, i giovani disoccupati sono circa il triplo che da noi (20%), nel Regno Unito il doppio (14%), in Grecia e Portogallo sono il 12%, in Svezia e Danimarca il 10%, in Francia, Finlandia e Belgio l’8%.
Fra i Paesi con cui di solito ci compariamo, solo la Germania sta meglio di noi, con il suo 4,8% di giovani disoccupati.
Da dove salta fuori l’idea che «un giovane su tre è senza lavoro»? Deriva dal fatto che, anziché prendere come base il numero totale di giovani, si prende il numero di giovani «attivi» sul mercato del lavoro (occupati o in cerca di lavoro), che in Italia sono appena il 25% del totale, mentre in Paesi come la Germania o il Regno Unito sono più del doppio. Poi, nel fare i titoli su giornali e televisioni, ci si «dimentica» che si sta parlando di una minoranza attiva (1 giovane su 4), e si parla del tasso di disoccupazione giovanile come se descrivesse la condizione dei giovani in generale, anziché quella dei giovani che hanno scelto di lavorare.
E qui veniamo alla seconda verità che, a quanto pare, non incontra il favore dei media. L’anomalia dell’Italia non è che i suoi giovani non trovano lavoro, ma il fatto che non lo cercano. Fortunatamente non sono presidente del Consiglio, e quindi non sarò costretto a smentire quella che – detta da un politico – suonerebbe come una tremenda gaffe, ma che invece è la pura verità: nel confronto internazionale i nostri giovani si distaccano da quelli della maggior parte dei Paesi avanzati non certo perché più colpiti dalla tragedia della disoccupazione, ma precisamente per la ragione opposta: perché ritardano enormemente il loro ingresso nel mercato del lavoro.
Nei Paesi normali ci si laurea intorno ai 22-23 anni, e si comincia a lavorare relativamente presto, spesso contribuendo al bilancio familiare e alle spese dell’istruzione, che non sono basse come da noi. In Italia ci si laurea tardi, spesso in prossimità dei 30 anni, e si comincia la ricerca di un lavoro a un’età in cui negli altri Paesi si è accumulata una cospicua esperienza professionale. E quel che è ancora più drammatico è che, nonostante la loro relativa assenza dal mercato del lavoro, i giovani italiani sono molto indietro nei livelli di apprendimento già a 15 anni (vedi i risultati dei test Pisa), e hanno maggiori difficoltà a conseguire una laurea, per quanto a lungo ci provino. E infatti la gioventù italiana un primato ce l’ha: è quello del numero di giovani perfettamente inattivi, in quanto non lavorano, né studiano, né stanno apprendendo un mestiere (sono i cosiddetti Neet: Not in Education, Employment or Training).
Questo, sfortunatamente, è lo scenario sul quale si sta aprendo la discussione sul mercato del lavoro. Uno scenario di cui i giovani non sono direttamente responsabili, perché – come ha giustamente osservato Antonio Polito qualche giorno fa sul Corriere della Sera - se le cose sono arrivate a questo punto lo si deve innanzitutto «a noi, la generazione dei baby boomer, la prima generazione ad aver disobbedito ai padri e la prima ad aver obbedito ai figli».
Siamo noi che, con i nostri partiti e sindacati, abbiamo edificato un sistema per garantire il lavoro, l’inamovibilità, la pensione ai più organizzati fra noi stessi. Siamo noi che, nella scuola e nell’università, abbiamo permesso che si abbassasse drammaticamente l’asticella del livello degli studi, trasformando istituzioni un tempo funzionanti in vere e proprie fabbriche di ignoranza. E siamo sempre noi che, nella famiglia, «invece di fare i genitori ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti della nostra prole, sempre pronti a batterci perché venga loro spianata la strada verso il nulla» (sono sempre parole di Polito).
Ed eccoci al punto. Io spero e confido che il governo Monti non perda per strada la determinazione che finora lo ha indotto a promettere una vera riforma del mercato del lavoro. Ma nessuna riforma cambierà davvero le cose se anche noi, tutti noi, giovani e adulti, non ci renderemo conto che un intero modo di pensare, un’intera mentalità tipica del nostro Paese è giunta al capolinea. Continuare come in passato non è più possibile. Far credere ai giovani che potranno godere degli stessi privilegi della nostra generazione significa solo prolungare l’inganno che ci ha condotto alla situazione attuale. Una situazione retta da un patto scellerato fra due generazioni: la generazione dei padri e delle madri, iperprotettiva e per nulla esigente, e la generazione dei figli, spensierata finché l’età e le risorse familiari glielo consentono, e disperata quando deve cominciare a marciare sulle proprie gambe.
