Pietro Ichino risponde alle osservazioni critiche e agli interrogativi sul “progetto per la transizione a un sistema di flexsecurity”, proposti da Luigi Mariucci nel documento distribuito ai membri della Consulta del Lavoro e del Welfare del Pd in preparazione della sessione del 4 febbraio prossimo.
Occorre rinunciare a disegni tanto ambiziosi quanto velleitari e inconcludenti di mega-riforme: carte dei diritti, statuti dei lavori, contratto unico appaiono essere, nelle condizioni date, inutili e retorici .propositi. Si lasci perdere!
Il progetto di cui stiamo discutendo si distingue dalle “mega-riforme” di cui parla L.M. proprio perché, come è chiarito nella relazione introduttiva del disegno di legge, esso si propone di promuovere il mutamento di equilibrio del nostro sistema:
‑ non con un improvviso – e improbabile ‑ mutamento drastico della disciplina del mercato del lavoro e dei servizi in esso disponibili, bensì innescando un processo di superamento graduale del vecchio regime,
‑ puntando non su di una palingenesi istantanea del sistema, ma sul metodo del try and go, dove la sperimentazione è oggetto di scelta contrattuale tra impresa e sindacato, cui la legge si limita a offrire una guida e una sponda;
‑ scommettendo, sì, sulla superiorità effettiva di un nuovo regime, quello ispirato ai migliori modelli della flexsecurity nord-europea, rispetto al nostro vecchio regime di protezione; ma su di una superiorità che non viene presunta a priori,bensì assoggettata alla verifica della negoziazione tra le parti e della sperimentazione concreta;
‑ puntando, dunque, non sull’imposizione autoritativa, ma sull’accordo spontaneo tra le parti interessate, auspicabilmente destinato – se la scommessa verrà vinta – a estendersi a macchia d’olio dopo le prime esperienze positive;
‑ puntando non, come sempre in passato, sull’impegno di risorse pubbliche, ma sulla capacità del sistema di relazioni industriali di attivare autonomamente, e senza oneri per la collettività, un nuovo gioco a somma positiva nel quale i lavoratori stabili già in organico non hanno alcunché da perdere, mentre i new entrants e le imprese hanno molto da guadagnare;
‑ last but not least, puntando, non su di un improbabile, improvviso scatto di efficienza dei servizi pubblici di formazione e collocamento al lavoro, invano atteso da un quarto di secolo a questa parte, ma sull’attivazione da parte delle imprese stesse di nuove strutture di servizi fortemente incentivate (anzi: a ben vedere costrette dal vincolo economico) a essere efficienti.
È sbagliata la diagnosi su cui il progetto si fonda, di conseguenza la terapia non può funzionare. Non è vero che esistono insiders e outsiders intesi come blocchi contrapposti secondo un dualismo unilineare. E’ vero invece che esistono molti dualismi: nord-sud, pubblico-privato, tra i settori privati esposti alla concorrenza e quelli no, tra industria e terziario, tra imprese grandi e piccole. Con questi molti dualismi il diritto del lavoro ha sempre convissuto, in parte subendoli e in parte cercando di regolarli. Vanno affrontati uno ad uno, con politiche articolate, non con una ricetta unica.
Il modello insider/outsider costituisce da vent’anni uno dei paradigmi fondamentali dell’economia del lavoro post-keynesiana: non spetta certo a me difenderne l’utilità, né sul piano positivo, né su quello normativo. Quanto agli altri “dualismi”, certo il progetto di cui stiamo discutendo non ha la pretesa di affrontarli e risolverli tutti, bensì, soprattutto, quella di avviare a una progressiva riduzione due di essi: il dualismo-insider/outsider e il gap nel regime di protezione della stabilità tra imprese piccole e imprese medio-grandi.
Una salutare abstention of the law e una forte concentrazione sugli strumenti di una seria amministrazione del lavoro sarebbe la via maestra per tornare ai fondamenti e quindi alla utilità del diritto del lavoro.
Richiamo a questo proposito la risposta alla tesi analoga sostenuta da Donata Gottardi. È questa la tesi che porta alla “moratoria legislativa”: una scelta che ha oggi molti sostenitori, anche in seno allo schieramento di centro-destra (qui capitanati dal ministro Maurizio Sacconi). È una scelta ragionevolissima; ma con il superamento del dualismo di cui qui ci stiamo occupando ha ben poco a che fare. Alle nuove generazioni che si affacceranno nei prossimi anni sul mercato del lavoro, alle centinaia di migliaia di precari che in questo inizio di recessione stanno perdendo il posto per primi, senza un giorno di preavviso e senza una lira di indennizzo, ma anche a tutti gli altri lavoratori che dopo di loro perderanno il posto nelle crisi aziendali, quale tipo di lavoro prospettiamo credibilmente? In quali condizioni possono aspirare realisticamente a essere riassorbiti nel tessuto produttivo? Davvero pensiamo che possa soddisfarli, che possa costituire una proposta politica convincente, il solo nostro impegno a “migliorare il funzionamento degli attuali strumenti pubblici di amministrazione del lavoro”?
