"La tua proposta, Pietro, sulla semplificazione del diritto del lavoro richiede attenzione, data l’importanza dell’obiettivo, che non si può che condividere. Rispondo quindi alla lettera aperta che mi hai inviato a seguito della mia primissima e molto sintetica nota di allarme. Non ho ancora il tempo per una analisi precisa. Vorrei restare ancora a livello di metodo, di impianto generale e di analisi a campione di alcune delle singole materie ridisciplinate. Credo che l’amicizia che ci lega non abbia fatto finora e non possa fare velo su diversità di opinioni, che non sono fondate su pregiudizi.
Qui il resto del post Ridisegnare l’intero diritto del lavoro è un’operazione straordinaria, che richiede non solo di semplificare e razionalizzare, ma di inventare e di trovare nuove soluzioni, per far mantenere a questa materia i suoi fondamentali (come si direbbe in economia), per riattualizzarla all’interno di una cornice che mantenga intatta la sua anima e non la snaturi in un bilanciamento di costi economici. Quanto al metodo: il progetto è affascinante, ma molto pericoloso, e dovrebbe avvenire coinvolgendo non solo “numerosi esperti della materia”, con una partecipazione dal basso che veda anche il coinvolgimento delle persone direttamente interessate, che spesso hanno tanto da raccontarci e da suggerirci. Quanto alle soluzioni innovative: non credo sia sufficiente chiedersi cosa preferisca oggi un ventenne. Continuo a pensare che dobbiamo trovare soluzioni che affrontino tutti i dualismi del nostro mercato del lavoro, provando a trovare i contenuti dentro a una visione che progetti un patto tra generi, generazioni e genti. Tu proponi di eliminare le disposizioni che introducono diritti e protezioni, qualora non possano essere estese a tutte le persone che lavorano. E’ uno dei modi per universalizzare le tutele, ma seguendo una strada precisa: tutti uguali a un livello (medio-)basso. Con il che si presentano interrogativi rilevanti. Chi decide il livello dove collocare l’asticella? Come effettuare quella che mi pare possiamo chiamare una valutazione di impatto? E si tratta di una valutazione di impatto che considera al primo posto i costi per i datori di lavoro/committenti? E nella decisione sul livello della tutela da garantire universalmente ci poniamo come limite spaziale quale territorio? Lo Stato, l’Unione europea, …, il mondo? Contesti alla Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del 2003 di non toccare la disciplina per i lavoratori subordinati. Certo. E’ stata una scelta precisa, dentro a una idea che prevedeva non una unica disciplina per tutti, ma cerchi progressivamente più ampi di tutela. Continuo ad essere affezionata a quell’idea, anche se penso sarebbe opportuno un aggiornamento. Ma su quello spartito. Quello della Carta o dello Statuto (giusto a quaranta anni da quello del 1970, che tu abroghi, diluendolo e frammentandolo), non della riscrittura sul modello del codice civile. E nel cerchio generale continuo a pensare che dovrebbero essere inclusi tutti i lavori e non solo quello che si svolge in una impresa/azienda. Infatti, nella tua proposta, l’articolo di apertura della parte dedicata alla disciplina comune a tutti i rapporti di lavoro, si apre con il riferimento al “titolare dell’azienda”, con il che si continua a rimanere nell’alveo di una qualificazione che esclude il lavoro autonomo, il lavoro sociale, il lavoro volontario, il lavoro di cura, … tutti quei lavori che vanno invece considerati nel momento in cui si intende fornire uno zoccolo di diritti di base a tutte le persone che lavorano. Venendo poi al tema del rinvio alle direttive europee, sono felice, ma solo in parte, di sapere che il diritto antidiscriminatorio resta in vigore. Perché solo in parte? Intanto, se la volontà è quella della semplificazione e della leggibilità immediata, mi pare complicato andare a controllare nell’elenco della normativa abrogata cosa resti in vigore e cosa no. Inoltre, anche quella normativa ha bisogno di essere ridefinita, sia per eliminare sovrapposizioni, sia per renderla più chiara, sia per eliminare molti degli infortuni in cui sono incorsi i governi di destra nella trasposizione. Più in generale, mi rimane il dubbio