Il mercato del lavoro italiano, da decenni diviso fra garantiti e non garantiti, è il luogo nel quale il patto scellerato ha preso forma e si è cristallizzato. Di quel patto scellerato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è il tassello principale, ma solo il simbolo. Farlo lentamente evaporare non potrà produrre né le devastazioni previste dai sindacati, né la crescita immaginata dagli imprenditori. E tuttavia non toccarlo per niente, oltre a mandare un segnale negativo ai mercati, rischierebbe di rimandare ancora una volta il momento in cui – finalmente – cominceremo a fare un vero bilancio e ad affrontare a viso aperto i nostri figli.
I quali hanno tutto il diritto di entrare in un mercato del lavoro più dinamico e più equo, in cui ci siano più opportunità e l’inamovibilità dei padri non sia pagata dalla precarietà dei figli. Ma hanno anche il diritto di sapere quel che finora gli abbiamo nascosto: che studiare sotto casa, poco, male, e irragionevolmente a lungo conforta le loro mamme ma non spiana loro alcuna strada.

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domenica 5 febbraio 2012

Difendere chi non ha lavoro

Articolo di Alessandra Del Boca pubblicato sul Corriere della Sera il 4 febbraio 2012
Caro direttore, dopo i dati sulla disoccupazione, le parole del presidente Mario Monti «Difendiamo il lavoratore, non il posto di lavoro» — sono parole da prendere sui serio. A chi gli ha ribattuto «ma cosa difendiamo se il lavoratore non ha un posto?», rispondiamo che il posto lo si troverà se cambiamo l’intero meccanismo, difendiamo i disoccupati con un mercato mobile e un sussidio decente, non solo chi è già occupato.
Al centro delle scelte economiche devono esserci le persone, il lavoratore, il consumatore, non questa o quella lobby o corporazione. La difesa del posto alimenta distorsioni sul mercato del lavoro. Il posto di lavoro, una volta garantito, non produce spinta all'apprendimento, al rinnovo del capitale umano e all'iniziativa individuale. Quando i lunghi tempi di cassa integrazione straordinaria, mobilità e proroghe arrivano alla fine, le persone si trovano abbandonate, svuotate di professionalità e potere contrattuale. Paradossalmente in Italia la disoccupazione è meno protetta dell'occupazione. Il licenziamento riceve un sussidio più generoso e lungo della media europea se preceduto dalla cassa integrazione, mentre il reddito dei lavoratori licenziati individualmente è di durata ed entità minore.In Italia, disoccupati ricevono una miriade di sussidi e pseudo tali che vanno ridotti ad un unico sussidio simile a quelli europei (del 60%-70%). L'indennità ordinaria di disoccupazione, concessa solo ai lavoratori che hanno due anni di contributi, rimpiazza per otto mesi il 6o% del reddito. La Cig è il vero sussidio di disoccupazione: rimpiazza 1`80% del reddito. Fino alla riforma era senza limiti di durata, adesso può ancora durare quattro anni con proroghe e una riduzione del sussidio.Il 72% dei disoccupati non gode di un sostegno al reddito, contro la media europea del 20-30%. I tassi di rimpiazzo, cioè la quota di reddito reintegrata e la durata sono estremamente variabili: dall’80% della mobilità alla disoccupazione «agricola» e a requisiti ridotti, lavoratori stagionali e discontinui, fino ai 35-40% di tasso di reintegrazione del reddito pagati con un ritardo tale da far perdere il senso del sussidio. Nessuna protezione esiste poi per i parasubordinati, i disoccupati di lunga durata, i precari, i giovani in cerca di lavoro. Per i lavori discontinui esistono indennità ridotte e misure sperimentali: ai disoccupati italiani va la quota più bassa del Prodotto interno lordo fra i maggiori Paesi dell'Unione europea, lo 0,7%.