Documento di Luigi Mariucci
Occorre rinunciare a disegni tanto ambiziosi quanto velleitari e inconcludenti di mega-riforme: carte dei diritti, statuti dei lavori, contratto unico appaiono essere, nelle condizioni date, inutili e retorici .propositi. Si lasci perdere!
Il progetto di cui stiamo discutendo si distingue dalle “mega-riforme” di cui parla L.M. proprio perché, come è chiarito nella relazione introduttiva del disegno di legge, esso si propone di promuovere il mutamento di equilibrio del nostro sistema:
‑ non con un improvviso – e improbabile ‑ mutamento drastico della disciplina del mercato del lavoro e dei servizi in esso disponibili, bensì innescando un processo di superamento graduale del vecchio regime,
‑ puntando non su di una palingenesi istantanea del sistema, ma sul metodo del try and go, dove la sperimentazione è oggetto di scelta contrattuale tra impresa e sindacato, cui la legge si limita a offrire una guida e una sponda;
‑ scommettendo, sì, sulla superiorità effettiva di un nuovo regime, quello ispirato ai migliori modelli della flexsecurity nord-europea, rispetto al nostro vecchio regime di protezione; ma su di una superiorità che non viene presunta a priori,bensì assoggettata alla verifica della negoziazione tra le parti e della sperimentazione concreta;
‑ puntando, dunque, non sull’imposizione autoritativa, ma sull’accordo spontaneo tra le parti interessate, auspicabilmente destinato – se la scommessa verrà vinta – a estendersi a macchia d’olio dopo le prime esperienze positive;
‑ puntando non, come sempre in passato, sull’impegno di risorse pubbliche, ma sulla capacità del sistema di relazioni industriali di attivare autonomamente, e senza oneri per la collettività, un nuovo gioco a somma positiva nel quale i lavoratori stabili già in organico non hanno alcunché da perdere, mentre i new entrants e le imprese hanno molto da guadagnare;
‑ last but not least, puntando, non su di un improbabile, improvviso scatto di efficienza dei servizi pubblici di formazione e collocamento al lavoro, invano atteso da un quarto di secolo a questa parte, ma sull’attivazione da parte delle imprese stesse di nuove strutture di servizi fortemente incentivate (anzi: a ben vedere costrette dal vincolo economico) a essere efficienti.
È sbagliata la diagnosi su cui il progetto si fonda, di conseguenza la terapia non può funzionare. Non è vero che esistono insiders e outsiders intesi come blocchi contrapposti secondo un dualismo unilineare. E’ vero invece che esistono molti dualismi: nord-sud, pubblico-privato, tra i settori privati esposti alla concorrenza e quelli no, tra industria e terziario, tra imprese grandi e piccole. Con questi molti dualismi il diritto del lavoro ha sempre convissuto, in parte subendoli e in parte cercando di regolarli. Vanno affrontati uno ad uno, con politiche articolate, non con una ricetta unica.
Il modello insider/outsider costituisce da vent’anni uno dei paradigmi fondamentali dell’economia del lavoro post-keynesiana: non spetta certo a me difenderne l’utilità, né sul piano positivo, né su quello normativo. Quanto agli altri “dualismi”, certo il progetto di cui stiamo discutendo non ha la pretesa di affrontarli e risolverli tutti, bensì, soprattutto, quella di avviare a una progressiva riduzione due di essi: il dualismo-insider/outsider e il gap nel regime di protezione della stabilità tra imprese piccole e imprese medio-grandi.
Una salutare abstention of the law e una forte concentrazione sugli strumenti di una seria amministrazione del lavoro sarebbe la via maestra per tornare ai fondamenti e quindi alla utilità del diritto del lavoro.
Richiamo a questo proposito la risposta alla tesi analoga sostenuta da Donata Gottardi. È questa la tesi che porta alla “moratoria legislativa”: una scelta che ha oggi molti sostenitori, anche in seno allo schieramento di centro-destra (qui capitanati dal ministro Maurizio Sacconi). È una scelta ragionevolissima; ma con il superamento del dualismo di cui qui ci stiamo occupando ha ben poco a che fare. Alle nuove generazioni che si affacceranno nei prossimi anni sul mercato del lavoro, alle centinaia di migliaia di precari che in questo inizio di recessione stanno perdendo il posto per primi, senza un giorno di preavviso e senza una lira di indennizzo, ma anche a tutti gli altri lavoratori che dopo di loro perderanno il posto nelle crisi aziendali, quale tipo di lavoro prospettiamo credibilmente? In quali condizioni possono aspirare realisticamente a essere riassorbiti nel tessuto produttivo? Davvero pensiamo che possa soddisfarli, che possa costituire una proposta politica convincente, il solo nostro impegno a “migliorare il funzionamento degli attuali strumenti pubblici di amministrazione del lavoro”?
Documento di Luigi Mariucci
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