Propongo alla valutazione degli amici del blog le osservazioni di Donata Gottardi, parlamentare europeo, alla proposta del senatore Pietro Ichino sul mercato del lavoro. Per coloro che intendono confrontare la proposta del senatore Ichino e le osservazioni di Donata Gottardi segnalo il portale della Flexsecurity.
“Prima della formalizzazione della proposta di legge elaborata da Pietro Ichino, è utile riflettere su contenuti, obiettivi e finalità.Ci sono, come sempre, due piani di lettura – uno politico e uno tecnico –, ma mi pare necessario concentrarsi soprattutto nel cercare di comprendere meglio di cosa ci stiamo occupando.
Iniziamo dal titolo: “superamento del dualismo del mercato del lavoro”. Si tratta di un dualismo che ha ricevuto grande attenzione da anni, da quando si è messo in rilievo che esiste una cittadella di inclusi e un esercito di esclusi. Si tratta di una nozione sociologica. Più difficile, mi pare, sia applicarla in testo giuridico, a dimostrazione di quanto la legislazione del lavoro sia tutto sommato eccessivamente all’attenzione delle riforme, spesso a coprire assenza di strumenti e di politiche attive concrete.Proviamo comunque a declinare il dualismo in senso giuridico, decidendo chi fa parte degli inclusi e chi degli esclusi. La linea di demarcazione classica passa dal lavoro subordinato. Se fosse così, fanno parte dell’ambito incluso il lavoro a tempo parziale, ma anche l’apprendistato e il lavoro interinale.
Quanto al lavoro interinale, effettivamente, nelle FAQ (le domande ricorrenti, cui viene anticipatamente fornita risposta da Ichino) che accompagnano la proposta, l’autore ne afferma in linea di massima la sopravvivenza: durante il negoziato di transizione, “dovranno essere ben definiti i casi in cui la somministrazione temporanea di lavoro resta ammessa”. In altri termini, si esclude dal campo di applicazione della proposta il lavoro interinale con contratto a tempo indeterminato con l’agenzia di somministrazione (e contemporaneamente si ritiene utile ripristinare lo staff leasing, voluto dalla riforma del ministro Maroni e abrogato dal ministro Damiano, in considerazione della forte opposizione che aveva sollevato in ambito sindacale e giuridico), lasciando quindi comprendere come il discrimine venga collocato soprattutto (o esclusivamente?) a livello di durata del contratto. Se il lavoro interinale si svolge per la durata della missione – che è poi l’ipotesi ampiamente maggioritaria – rientra nell’ambito della proposta di superamento (alle condizioni che vedremo di seguito).
Nella proposta si dedica specifica attenzione al contratto a tempo determinato, che pure è lavoro subordinato, mantenendo la possibilità della sua stipulazione solo in ipotesi determinate.
Pur non essendo dato sapere la sorte dell’apprendistato (altra grande area di possibile contratto di lavoro), abbiamo quindi determinato che il dualismo di cui si parla nel titolo ha come discrimine non tanto la subordinazione quanto la apposizione di un termine al contratto di lavoro.
Ed in effetti, il lavoro a progetto – fattispecie tipica del cosiddetto lavoro parasubordinato – nella attuale regolamentazione legislativa prevede sempre l’apposizione del termine ed è uno dei contratti cardine degli ‘esclusi’, degli outsiders..A ben vedere non tutto é così lineare. Nell’articolo 5 della bozza, il discrimine torna a passare tra il lavoro subordinato da un lato e il lavoro autonomo e il lavoro parasubordinato ‘ben pagato’ dall'altro. Qui posso solo sollevare questo dubbio: possiamo davvero pensare che sia tale quando la retribuzione annua lorda sia superiore ai 40.000 euro? Se decliniamo questo ammontare al netto mensile, non mi pare che la soglia sia particolarmente elevata. E perché escludere chi percepisce una retribuzione superiore? L’obiettivo, in ogni modo, sembra essere quello di superare la possibilità di apporre un termine al contratto, qualunque esso sia, fatti salvi i casi indicati. Si assiste insomma a una sorta di riproduzione della situazione degli anni ’60, quando la prima legge sul lavoro a termine aveva indicato i casi tassativi di contratto a tempo determinato. Ora i casi indicati sono ancora più limitati. In questo siamo all’interno e anzi rafforziamo la prospettiva europea, soprattutto quella del Parlamento europeo, che continua a ripetere di considerare il contratto a tempo indeterminato la regola e il contratto a termine l’eccezione.