E comprensibile la determinazione del presidente Monti e del ministro Elsa Fornero a semplificare la vecchia giungla dove nessuno è riuscito a fare un ordine vero e complessivo, a portare uguaglianza e regole universali. Fornero ha toccato il tema più sensibile — quello degli ammortizzatori, della Cig a cui corrisponde la mancanza di un vero sussidio di disoccupazione - perché sa che senza un vero sussidio universale non si può parlare di mobilità in uscita, che deve essere affrontata per non continuare a scaricare la flessibilità sull'ingresso, sui giovani. Un reddito minimo è garantito nella maggioranza dei Paesi Ue e la Commissione europea lo raccomanda come strumento per non dilapidare ii capitale umano dei giovani. In Francia e Inghilterra è il 20% del Pil pro-capite, il 30-40% in Germania e Danimarca.
Ha ragione il ministro Fornero a cercare di vincere le resistenze. Il nostro Paese non dà reddito minimo né formazione continua, non aiuta a trovare lavoro. I sussidi sono assegnati in misura della forza contrattuale del percettore, simbolici o insufficienti convivono con benefici generosi e quasi vitalizi: il prepensionamento, la Cig, la mobilità, la disoccupazione speciale, i contratti di solidarietà. Il medesimo asse di fondo del diritto del lavoro italiano, di cui l'articolo 18 è la «norma-simbolo» si applica solo a nove milioni di lavoratori. E’ tempo di un diritto che si applichi in modo uguale a tutti i lavoratori dall'azienda.

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Oriano Giovanelli, unificazione enti previdenziali e governance

Intervista a Oriano Giovanelli Parlamentare del PD e responsabile del Forum PA
L’accorpamento degli enti previdenziali in un unico istituto è il primo effetto della spending review, sostenuta da un emendamento presentato dal Partito Democratico ed approvato dal Parlamento. Come valuta questa scelta? Ritiene che adesso occorre ripensare la governance dell’ente previdenziale unificato che al momento è gestito da un’unica persona?
Il tema dell'unificazione degli enti previdenziali da un lato e di quelli assistenziali dall'altro e' all'attenzione delle forze politiche , del Parlamento e delle forze sociali da anni. Aggiungerei che e' sempre stato un cavallo di battaglia delle forze lavoratrici, preoccupate del fatto che il grosso delle funzioni previdenziali, anche di settori come quelli del commercio e dell'agricoltura notoriamente deficitari dal punto di vista della contribuzione,fosse sulle spalle dell'INPS finanziato con i contributi dei lavoratori del settore privato; che inoltre sulle spalle dell'INPS gravasse impropriamente anche il finanziamento di oneri assistenziali (cassa integrazione ecc.) mentre rimanevano indisturbate casse previdenziali private e spesso privilegiate salvo poi che anche queste quando si sono trovate (emblematica la vicenda della cassa dei dirigenti delle imprese industriali) in difficoltà hanno finito per scaricare i loro costi sulla stessa INPS. Il progetto di unificazione e' stato oggetto di un attento lavoro istruttorio della commissione parlamentare nella precedente legislatura. Essa concluse che l'obiettivo era più complesso di quanto appariva, che i risparmi non erano così scontati e che le differenze fra i diversi enti, in particolare fra la previdenza dei lavoratori privati e di quelli pubblici non erano invenzioni strumentali annullabili con un tratto di penna. Insomma se proprio si voleva procedere alla unificazione si doveva passare per un accurato percorso di avvicinamento. Questa era la raccomandazione anche della Corte dei Conti. Del resto la stessa situazione dell'INPS risultava e risulta un po’ diversa dalla generale convinzione: gli 80 miliardi di euro che dalla fiscalità generale passano all'INPS non sono dovuti solo a spese assistenziali ma vanno ad integrare spese previdenziali. Quindi non e' proprio del tutto vero che abbiamo un colosso sano su cui far convergere tutte le altre forme previdenziali ritenute fragili. Ho fatto questa lunga premessa perché la scelta fatta dal Governo Monti con il decreto "salva Italia" se si limita a perseguire risparmi ci lascerà delusi. Allora questa scelta va sostenuta e portata fino infondo ma non con la logica di sommare INPDAP e ENPALS nell'INPS ma di dar luogo nella sostanza se non nel nome ad un nuovo ente. Questo mi consente di dire che anche in altri casi in cui meritoriamente di sperimenterà la spending review se l'approccio sarà quello di limitarsi a distinguere la spesa buona da quella cattiva con l'obiettivo di tagliare spese invece che cogliere l'occasione per riorganizzare a fondo, avremo forse una PA meno costosa ma non avremo una PA migliore. Quindi il PD sostiene questo progetto e lo vuole portare avanti con determinazione, ma non vuole che ci si fermi ad un approccio superficiale.