per tutte le materie in cui la trasposizione interna viene sostituita con un rinvio ai “principi e regole fissati nelle direttive comunitarie”, che diventano “standard immediatamente applicabili per la determinazione dei diritti e obblighi delle parti dei rapporti di lavoro”. Ma le direttive sono emanate attendendosene le istituzioni europee una trasposizione attenta e intelligente nei singoli Paesi. Limitarsi a tradurle e metterle a disposizione come unica regola è impossibile. Impossibile anche perché in molti casi le direttive stesse rinviano a scelte della normativa nazionale. Quanto al tema dei congedi di maternità, paternità e parentali, ti ringrazio della disponibilità a correggere l’attuale formulazione, che vede l’eliminazione dei tentativi di ripartizione dei ruoli tra madre e padre. Poiché il testo unico mi è molto noto (per averlo steso ed elaborato), sono la prima ad aver sempre affermato che a quella operazione di razionalizzazione e di riconduzione in un unico testo normativo avrebbe dovuto seguire una operazione di semplificazione. Ma non solo. Occorre ora trovare soluzioni diverse. Lo sanno bene tutti coloro che hanno un contratto di lavoro a termine (sia esso subordinato, un contratto a progetto, un lavoro interinale, …). Affermare il diritto a sospendere il lavoro per godere di un congedo come quello parentale è come scrivere sulla sabbia. Quel diritto non è quasi mai azionabile. Devo dire che anche i lavoratori subordinati più garantiti (quelli che definisci di serie A) spesso non possono permetterselo, ma non solo per la scarsa copertura economica, anche per il rischio di essere successivamente discriminati. Ma ci sono anche altri problemi. Il testo unico è pesante perché si occupa, ad esempio, anche della copertura previdenziale. Di questi aspetti, dove ci si occuperebbe nella tua proposta? Ci sono poi ulteriori aspetti che avevo iniziato a verificare, soprattutto nella prima parte, dato il suo carattere più generale. Ad esempio, nell’art. 2090 (assicurazione generale per vecchiaia, invalidità e disoccupazione), mi pare che la questione più importante, in un articolo di apertura e rivolto a universalizzare le condizioni, non possa essere quella di porre tetti alla contribuzione pensionistica. Nell’art. 2092 (compenso orario minimo) proponi una determinazione con decreto presidenziale, su proposta del Cnel, (solo) sentite le parti sindacali. E’ questo che vogliamo per garantire i minimali di retribuzione? E perché limitare questa determinazione ai lavori “misurati in ragione del tempo”? I ‘veri’ contratti a progetto sarebbero pertanto esclusi. E accettiamo di introdurre le ‘gabbie salariali’, come previsto nel secondo comma? E saltiamo l’intervento equitativo del giudice – come si ricava confrontano con l’art. 2099 – che è quello che ha finora consentito l’applicazione generalizzata della parte economica dei contratti collettivi? L’art. 2094, sulla subordinazione e sulla dipendenza, che dovrebbe essere un punto chiave del nuovo diritto del lavoro mi pare si limiti ad affiancare al lavoratore subordinato il lavoratore economicamente dipendente. Per essere tale la persona non deve solo dipendere economicamente dal committente, ma percepire compensi medio-bassi. Con la conseguenza, tra l’altro, che, avendo indicato espressamente la cifra della soglia, dovremmo adeguare la normativa del codice all’andamento del costo della vita. Questo è un altro aspetto del problema: la semplificazione introduce nel codice numerosi indicatori quantitativi, destinati ovviamente ad essere superati nel tempo. Lo stesso nell’art. 2103,sulle mansioni del lavoratore. Perché riproporre con così poche innovazioni una delle disposizioni incorporate nello Statuto dei diritti dei lavoratori che più si ritiene abbia necessità di manutenzione per tener conto dei cambiamenti? Nell’art. 2107, sull’orario di lavoro, mi pare insufficiente un rinvio agli standard minimi europei, così come pericoloso mettere sullo stesso piano le regole del contratto collettivo e le scelte del contratto individuale. Come ti ho scritto in apertura, non ho davvero il tempo per una analisi esaustiva. Ti ho segnalato questi dubbi proprio perché il dialogo e il confronto continui".