Fin qui, quindi, tutto bene? Se anche si condividesse questa impostazione, resta da affrontare la contropartita.
La proposta punta alla volontaria stipulazione di un contratto di transizione, non a caso collocato negli articoli di apertura (1 e 2) della bozza.
Occorre, a questo punto, trovare l’assetto di convenienze che porti i datori di lavoro a superare l’attuale frammentazione tipologica e a passare al nuovo sistema. Ed è così che incontriamo il cardine su cui ruota la proposta: la liberalizzazione del licenziamento.Inutile girarci attorno. Questo è il fulcro. Il fulcro è la riduzione di portata (in tutti i sensi possibili) dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, cioè la disposizione che ha introdotto quella che siamo abituati a chiamare ‘tutela reale’ (cioè la reintegrazione e il risarcimento economico, che già ora, quasi sempre, si traduce non tanto nel rientro al lavoro quanto nel pagamento di somme elevate da parte del datore di lavoro, pagamento che fa da deterrente rispetto al licenziamento). Molto si potrebbe dire su questo. Mi limito a ricordare quanto ampiamente noto: il nostro sistema produttivo è composto da microimprese e piccole imprese, che già applicano solo la cosiddetta ‘tutela obbligatoria’ (cioè la riassunzione o il pagamento di una indennità, di limitata entità e legata all’anzianità di servizio). E per queste imprese è quasi assente l’interesse a entrare nel sistema prospettato nella bozza. Del resto lo stesso Ichino lo afferma, nelle FAQ (“presumibilmente non saranno molte le piccole imprese che in questa fase stipuleranno il contratto di transizione”).
E allora? Se la maggior parte delle imprese non sarà coinvolta, di quale superamento di dualismo stiamo parlando?
Forse dobbiamo chiamare la proposta con il suo titolo: riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Continuo però a ritenere quanto meno bizzarro che proprio dal Partito democratico provenga la riproposizione – sia pure alcuni anni dopo la grande manifestazione di Roma – del superamento della tutela reale, dopo il suo accantonamento per mancanza di interesse da parte delle stesse imprese e del governo di destra.
Ma confrontiamoci ancora con la proposta, sospendendo la parte relativa alla riforma del licenziamento.Il periodo di prova diventa di sei mesi. Una novità limitata, se la guardiamo dal versante legislativo, dato che è già così. Su questo ci sono regole della contrattazione collettiva, che normalmente distinguono a seconda delle competenze e della professionalità della lavoratrice o del lavoratore. E non mi pare sbagliato.
Qui aggiungo una osservazione di portata più generale: forse le riforme dovrebbero semplificare, ma non uniformare o massificare. Siamo in un mondo sempre più complesso, con esigenze multiformi, non solo provenienti dalle imprese, ma anche dalle lavoratrici e dai lavoratori. Una regola uguale per tutti, mi pare un principio non adatto al ‘mondo liquido’.
La contribuzione previdenziale viene rideterminata in misura uguale per tutti i rapporti. Ma questo, immagino, solo prendendo a riferimento la contribuzione nel rapporto tra lavoro subordinato e quella nel lavoro a progetto (e vecchie collaborazioni coordinate e continuative). Di nuovo mi chiedo: e l’apprendistato? E il lavoro domestico? E potrei continuare. In ogni caso, si tratta di una esigenza ampiamente condivisa, ma che deve tradursi anche in parificazione dei diritti. Ad esempio, ho sempre pensato che fosse inutile – ma continuiamo a farlo e a proporlo – parlare di congedo parentale laddove non vi sia inserimento fisico nell’organizzazione produttiva del datore di lavoro e determinazione dell’orario di lavoro. Stiamo davvero pensando di tornare al lavoro calcolato solo sulla base della messa a disposizione delle energie della lavoratrice e del lavoratore, senza tener conto del risultato del lavoro?
