sabato 24 gennaio 2009

Pietro Ichino: Perché mi sono costituito parte civile al processo contro le nuove BR

Esprimo la mia solidarietà umana e politica al senatore Pietro Ichino per il suo impegno continuo a favore del cambiamento in un’area pericolosa soggetta a rischi imprevedibili, a minacce ed intimidazioni terroristiche che si riflettono sulla vita democratica del nostro paese. Ammiro la prosecuzione del suo impegno e ritengo che la democrazia italiana ha sempre più bisogno di questi uomini per rafforzarsi e crescere sempre di più.
Invito tutti gli amici e compagni ad inviare una e-mail di solidarietà a Pietro Ichino all’indirizzo ichino@pietroichino.it ed un sostegno al suo impegno iscrivendosi alla newsletter del suo sito http://www.pietroichino.it/. Questi sono piccoli segni di una comunità democratica che sostiene l’impegno democratico ed emargina qualunque tentativo di matrice terroristica.
Dal sito di Pietro Ichino http://www.pietroichino.it/?p=1387 riporto il suo scritto
“Non e’ in gioco soltanto la mia libertà di pensiero, ma anche la libertà di pensiero e di dibattito di tutta la comunità giuslavoristica italiana.
Sintesi della mia deposizione testimoniale resa davanti alla Corte d’Assise di Milano il 23 gennaio 2003, nel procedimento contro i 17 membri delle “nuove Brigate Rosse”
L’allarme è incominciato con l’assassinio di Massimo D’Antona, nel maggio 1999: fino a quel momento tutti pensavamo che il terrorismo fosse finito. All’inizio di quell’estate la Digos mi contattò per darmi alcuni consigli per la mia sicurezza.
Alla fine di quell’anno il ministro dei Trasporti Bersani mi chiese di continuare il lavoro di D’Antona all’Enav, per cercare di ricondurre entro limiti di correttezza e ragionevolezza un sistema di relazioni sindacali che sembrava impazzito. Accettai quell’incarico con qualche preoccupazione per la mia sicurezza. Nei tre anni successivi confesso che ero un po’ preoccupato: al mattino, quando uscivo di casa, pensavo che quello poteva essere il luogo dove sarebbe avvenuta l’aggressione e mi pareva di vedere in anticipo la scena della mia morte. D’altra parte, rinunciare a dire e scrivere quel che penso avrebbe significato subire l’intimidazione. Erano gli anni in cui collaboravo strettamente con Marco Biagi, che avevo chiamato a insegnare diritto comunitario del lavoro nel Master di cui ero Direttore e collaborava con me anche per la Rivista italiana di diritto del lavoro. Lui era ancora sotto scorta, prima che gliela togliessero. Mi ricordo che, parlando di questo pericolo, ci dicevamo che i nostri genitori e i nostri nonni erano stati chiamati a rischiare la vita su frontiere che meritavano assai di meno quel sacrificio: a noi toccava rischiarla su di una frontiera che lo meritava molto di più, quella del progresso civile, della difesa della Costituzione repubblicana, della libertà di pensiero e di parola.
Poi a lui la scorta venne tolta; e pochi mesi dopo venne ucciso sulla porta di casa. Il giorno dopo quell’assassinio, il 20 marzo 2002, venne immediatamente attivata la protezione per me. E da allora vivo sotto scorta.
Nel febbraio 2003 ci fu un’improvvisa intensificazione dell’allarme: un giorno per l’altro venni avvertito che avrei dovuto viaggiare sempre con un’auto blindata e un’altra auto al seguito, con cinque agenti; viaggiavamo sempre a sirene spiegate, mi accompagnavano anche in Università con le armi imbracciate. Poche settimane dopo capii meglio il perché, quando ci fu la sparatoria sul treno, nella quale venne ucciso Galesi e venne catturata Nadia Lioce: la polizia aveva notizia della preparazione di un attentato contro un giuslavorista particolarmente impegnato sul terreno delle riforme e aveva ragione di ritenere che potessi essere io il bersaglio.
Qualche tempo dopo quell’episodio la scorta è stata di nuovo ridotta a due soli agenti con una macchina. Fra il 2004 e il 2005 ho chiesto un paio di volte al Prefetto di Milano se non fosse il caso di revocare il dispositivo di protezione; e tutte le volte mi rispose che non era ancora il momento per farlo.
Nel giugno 2006, quando il Governo Prodi si era insediato da pochi giorni, il neo-ministro Tommaso Padoa Schioppa annunciò che sarebbero stati necessari alcuni tagli nella spesa pubblica. Poiché mi pareva che ormai il pericolo fosse cessato, colsi l’occasione per scrivergli una lettera, proponendogli di incominciare dal taglio della mia scorta. Nel settembre successivo, invece, il Prefetto mi convocò per dirmi che erano sopravvenuti motivi gravi, riguardanti specificamente me, per non abbassare la guardia. E nel febbraio 2007 capii quali erano quei motivi: fin dall’estate dell’anno prima era in corso un’indagine della Digos, dalla quale emergeva che un nuovo gruppo di terroristi aveva proprio me nel mirino: avevano fatto degli appostamenti e stavano preparando un’aggressione.
Così mi è toccato continuare a girare con la scorta, ad avere i due agenti alle costole anche in Università, davanti alla porta del mio studio, nell’aula in cui facevo lezione. Anche questa è una mortificazione, perché in qualche misura incide sul rapporto educativo tra me e i miei studenti; quei due agenti significano che, per le cose che insegno, che sostengo, che scrivo, c’è qualcuno che mi vorrebbe morto; qualcuno che considera quelle cose delittuose, addirittura mostruose: altrimenti perché le si considererebbero meritevoli della pena di morte? In qualche misura questa minaccia è rivolta, indirettamente, anche a loro, agli studenti: è come dire loro che stiano attenti, che non mi credano, che le mie idee sono pericolose come la peste.
Ma, soprattutto, quella minaccia è rivolta all’intera comunità dei giuslavoristi: è il loro dibattito che viene falsato, inquinato dall’intimidazione. Ne è leso nella sua libertà anche chi dissente dalle mie idee, perché non può esprimere il suo dissenso con la stessa serenità con cui lo farebbe in qualsiasi altro Paese civile, dove il dibattito è veramente libero.”
Pietro Ichino, senatore
Corriere della Sera
Solidarietà di Gianfranco Fini

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