Donata Gottardi
Qui il resto del post Ridisegnare l’intero diritto del lavoro è un’operazione straordinaria, che richiede non solo di semplificare e razionalizzare, ma di inventare e di trovare nuove soluzioni, per far mantenere a questa materia i suoi fondamentali (come si direbbe in economia), per riattualizzarla all’interno di una cornice che mantenga intatta la sua anima e non la snaturi in un bilanciamento di costi economici. Quanto al metodo: il progetto è affascinante, ma molto pericoloso, e dovrebbe avvenire coinvolgendo non solo “numerosi esperti della materia”, con una partecipazione dal basso che veda anche il coinvolgimento delle persone direttamente interessate, che spesso hanno tanto da raccontarci e da suggerirci. Quanto alle soluzioni innovative: non credo sia sufficiente chiedersi cosa preferisca oggi un ventenne. Continuo a pensare che dobbiamo trovare soluzioni che affrontino tutti i dualismi del nostro mercato del lavoro, provando a trovare i contenuti dentro a una visione che progetti un patto tra generi, generazioni e genti. Tu proponi di eliminare le disposizioni che introducono diritti e protezioni, qualora non possano essere estese a tutte le persone che lavorano. E’ uno dei modi per universalizzare le tutele, ma seguendo una strada precisa: tutti uguali a un livello (medio-)basso. Con il che si presentano interrogativi rilevanti. Chi decide il livello dove collocare l’asticella? Come effettuare quella che mi pare possiamo chiamare una valutazione di impatto? E si tratta di una valutazione di impatto che considera al primo posto i costi per i datori di lavoro/committenti? E nella decisione sul livello della tutela da garantire universalmente ci poniamo come limite spaziale quale territorio? Lo Stato, l’Unione europea, …, il mondo? Contesti alla Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del 2003 di non toccare la disciplina per i lavoratori subordinati. Certo. E’ stata una scelta precisa, dentro a una idea che prevedeva non una unica disciplina per tutti, ma cerchi progressivamente più ampi di tutela. Continuo ad essere affezionata a quell’idea, anche se penso sarebbe opportuno un aggiornamento. Ma su quello spartito. Quello della Carta o dello Statuto (giusto a quaranta anni da quello del 1970, che tu abroghi, diluendolo e frammentandolo), non della riscrittura sul modello del codice civile. E nel cerchio generale continuo a pensare che dovrebbero essere inclusi tutti i lavori e non solo quello che si svolge in una impresa/azienda. Infatti, nella tua proposta, l’articolo di apertura della parte dedicata alla disciplina comune a tutti i rapporti di lavoro, si apre con il riferimento al “titolare dell’azienda”, con il che si continua a rimanere nell’alveo di una qualificazione che esclude il lavoro autonomo, il lavoro sociale, il lavoro volontario, il lavoro di cura, … tutti quei lavori che vanno invece considerati nel momento in cui si intende fornire uno zoccolo di diritti di base a tutte le persone che lavorano. Venendo poi al tema del rinvio alle direttive europee, sono felice, ma solo in parte, di sapere che il diritto antidiscriminatorio resta in vigore. Perché solo in parte? Intanto, se la volontà è quella della semplificazione e della leggibilità immediata, mi pare complicato andare a controllare nell’elenco della normativa abrogata cosa resti in vigore e cosa no. Inoltre, anche quella normativa ha bisogno di essere ridefinita, sia per eliminare sovrapposizioni, sia per renderla più chiara, sia per eliminare molti degli infortuni in cui sono incorsi i governi di destra nella trasposizione. Più in generale, mi rimane il dubbio per tutte le materie in cui la trasposizione interna viene sostituita con un rinvio ai “principi e regole fissati nelle direttive comunitarie”, che diventano “standard immediatamente applicabili per la determinazione dei diritti e obblighi delle parti dei rapporti di lavoro”. Ma le direttive sono emanate attendendosene le