In ogni caso, ancora, si tratta di intervenire sul profilo previdenziale e sui diritti di sicurezza sociale, dove forse si potrebbe osare di più. In particolare si potrebbe forse finalmente riflettere sul contratto di attività, proposto ormai un bel po’ di anni fa in Francia, ma che richiede una revisione complessiva del sistema di Welfare.
Veniamo così alla protezione sociale in caso di crisi. La revisione degli ammortizzatori sociali è da tempo all’attenzione, compreso il passaggio agli enti bilaterali. Inutile mi pare però parlare di modello danese, dato che ci separano da quel Paese dimensione territoriale, efficacia dei servizi, cultura del lavoro e della società.
Per certi aspetti, basterebbe forse anche solo decidersi ad applicare la normativa che già abbiamo e che fonda le sue origini nelle riforme del primo governo Prodi, come nel caso dell’obbligo di accettare proposte di formazione e di lavoro.
Quanto agli enti bilaterali, possono essere un utile strumento, ma è evidente che tanto più piccolo è l’ambito (settoriale) di riferimento, tanto minori possono essere le risorse a disposizione.
Arriviamo finalmente ora al tema vero della proposta: la riforma del licenziamento per esigenze del datore di lavoro.
Sappiamo quanto sia difficile riformare il licenziamento. Ichino sostiene che in questo modo, finalmente, si dedicherà attenzione al licenziamento discriminatorio e che si formerà finalmente giurisprudenza sul diritto antidiscriminatorio. Una prospettiva interessante per chi, come me, da decenni si occupa di discriminazioni. Ma il ragionamento prova troppo. Se esiste la scorciatoia del pagamento di una indennità, già prequantificata, perché il datore di lavoro dovrebbe dichiarare che il motivo del licenziamento é fondato sul comportamento o su caratteristiche della lavoratrice o del lavoratore? Il controllo giudiziale si evita sempre. Oppure si pensa di avere convenienza a rischiare e a portare la causa davanti al giudice, … ma allora probabilmente si tratta di un datore di lavoro che non è entrato nell’alveo del contratto (volontario) di transizione.E’ sempre stato così, del resto. Il datore di lavoro, quando pure avrebbe potuto licenziare senza portare la motivazione (c.d. recesso ad nutum), apponeva la motivazione, facendo ricadere la colpa sulla lavoratrice o sul lavoratore, per risparmiare l’indennità di fine rapporto. E quando è cambiata la regola e si è previsto che l’indennità di fine rapporto spettasse anche nel caso di licenziamento determinato da comportamenti della lavoratrice o del lavoratore (c.d. licenziamento disciplinare), si è aggiunto che la motivazione occorresse sempre, sia per ragioni soggettive sia per ragioni oggettive.Ora, se per ragioni oggettive, scatta un automatismo … vedremo ridursi in maniera esponenziale la conflittualità in giudizio per licenziamento individuale. Forse é questo l'obiettivo, data l'incombenza della recessione e della crisi occupazionale. Ma mi pare una risposta 'strana' nel momento 'sbagliato'.
C’è ancora un punto da segnalare, che riguarda ancora una volta l’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Ichino interviene anche sulla disposizione vigente, eliminando la tutela reale e facendola diventare mera tutela obbligatoria. Al datore di lavoro, infatti, una volta che il giudice ha dato ragione alla lavoratrice o al lavoratore, si consente di scegliere tra la reintegrazione o il risarcimento economico, cioé quanto previsto ora per le imprese di minori dimensioni.
Qui siamo all’affossamento definitivo dell’articolo 18 Statuto dei diritti dei lavoratori. Ne siamo consci? E’ questo che vogliamo?
Nella bozza è previsto un sistema di ricollocazione, cioè servizi di politiche attive del lavoro. Ma non dovremmo utilizzare altri ambiti per far diventare effettive queste politiche? Mi pare interessante soprattutto segnalare una anomalia. Il contratto di ricollocazione al lavoro (art. 3) spetta in caso di licenziamento non disciplinare e di “licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo in sede giudiziale” (art. 3, 1), sia pure con l’aggiunta che alla decisione del giudice non abbia “fatto seguito la reintegrazione”.
Perché escludere dal sistema di protezione sul mercato del lavoro coloro che sono stati licenziati per motivi disciplinari? Un conto è la protezione economica, un conto l’esclusione dalle attività formative e di ricollocazione.
