lunedì 23 dicembre 2013

Il lavoro che cambia

Articolo di Ivan Scalfarotto pubblicato su Europa il 21 dicembre 2013
Le aziende aprono e chiudono con molta più rapidità di un tempo: quali garanzie al lavoratore nel passaggio da un impiego all'altro?
Cerchiamo di capire su cosa giri questa famosa e antichissima polemica sull’articolo 18. La questione, messa giù brutalmente, è se consentire agli imprenditori di assumere senza il vincolo dell’inamovibilità sia garanzia di un aumento dell’occupazione. Comprendere, in altre parole, se i datori di lavoro sarebbero più disposti ad assumere se sapessero di poter liberamente licenziare. Finora si è molto ragionato sul fatto che già oggi la maggior parte dei lavoratori non viene assunta con un contratto di lavoro a tempo indeterminato di quelli coperti dall’articolo 18. I contratti atipici, nonostante la stretta della legge Fornero, sono ancora lo strumento con il quale si entra più facilmente nel mondo del lavoro. E ovviamente bisogna tener conto del fatto che l’articolo 18 non si è mai applicato alle imprese con meno di 15 dipendenti. Questo provoca quell’”apartheid” che Pietro Ichino ha sempre denunciato con impeccabile puntualità.
E tuttavia la crisi devastante che stiamo attraversando ha cambiato profondamente lo scenario: articolo 18 oppure no, è evidente che con un mercato che costringe alla chiusura molte imprese, qualsiasi garanzia scritta sulla carta si ferma davanti al datore di lavoro che tira giù la serranda. La discriminazione tra lavoratori protetti e non protetti scolorisce davanti alla livella della disoccupazione, che rende alla fine tutti ugualmente indifesi. Il problema che si pone davanti a noi diventa dunque soprattutto quello di aumentare i posti di lavoro cosicché chi lavora per un’azienda, possa all’occorrenza trasferire facilmente le proprie conoscenze verso un’impresa concorrente. Sia che ci si trovi davanti a una crisi, o che si voglia semplicemente cambiare lavoro per cogliere una migliore opportunità professionale, l’obiettivo dev’essere quello di assicurare la migliore allocazione possibile della forza lavoro, il che procura un effetto benefico tanto per i singoli lavoratori che – a causa delle forza attrattiva delle aziende sane rispetto a quelle più deboli – all’economia nel suo complesso.
Qualche tempo fa ero ospite in una trasmissione televisiva e, in collegamento da Cassina de’ Pecchi, vicino Milano, c’erano gli impiegati della Nokia (già Italtel e poi Siemens) i cui posti di lavoro sono in questo momento gravemente messi a rischio. Perché questo accade è ovvio: ciascuno di noi fino a qualche anno fa aveva un cellulare Nokia in tasca e oggi non è più così. La Nokia, che era un’azienda floridissima, è ora entrata nell’orbita della Microsft che aspira a rilanciarla posizionandosi attraverso di essa nel ricco mercato degli smartphone accanto ad Apple e a Samsung-Google. La domanda che si pone è dunque: se Nokia chiude a causa della crisi, perché Samsung o Apple o qualsiasi altro concorrente non arriva di corsa a Cassina de’ Pecchi, dove ci sono tanti italiani capaci di fare i telefoni e non costruisce un nuovo business mettendo a frutto quel talento?
Il fatto è che né la Nokia né i suoi concorrenti pensano a fare tutto questo. E ciò accade per gli stessi motivi che hanno portato i 24 miliardi di euro investiti dagli stranieri in Italia nel precipitare alla metà nel 2012. Mancanza di infrastrutture, una burocrazia strangolante, un fisco cervellotico, a livelli altissimi di corruzione, la presenza della criminalità organizzata, e anche – non esclusivamente, ma è certamente parte del problema – una legislazione del lavoro incomprensibile per gli stranieri. Chi volesse fare un investimento aprendo uno stabilimento in Italia, vorrebbe certamente sapere in quanto tempo quello stabilimento potrebbe essere chiuso e quale sarebbe il costo relativo alla cessazione dei rapporti di lavoro (c.d. “severance cost”).
L’esigenza che abbiamo di fronte è dunque quella di pianificare adeguatamente e di non spostare sulle aziende il peso di un welfare assente e di sistemi di formazione e riqualificazione professionale che da noi sono fallimentari. Possiamo dire con una qualche serenità che i centri per l’impiego, in Italia, servono ad impiegare giusto coloro che ci lavorano. In più, il sistema attuale autorizza le aziende a ridurre i livelli occupazionali solo quando la crisi è acclarata, e impedisce di usare la leva della riduzione dei costi al fine di impedire la crisi produttiva, salvando così posti di lavoro. Detto in altre parole, non si può licenziare nessun lavoratore fino a quando non ci si trova nella condizione di dover necessariamente licenziarli tutti.
Il problema è dunque quello di ripensare interamente il ciclo di vita del lavoro e delle garanzie per i lavoratori nel nostro paese. Il fatto è che oggi, come dimostra la vicenda della Nokia, i prodotti e le imprese hanno un ciclo di vita molto più breve di quello di un tempo.
Il mio primo datore di lavoro è stata la gloriosa Banca Commerciale Italiana: quando fui assunto, nel 1991, la banca era lì da 100 anni e io ero sicuro che sarebbe stata lì, in Piazza della Scala a Milano, in saecola seculorum. E invece io sono ancora qui, ancora relativamente giovane e in salute, mentre la Comit non c’è già più. Se è andata così a me, immagino cosa abbiano provato i colleghi che negli stessi anni venivano assunti dal Banco di Napoli, che stava lì dal 1539 e anch’esso, dopo quattro secoli e mezzo, non esiste più. Insomma, se un tempo era legittimo aspettarsi che il proprio datore di lavoro sarebbe sopravvissuto a generazioni di propri dipendenti, o che almeno avrebbe avuto la bontà di stare sul mercato in buona salute finanziaria per i 35 anni utili a maturare la nostra pensione, ora non è più così. L’obsolescenza dei prodotti e delle tecnologie, la progressiva creazione di un mercato meno protetto e più aperto alla concorrenza e le concentrazioni tra attori economici fanno sì che chi entra nel mercato del lavoro abbia un’aspettativa di cambiare lavoro molte volte: c’è chi dice almeno 7, nel corso di una carriera.
Allora il tema non è davvero più l’articolo 18, il tema è pensare come garantire i lavoratori nel passaggio che ineluttabilmente ci sarà tra una posizione di lavoro e un’altra. Come sostenerli dal punto di vista del reddito, come formarli per consentire loro di sfruttare nuove occasioni professionali e come incoraggiare la creazione di nuovi posti e occasioni di lavoro per ricollocare i lavoratori adeguatamente riqualificati. Chi credesse di poter limitarsi ad agire sull’articolo 18 dimostrerebbe di non ever capito che quello che è necessario è un approccio al problema non semplicemente migliorativo, ma totalmente nuovo. La sfida del Pd non è quella di migliorare il mercato del lavoro o di rivedere qualche clausola contrattuale, ma di prendere atto della rivoluzione che è in atto e di provare a ridisegnare i cicli e il mondo del lavoro sin dalle fondamenta.

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