Ritiene che adesso occorre ripensare la governance dell’ente previdenziale unificato che al momento è gestito da un’unica persona?
Certamente! E' la prima cosa da fare. Non e' assolutamente accettabile ne' sotto il profilo della correttezza gestionale ne' di quello della difesa della democrazia che un ente da 370 miliardi di euro, dal quale dipendono prestazioni decisive per il welfare nel nostro paese, depositario di un capitale informativo enorme su ogni cittadino italiano, venga gestito da un uomo solo al comando. Ripeto c'e' in gioco la democrazia, e' una partita politica che vale come e più di una grande riforma istituzionale. Siamo impegnati a porre con forza questa questione sia in sede politica che in quella parlamentare e crediamo che Monti se ne debba far carico subito! In altre parole non possiamo accettare che si metta mano alla riorganizzazione di un nuovo grande ente previdenziale, il più grande in Europa, con la governance attuale. Non e' una questione personale nei confronti di Mastrapasqua, anche se abbiamo giudicato disdicevole che il suo incarico sia stato prorogato fino al 2014 cioè ben oltre la durata di questo Governo e della stessa legislatura parlamentare. Onestamente vi abbiamo letto lo zampino di quella che qualche commentatore ha definito la "super casta".
Il Presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, accumula al momento una pluralità di incarichi. Ritiene compatibili ed eticamente corretti tali incarichi tenendo presente che il Governo Berlusconi ha eliminato il consiglio di amministrazione dell’Inps ed istituito un organo monocratico?
No! Non ritengo compatibile con il ruolo che ricopre che Mastrapasqua sia impegnato in altri 25 incarichi, che abbia uno stipendio di 1 milione e 200 mila euro l'anno, che possa continuare con ampia discrezionalita' ad assumere e a nominare dirigenti, ancor prima di verificare se dall'unificazione con INPDAP e ENPALS vi siano dei dipendenti che possano essere dichiarati soprannumerari e messi in mobilità e ancor prima di preoccupassi di riutilizzare il gruppo dei dirigenti valorizzando le loro professionalità e non guardando le loro etichette di provenienza. Ci siamo già battuti in Parlamento su questo punto e su suoi numerosi incarichi ho presentato una interrogazione.
Esiste un organo nell’Inps denominato “Consiglio di indirizzo e vigilanza” (CIV) a cui sono affidate le linee di indirizzo generale e gli obiettivi strategici dell’Istituto. Il CIV è formato da 24 membri, designati dalle rappresentanze sindacali dei lavoratori, dei datori di lavoro e dei lavoratori autonomi.
Una volta ripristinati gli organi dell’Istituto (Presidente e Consiglio di Amministrazione) ritiene che il CIV possa essere eliminato, che le sue funzioni possano essere esercitate dal Consiglio di Amministrazione, dal Collegio sindacale e dall’Organismo indipendente di valutazione?
La commissione parlamentare che ho già citato ritenne nelle sue conclusioni di suggerire una Governance Duale. Io credo che dovremo avere un presidente, un consiglio di amministrazione di cui faccia parte in quanto organo gestionale il direttore generale dell'ente. Non ritengo possibile che si torni ad una presenza delle organizzazioni sociali nel CDA com'era prima del 1993. Ne e' passata di acqua sotto i ponti e una presenza del sindacato dei lavoratori o delle associazioni imprenditoriali in un organo gestionale non avrebbe senso comune. Rimane il fatto che queste forze possono legittimamente rivendicare una funzione di indirizzo e controllo sulle risorse che vengono dal loro lavoro. Quindi penso che un CIV molto più piccolo nel numero di componenti ma forte nelle funzioni di controllo sia prevedibile. Ma la definizione di una Governance potrebbe comportare tempo. Invece c'e' una urgenza che giustificherebbe anche una Governance provvisoria di alcuni vice presidenti attorno a Mastrapasqua. Ma non mi fermerei a questo. Penso al potere potenziale rappresentato dalla banca dati dell'INPS e credo che questo vada ricondotto ad un ruolo di controllo parlamentare più forte e comunque il ruolo della commissione bicamerale che si occupa degli enti deve essere valorizzato.
Interrogazione di Oriano Giovanelli

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