Detto incidentalmente, mi pare manchi nella proposta un collegamento con il licenziamento collettivo per riduzione di personale.
Resta infine il profilo europeo. Mi piacerebbe innanzitutto che decidessimo di utilizzare il termine inglese delle istituzioni europee: flexicurity, ma questo attiene al mero piano formale.Resta quello sostanziale. I principi comuni di flexicurity sono stati proposti dalla Commissione europea e sono poi passati al vaglio del Parlamento europeo, che ha scritto parole chiare, rinviando al mittente e smascherando la Commissione. Ad esempio, il Parlamento europeo – che non è a maggioranza di sinistra, come è noto – rifiuta l’idea che si possa scambiare minore flessibilità in entrata con maggiore flessibilità in uscita. Purtroppo è proprio questo scambio ad essere alla base, mi pare, della proposta.Può darsi che Ichino abbia ragione. Spesso ha anticipato i tempi, diagnosticando i problemi e cogliendo le attese. Si pensi a quando ha parlato di 'collocamento impossibile', che però é diventata rinuncia al servizio pubblico di collocamento.
E quanto scrive in apertura del suo progetto va totalmente condiviso. Solo che non mi pare che la elaborazione corrisponda alle premesse e, soprattutto, riguarda un'altra cosa.Se accettiamo questa proposta dobbiamo essere consapevoli che non ci stiamo occupando, come annunciato, di un contratto unico, con progressione della tutela man mano che passa il tempo (quello che ho definito ‘contratto a punti’), ma piuttosto dell’invito a scambiare maggiore libertà di licenziamento – dando certezza dei suoi costi, compresa la riduzione della conflittualità giudiziale – con il superamento del lavoro parasubordinato. Con una ulteriore aggravante: le scarse probabilità di riuscita, se pensiamo che la maggior parte delle imprese (le piccole) non saranno coinvolte e che non é detto che il varco del lavoro autonomo e delle libere professioni (bastando l'iscrizione all'albo!) non diventi di nuovo un'autostrada per mantenere e non per ridurre il dualismo.
E ci stiamo occupando di eliminare la tutela reale del licenziamento. Forse sarebbe preferibile dichiararlo in maniera trasparente.”
Donata Gottardi
“Prima della formalizzazione della proposta di legge elaborata da Pietro Ichino, è utile riflettere su contenuti, obiettivi e finalità.Ci sono, come sempre, due piani di lettura – uno politico e uno tecnico –, ma mi pare necessario concentrarsi soprattutto nel cercare di comprendere meglio di cosa ci stiamo occupando.
Iniziamo dal titolo: “superamento del dualismo del mercato del lavoro”. Si tratta di un dualismo che ha ricevuto grande attenzione da anni, da quando si è messo in rilievo che esiste una cittadella di inclusi e un esercito di esclusi. Si tratta di una nozione sociologica. Più difficile, mi pare, sia applicarla in testo giuridico, a dimostrazione di quanto la legislazione del lavoro sia tutto sommato eccessivamente all’attenzione delle riforme, spesso a coprire assenza di strumenti e di politiche attive concrete.Proviamo comunque a declinare il dualismo in senso giuridico, decidendo chi fa parte degli inclusi e chi degli esclusi. La linea di demarcazione classica passa dal lavoro subordinato. Se fosse così, fanno parte dell’ambito incluso il lavoro a tempo parziale, ma anche l’apprendistato e il lavoro interinale.
Quanto al lavoro interinale, effettivamente, nelle FAQ (le domande ricorrenti, cui viene anticipatamente fornita risposta da Ichino) che accompagnano la proposta, l’autore ne afferma in linea di massima la sopravvivenza: durante il negoziato di transizione, “dovranno essere ben definiti i casi in cui la somministrazione temporanea di lavoro resta ammessa”. In altri termini, si esclude dal campo di applicazione della proposta il lavoro interinale con contratto a tempo indeterminato con l’agenzia di somministrazione (e contemporaneamente si ritiene utile ripristinare lo staff leasing, voluto dalla riforma del ministro Maroni e abrogato dal ministro Damiano, in considerazione della forte opposizione che aveva sollevato in ambito sindacale e giuridico), lasciando quindi comprendere come il discrimine venga collocato soprattutto (o esclusivamente?) a livello di durata del contratto. Se il lavoro interinale si svolge per la durata della missione – che è poi l’ipotesi ampiamente maggioritaria – rientra nell’ambito della proposta di superamento (alle condizioni che vedremo di seguito).
