giovedì 2 febbraio 2012

Lavoro: nuova visione e strumenti

Intervista a Pietro Ichino a cura di Oreste Pivetta pubblicata su L’Unità il 31 gennaio 2012
Professor Ichino, crisi economica, declino dell’impresa manifatturiera in Italia, calo pesante dell’occupazione, logoramento progressivo del potere d’acquisto. Hanno ragione i sindacati quando chiedono insieme alle riforme interventi e investimenti per la ripresa?
Sì. Ma gli investimenti oggi possono venire solo in minima parte dallo Stato, mentre possono venire in massima parte dall’aprire il Paese agli investimenti stranieri. Se riuscissimo ad allinearci alla media europea, questo significherebbe un maggior flusso di investimenti in entrata di molte decine di miliardi l’anno. Certo, per questo occorre correggere molte storture nel sistema-Italia.
Quali?
Smettere di trattar male chi si propone di investire in casa nostra, come abbiamo fatto sistematicamente nell’ultimo quarto di secolo. Ridurre il costo dell’energia e dei servizi alle imprese, che in Italia è molto superiore agli altri Paesi: per questo aumentare la concorrenza è essenziale. Far funzionare meglio le amministrazioni e ridurre la burocrazia. Semplificare una legislazione del lavoro farraginosa e non traducibile in inglese, allinearla ai migliori standard del centro e nord-Europa. Far funzionare meglio il nostro mercato del lavoro.
Da anni si assiste a una discussione, talvolta in toni quasi drammatica, attorno all’articolo 18. Ma è l’articolo 18 il punto?
Articolo 18 significa molte cose. Significa, innanzitutto, protezione della libertà e dignità delle persone nei luoghi di lavoro, con l’inibizione dei licenziamenti discriminatori e di rappresaglia; per questo aspetto la norma non va soltanto conservata, ma estesa ai milioni di lavoratori dipendenti che oggi ne sono privi. Questo prevedono sia il mio disegno di riforma della materia, sia il disegno di legge Nerozzi, ispirato al progetto Boeri-Garibaldi. In materia di licenziamento per motivi economici od organizzativi, invece, l’articolo 18 non costituisce la forma di protezione migliore, perché genera una rigidità che rende le imprese riluttanti ad assumere a tempo indeterminato. Questo è il motivo principale per cui quattro quinti delle assunzioni avvengono con contratti precari.
Altro tema: la Cassa integrazione. É il momento giusto per mettersi a discutere di cassa integrazione?
La Cassa integrazione è uno strumento prezioso per tenere legati i lavoratori all’impresa nei momenti di difficoltà, nelle crisi temporanee. Ma è sbagliato usare questo strumento, come facciamo diffusamente, nei casi in cui è certo che il lavoratore non riprenderà più l’attività nella vecchia azienda. Per questi casi occorre uno strumento di natura diversa, strutturato per attivare la ricerca della nuova occupazione; dobbiamo pensare a un sostegno del reddito più robusto di quello offerto dalla Cig, e anche suscettibile di durare più a lungo, ma condizionato alla disponibilità effettiva del lavoratore per la ricerca della nuova occupazione e per tutto quanto è necessario fare per trovarla.
Hai, con altri parlamentari, presentato un disegno di legge che si ispira al modello della flexsecurity danese. Non c’è il rischio dell’astrazione riferendosi a paesi di altra storia, d’altra cultura, d’altra tradizione anche in materia di welfare?
Il modo in cui attualmente usiamo affrontare le crisi occupazionali, in ritardo e con lo strumento sbagliato, comporta costi molto alti per tutti, lavoratori compresi. Con quel che si risparmia affrontando le crisi in modo più appropriato c’è di che finanziare abbondantemente un trattamento di entità e di durata massima pari a quelle danesi, compresi i buoni servizi di outplacement, che sono disponibili anche in Italia. Il modo migliore per verificare se questo è vero è aprire la possibilità di sperimentazione: dove una Regione sia disponibile a coprire i costi standard dei servizi al lavoratore e l’impresa sia disponibile a farsi carico del trattamento complementare di disoccupazione, perché non consentire che tutti i nuovi rapporti di lavoro si costituiscano secondo questo modello? Forse che oggi il nostro mercato del lavoro offre ai nuovi assunti qualche cosa di meglio?
Certo, lasciare tutto come prima sarebbe criminale. La precarietà attuale nelle forme di lavoro è intollerabile. Come la superiamo?
Lo schema che potrebbe essere oggetto della sperimentazione, dove ce ne siano le condizioni che dicevo prima, è questo: tutti i nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato, tranne i casi classici di lavoro a termine, come quello stagionale o le sostituzioni temporanee; a tutti le protezioni essenziali secondo i migliori standard europei, compreso l’articolo 18 contro discriminazioni e rappresaglie; ma nessuno inamovibile: a chi perde il posto una sicurezza economica e professionale maggiore rispetto a quella attuale, cui contribuisce in parte l’assicurazione generale, in parte l’impresa che ha scelto la nuova forma sperimentale per le proprie nuove assunzioni, con il rimborso del costo standard dei servizi di outplacement a carico della Regione.
Credo che a qualsiasi lavoratore importerebbe poco dell’articolo 18, se tutto andasse bene e, rimanendo senza lavoro, potesse trovare una occupazione dietro l’angolo…
Nella sola città di Milano nel corso del 2011 sono stati stipulati 108.000 contratti di lavoro; e si calcola che ci sia qualche migliaio di posti di lavoro scoperti per mancanza di persone con qualificazione idonea. Il volume delle crisi occupazionali nella stessa città è espresso da numeri con due zeri in meno. Perché rinunciamo sistematicamente a un rapido assorbimento dei lavoratori licenziati, attivando le iniziative di assistenza intensiva e di riqualificazione mirata di cui si servono tutti i Paesi più civili del nostro? Perché mai non dovremmo provare a far funzionare meglio questo mercato del lavoro, sfruttandone a fondo tutte le potenzialità, che non sono disprezzabili neppure in questo momento di grave crisi?
Con il tuo progetto non si creerebbe un nuovo dualismo tra lavoratori vecchi e nuovi?
Sì, ma non sarebbe più il dualismo attuale fra protetti e non protetti, bensì l’affiancamento di due tra le forme di protezione più forti che siano state sperimentate in Europa nell’ultimo secolo.

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