martedì 31 marzo 2009

E’ possibile riaccendere la speranza?

Note per un dibattito sulla crisi e le prospettive del Partito Democratico di Roberto Fasoli
Le dimissioni di Veltroni evidenziano una situazione di grave difficoltà del Partito Democratico. E’ necessario trovare subito il modo per affrontare la crisi se non vogliamo compromettere un progetto di grandissima importanza. Per farlo, a mio parere, serve una discussione seria ed approfondita che non abbia alcuna remora nell’affrontare anche le questioni più delicate e difficili. Proprio chi è stato ed è convinto della bontà del progetto deve trovare la forza per riprendere l’iniziativa. Questo documento con le riflessioni e le proposte che contiene vuole essere un contributo di speranza che però deve essere accompagnata da una analisi su quanto è accaduto a partire dall’avvio del progetto. Ovviamente esprime un punto di vista personale e vuole essere uno stimolo per una discussione che ritengo non possa essere ulteriormente rinviata e che potrà svilupparsi sull’insieme dei temi proposti o a partire da alcuni ritenuti prioritari.
Certamente non è un documento esaustivo e soprattutto per quanto riguarda la parte progettuale e la proposta organizzativa si dovrà fare un duro lavoro di messa a punto, partendo dalle elaborazioni già sviluppate. Questo lavoro non potrà che essere frutto di in impegno collettivo da parte di persone che condividono l’esigenza di una ridefinizione del progetto a partire da una analisi critica del recente passato, da realizzare senza rimettere in campo vecchi schemi e vecchie appartenenze, per evitare, data la complessità della fase che si apre, di rassegnarsi alla sconfitta del progetto. Ovviamente il documento è aperto ai contributi, alle critiche e alle proposte di che ritiene utile questa discussione, per arrivare assieme ad una piattaforma che possa veramente costituire una base solida per rilanciare il progetto del PD come partito realmente nuovo.
Perché le dimissioni di Veltroni?
Ogni seria riflessione sul futuro del PD non può che partire da un’analisi delle cause che hanno portato alle dimissioni di Walter Veltroni, indicato il 14 ottobre 2007, a grandissima maggioranza (75,79%), come primo segretario del Partito Democratico da una platea di cittadini elettori straordinaria: 3.554.169 persone hanno partecipato al voto, con grande slancio ed entusiasmo che sono progressivamente calati nei mesi a seguire.
In primo luogo, bisogna stabilire se si è arrivati alle dimissioni per una fuga in avanti di Veltroni o se hanno vinto le vecchie burocrazie di partito. Personalmente, non ho dubbi. Veltroni cade per la sua incapacità di gestire l’enorme potere e l’enorme consenso concessigli e per responsabilità di forze interne che non si sono mai distinte nel sostegno di un progetto di partito veramente nuovo, se non a parole.
Ma andiamo con ordine.
Gli errori sono molteplici e sono ormai oggetto di numerosi studi che hanno ben analizzato i tanti passi falsi commessi dal centrosinistra e dal PD. Penso ai libri di Edmondo Berselli e di Rodolfo Brancoli, tanto per fare due esempi.
Provo schematicamente a riassumere per punti le questioni che ritengo più rilevanti.
a) Mancanza di coraggio e ricerca di una legittimazione ad opera delle vecchie leadership
Veltroni viene candidato alla guida del PD nel momento in cui vanno in crisi altre possibili proposte, in casa DS in particolare, dopo la sconfitta alle elezioni amministrative e sotto la spinta delle inchieste giudiziarie.
D’Alema aveva più volte dichiarato la sua netta contrarietà a Veltroni segretario e poi – com’è solito fare – con una virata magistrale e plateale ne diventa sostenitore, preso atto che altri candidati non erano proponibili.