Nella proposta si dedica specifica attenzione al contratto a tempo determinato, che pure è lavoro subordinato, mantenendo la possibilità della sua stipulazione solo in ipotesi determinate.
Pur non essendo dato sapere la sorte dell’apprendistato (altra grande area di possibile contratto di lavoro), abbiamo quindi determinato che il dualismo di cui si parla nel titolo ha come discrimine non tanto la subordinazione quanto la apposizione di un termine al contratto di lavoro.
Ed in effetti, il lavoro a progetto – fattispecie tipica del cosiddetto lavoro parasubordinato – nella attuale regolamentazione legislativa prevede sempre l’apposizione del termine ed è uno dei contratti cardine degli ‘esclusi’, degli outsiders..A ben vedere non tutto é così lineare. Nell’articolo 5 della bozza, il discrimine torna a passare tra il lavoro subordinato da un lato e il lavoro autonomo e il lavoro parasubordinato ‘ben pagato’ dall'altro. Qui posso solo sollevare questo dubbio: possiamo davvero pensare che sia tale quando la retribuzione annua lorda sia superiore ai 40.000 euro? Se decliniamo questo ammontare al netto mensile, non mi pare che la soglia sia particolarmente elevata. E perché escludere chi percepisce una retribuzione superiore? L’obiettivo, in ogni modo, sembra essere quello di superare la possibilità di apporre un termine al contratto, qualunque esso sia, fatti salvi i casi indicati. Si assiste insomma a una sorta di riproduzione della situazione degli anni ’60, quando la prima legge sul lavoro a termine aveva indicato i casi tassativi di contratto a tempo determinato. Ora i casi indicati sono ancora più limitati. In questo siamo all’interno e anzi rafforziamo la prospettiva europea, soprattutto quella del Parlamento europeo, che continua a ripetere di considerare il contratto a tempo indeterminato la regola e il contratto a termine l’eccezione.
Fin qui, quindi, tutto bene? Se anche si condividesse questa impostazione, resta da affrontare la contropartita.
La proposta punta alla volontaria stipulazione di un contratto di transizione, non a caso collocato negli articoli di apertura (1 e 2) della bozza.
Occorre, a questo punto, trovare l’assetto di convenienze che porti i datori di lavoro a superare l’attuale frammentazione tipologica e a passare al nuovo sistema. Ed è così che incontriamo il cardine su cui ruota la proposta: la liberalizzazione del licenziamento.Inutile girarci attorno. Questo è il fulcro. Il fulcro è la riduzione di portata (in tutti i sensi possibili) dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, cioè la disposizione che ha introdotto quella che siamo abituati a chiamare ‘tutela reale’ (cioè la reintegrazione e il risarcimento economico, che già ora, quasi sempre, si traduce non tanto nel rientro al lavoro quanto nel pagamento di somme elevate da parte del datore di lavoro, pagamento che fa da deterrente rispetto al licenziamento). Molto si potrebbe dire su questo. Mi limito a ricordare quanto ampiamente noto: il nostro sistema produttivo è composto da microimprese e piccole imprese, che già applicano solo la cosiddetta ‘tutela obbligatoria’ (cioè la riassunzione o il pagamento di una indennità, di limitata entità e legata all’anzianità di servizio). E per queste imprese è quasi assente l’interesse a entrare nel sistema prospettato nella bozza. Del resto lo stesso Ichino lo afferma, nelle FAQ (“presumibilmente non saranno molte le piccole imprese che in questa fase stipuleranno il contratto di transizione”).
E allora? Se la maggior parte delle imprese non sarà coinvolta, di quale superamento di dualismo stiamo parlando?
Forse dobbiamo chiamare la proposta con il suo titolo: riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Continuo però a ritenere quanto meno bizzarro che proprio dal Partito democratico provenga la riproposizione – sia pure alcuni anni dopo la grande manifestazione di Roma – del superamento della tutela reale, dopo il suo accantonamento per mancanza di interesse da parte delle stesse imprese e del governo di destra.