istituzioni europee una trasposizione attenta e intelligente nei singoli Paesi. Limitarsi a tradurle e metterle a disposizione come unica regola è impossibile. Impossibile anche perché in molti casi le direttive stesse rinviano a scelte della normativa nazionale. Quanto al tema dei congedi di maternità, paternità e parentali, ti ringrazio della disponibilità a correggere l’attuale formulazione, che vede l’eliminazione dei tentativi di ripartizione dei ruoli tra madre e padre. Poiché il testo unico mi è molto noto (per averlo steso ed elaborato), sono la prima ad aver sempre affermato che a quella operazione di razionalizzazione e di riconduzione in un unico testo normativo avrebbe dovuto seguire una operazione di semplificazione. Ma non solo. Occorre ora trovare soluzioni diverse. Lo sanno bene tutti coloro che hanno un contratto di lavoro a termine (sia esso subordinato, un contratto a progetto, un lavoro interinale, …). Affermare il diritto a sospendere il lavoro per godere di un congedo come quello parentale è come scrivere sulla sabbia. Quel diritto non è quasi mai azionabile. Devo dire che anche i lavoratori subordinati più garantiti (quelli che definisci di serie A) spesso non possono permetterselo, ma non solo per la scarsa copertura economica, anche per il rischio di essere successivamente discriminati. Ma ci sono anche altri problemi. Il testo unico è pesante perché si occupa, ad esempio, anche della copertura previdenziale. Di questi aspetti, dove ci si occuperebbe nella tua proposta? Ci sono poi ulteriori aspetti che avevo iniziato a verificare, soprattutto nella prima parte, dato il suo carattere più generale. Ad esempio, nell’art. 2090 (assicurazione generale per vecchiaia, invalidità e disoccupazione), mi pare che la questione più importante, in un articolo di apertura e rivolto a universalizzare le condizioni, non possa essere quella di porre tetti alla contribuzione pensionistica. Nell’art. 2092 (compenso orario minimo) proponi una determinazione con decreto presidenziale, su proposta del Cnel, (solo) sentite le parti sindacali. E’ questo che vogliamo per garantire i minimali di retribuzione? E perché limitare questa determinazione ai lavori “misurati in ragione del tempo”? I ‘veri’ contratti a progetto sarebbero pertanto esclusi. E accettiamo di introdurre le ‘gabbie salariali’, come previsto nel secondo comma? E saltiamo l’intervento equitativo del giudice – come si ricava confrontano con l’art. 2099 – che è quello che ha finora consentito l’applicazione generalizzata della parte economica dei contratti collettivi? L’art. 2094, sulla subordinazione e sulla dipendenza, che dovrebbe essere un punto chiave del nuovo diritto del lavoro mi pare si limiti ad affiancare al lavoratore subordinato il lavoratore economicamente dipendente. Per essere tale la persona non deve solo dipendere economicamente dal committente, ma percepire compensi medio-bassi. Con la conseguenza, tra l’altro, che, avendo indicato espressamente la cifra della soglia, dovremmo adeguare la normativa del codice all’andamento del costo della vita. Questo è un altro aspetto del problema: la semplificazione introduce nel codice numerosi indicatori quantitativi, destinati ovviamente ad essere superati nel tempo. Lo stesso nell’art. 2103,sulle mansioni del lavoratore. Perché riproporre con così poche innovazioni una delle disposizioni incorporate nello Statuto dei diritti dei lavoratori che più si ritiene abbia necessità di manutenzione per tener conto dei cambiamenti? Nell’art. 2107, sull’orario di lavoro, mi pare insufficiente un rinvio agli standard minimi europei, così come pericoloso mettere sullo stesso piano le regole del contratto collettivo e le scelte del contratto individuale. Come ti ho scritto in apertura, non ho davvero il tempo per una analisi esaustiva. Ti ho segnalato questi dubbi proprio perché il dialogo e il confronto continui".
Donata Gottardi
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