Ma confrontiamoci ancora con la proposta, sospendendo la parte relativa alla riforma del licenziamento.Il periodo di prova diventa di sei mesi. Una novità limitata, se la guardiamo dal versante legislativo, dato che è già così. Su questo ci sono regole della contrattazione collettiva, che normalmente distinguono a seconda delle competenze e della professionalità della lavoratrice o del lavoratore. E non mi pare sbagliato.
Qui aggiungo una osservazione di portata più generale: forse le riforme dovrebbero semplificare, ma non uniformare o massificare. Siamo in un mondo sempre più complesso, con esigenze multiformi, non solo provenienti dalle imprese, ma anche dalle lavoratrici e dai lavoratori. Una regola uguale per tutti, mi pare un principio non adatto al ‘mondo liquido’.
La contribuzione previdenziale viene rideterminata in misura uguale per tutti i rapporti. Ma questo, immagino, solo prendendo a riferimento la contribuzione nel rapporto tra lavoro subordinato e quella nel lavoro a progetto (e vecchie collaborazioni coordinate e continuative). Di nuovo mi chiedo: e l’apprendistato? E il lavoro domestico? E potrei continuare. In ogni caso, si tratta di una esigenza ampiamente condivisa, ma che deve tradursi anche in parificazione dei diritti. Ad esempio, ho sempre pensato che fosse inutile – ma continuiamo a farlo e a proporlo – parlare di congedo parentale laddove non vi sia inserimento fisico nell’organizzazione produttiva del datore di lavoro e determinazione dell’orario di lavoro. Stiamo davvero pensando di tornare al lavoro calcolato solo sulla base della messa a disposizione delle energie della lavoratrice e del lavoratore, senza tener conto del risultato del lavoro?
In ogni caso, ancora, si tratta di intervenire sul profilo previdenziale e sui diritti di sicurezza sociale, dove forse si potrebbe osare di più. In particolare si potrebbe forse finalmente riflettere sul contratto di attività, proposto ormai un bel po’ di anni fa in Francia, ma che richiede una revisione complessiva del sistema di Welfare.
Veniamo così alla protezione sociale in caso di crisi. La revisione degli ammortizzatori sociali è da tempo all’attenzione, compreso il passaggio agli enti bilaterali. Inutile mi pare però parlare di modello danese, dato che ci separano da quel Paese dimensione territoriale, efficacia dei servizi, cultura del lavoro e della società.
Per certi aspetti, basterebbe forse anche solo decidersi ad applicare la normativa che già abbiamo e che fonda le sue origini nelle riforme del primo governo Prodi, come nel caso dell’obbligo di accettare proposte di formazione e di lavoro.
Quanto agli enti bilaterali, possono essere un utile strumento, ma è evidente che tanto più piccolo è l’ambito (settoriale) di riferimento, tanto minori possono essere le risorse a disposizione.
Arriviamo finalmente ora al tema vero della proposta: la riforma del licenziamento per esigenze del datore di lavoro.
Sappiamo quanto sia difficile riformare il licenziamento. Ichino sostiene che in questo modo, finalmente, si dedicherà attenzione al licenziamento discriminatorio e che si formerà finalmente giurisprudenza sul diritto antidiscriminatorio. Una prospettiva interessante per chi, come me, da decenni si occupa di discriminazioni. Ma il ragionamento prova troppo. Se esiste la scorciatoia del pagamento di una indennità, già prequantificata, perché il datore di lavoro dovrebbe dichiarare che il motivo del licenziamento é fondato sul comportamento o su caratteristiche della lavoratrice o del lavoratore? Il controllo giudiziale si evita sempre. Oppure si pensa di avere convenienza a rischiare e a portare la causa davanti al giudice, … ma allora probabilmente si tratta di un datore di lavoro che non è entrato nell’alveo del contratto (volontario) di transizione.E’ sempre stato così, del resto. Il datore di lavoro, quando pure avrebbe potuto licenziare senza portare la motivazione (c.d. recesso ad nutum), apponeva la motivazione, facendo ricadere la colpa sulla lavoratrice o sul lavoratore, per risparmiare l’indennità di fine rapporto. E quando è cambiata la regola e si è previsto che l’indennità di fine rapporto spettasse anche nel caso di licenziamento determinato da comportamenti della lavoratrice o del lavoratore (c.d. licenziamento disciplinare), si è aggiunto che la motivazione occorresse sempre, sia per ragioni soggettive sia per ragioni oggettive.Ora, se per ragioni oggettive, scatta un automatismo … vedremo ridursi in maniera esponenziale la conflittualità in giudizio per licenziamento individuale. Forse é questo l'obiettivo, data l'incombenza della recessione e della crisi occupazionale. Ma mi pare una risposta 'strana' nel momento 'sbagliato'.
C’è ancora un punto da segnalare, che riguarda ancora una volta l’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Ichino interviene anche sulla disposizione vigente, eliminando la tutela reale e facendola diventare mera tutela obbligatoria. Al datore di lavoro, infatti, una volta che il giudice ha dato ragione alla lavoratrice o al lavoratore, si consente di scegliere tra la reintegrazione o il risarcimento economico, cioé quanto previsto ora per le imprese di minori dimensioni.
Qui siamo all’affossamento definitivo dell’articolo 18 Statuto dei diritti dei lavoratori. Ne siamo consci? E’ questo che vogliamo?
Nella bozza è previsto un sistema di ricollocazione, cioè servizi di politiche attive del lavoro. Ma non dovremmo utilizzare altri ambiti per far diventare effettive queste politiche? Mi pare interessante soprattutto segnalare una anomalia. Il contratto di ricollocazione al lavoro (art. 3) spetta in caso di licenziamento non disciplinare e di “licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo in sede giudiziale” (art. 3, 1), sia pure con l’aggiunta che alla decisione del giudice non abbia “fatto seguito la reintegrazione”.
Perché escludere dal sistema di protezione sul mercato del lavoro coloro che sono stati licenziati per motivi disciplinari? Un conto è la protezione economica, un conto l’esclusione dalle attività formative e di ricollocazione.
Detto incidentalmente, mi pare manchi nella proposta un collegamento con il licenziamento collettivo per riduzione di personale.
Resta infine il profilo europeo. Mi piacerebbe innanzitutto che decidessimo di utilizzare il termine inglese delle istituzioni europee: flexicurity, ma questo attiene al mero piano formale.Resta quello sostanziale. I principi comuni di flexicurity sono stati proposti dalla Commissione europea e sono poi passati al vaglio del Parlamento europeo, che ha scritto parole chiare, rinviando al mittente e smascherando la Commissione. Ad esempio, il Parlamento europeo – che non è a maggioranza di sinistra, come è noto – rifiuta l’idea che si possa scambiare minore flessibilità in entrata con maggiore flessibilità in uscita. Purtroppo è proprio questo scambio ad essere alla base, mi pare, della proposta.Può darsi che Ichino abbia ragione. Spesso ha anticipato i tempi, diagnosticando i problemi e cogliendo le attese. Si pensi a quando ha parlato di 'collocamento impossibile', che però é diventata rinuncia al servizio pubblico di collocamento.
E quanto scrive in apertura del suo progetto va totalmente condiviso. Solo che non mi pare che la elaborazione corrisponda alle premesse e, soprattutto, riguarda un'altra cosa.Se accettiamo questa proposta dobbiamo essere consapevoli che non ci stiamo occupando, come annunciato, di un contratto unico, con progressione della tutela man mano che passa il tempo (quello che ho definito ‘contratto a punti’), ma piuttosto dell’invito a scambiare maggiore libertà di licenziamento – dando certezza dei suoi costi, compresa la riduzione della conflittualità giudiziale – con il superamento del lavoro parasubordinato. Con una ulteriore aggravante: le scarse probabilità di riuscita, se pensiamo che la maggior parte delle imprese (le piccole) non saranno coinvolte e che non é detto che il varco del lavoro autonomo e delle libere professioni (bastando l'iscrizione all'albo!) non diventi di nuovo un'autostrada per mantenere e non per ridurre il dualismo.
E ci stiamo occupando di eliminare la tutela reale del licenziamento. Forse sarebbe preferibile dichiararlo in maniera trasparente.”
Donata Gottardi
Nessun commento:
Posta un commento