Veltroni, temendo una trappola, prende tempo e poi, quando capisce che non ci sono alternative, invece di sfruttare la situazione a suo favore sfidando apertamente la vecchia classe dirigente dei Democratici di Sinistra e della Margherita, ne ricerca l’appoggio più largo possibile, per di più con il gravissimo errore dei DS di adoperarsi per impedire qualsiasi altra candidatura alternativa all’interno del partito. Bersani ammette solo oggi di aver sbagliato. Se non fosse per la Bindi prima e per Letta subito dopo, per Veltroni si sarebbe trattato di una corsa in solitaria verso una legittimazione popolare plebiscitaria.
Veltroni manca di coraggio e non capisce che l’incipit sarà determinante per il futuro della sua segreteria. Vince facilmente le primarie sostenuto da una coalizione che pensa cose opposte su una serie di temi strategici, ma è unita sul suo nome e sul patto di gestione.
L’indicazione di un vice-segretario uomo, nella persona di Franceschini, suggella il patto di potere tra DS e Margherita e cancella in un sol colpo ogni proclama sulla parità di genere, non creando grandi reazioni tra le donne dei due principali partiti.
b) Una legittimazione popolare che nasce da un equivoco sulla forma partito
Com’è noto, i tempi per arrivare al PD prevedevano, dopo Orvieto, il suo esordio elettorale con le elezioni europee del 2009. Le vicende del governo Prodi e quelle sopra ricordate, hanno fatto precipitare i tempi e si è arrivati alla nascita del partito a tappe forzate senza sciogliere i nodi politici ed organizzativi fondamentali, che rimangono tuttora irrisolti.
In particolare, sulla forma partito si sceglie una procedura molto impegnativa che avrebbe dovuto comportare decisioni conseguenti. Far eleggere il segretario nazionale e i segretari regionali con il voto di tutti i cittadini in elezioni primarie aperte è una scelta molto netta rispetto alle procedure del passato.
Nessuno al di fuori delle vecchie burocrazie di partito può avere concrete chance di vittoria in elezioni di queste dimensioni, che richiedono una disponibilità di strutture, risorse umane e mezzi notevoli. Alcuni, più prudentemente, avevano fatto osservare che si trattava di una scelta estremamente impegnativa dalla quale poi era difficile tornare indietro. La maggioranza fa finta di non capire e là dove sarebbe possibile competere anche per gli outsider non si scelgono le primarie e i segretari provinciali e di circolo vengono eletti dai delegati in elezioni di secondo livello. Esattamente l’opposto di quello che serviva.
Nascono così leader apparentemente fortissimi, con una legittimazione di massa, ma totalmente legati agli accordi di vertice che li hanno prodotti.
L’accelerazione dei tempi e le modalità scelte, unite alla totale miopia dei vecchi gruppi dirigenti DS e Margherita, tagliano fuori del tutto e ovunque, per le cariche di prima responsabilità, le persone che provengono da altre esperienze. Addirittura c’è un patto nazionale che spartisce le segreterie regionali, tenendo conto delle sottocomponenti dei rispettivi partiti. Accanto ad una scelta apparentemente di larga democrazia si assiste ad una stretta poderosa degli apparati che scaverà un solco profondo tra le aspettative dei cittadini e le pratiche concrete del partito.
c) Si allarga lo scarto tra dire e fare, tra linee programmatiche e pratica concreta
Veltroni nell’annunciare la sua candidatura fa nascere grandi speranze in ampi settori del popolo di centrosinistra, ma non convince fino in fondo i critici più avvertiti.
L’elaborazione dei documenti programmatici e dello statuto viene affidata ad un selezionato gruppo di esperti che, nello sforzo di mediazione necessario a tenere insieme tutti, riesce a scontentare un vastissimo arco di persone che per senso di responsabilità non affondano le critiche, anche per non sembrare quelli che intendono guastare una grande festa ed un progetto appena agli inizi.
Ma già il 28 ottobre a Milano le procedure democratiche vanno per aria e alla fine si vota con le persone in piedi ed il cappotto in mano, pronte per tornare a casa. La proposta della presidenza che nomina Veltroni e il suo vice viene messa ai voti senza discussione e con una procedura approssimativa, i voti non si contano; molti escono delusi da questa prima esperienza di Partito Democratico e non mancano le critiche.
La stessa approvazione dei documenti fondativi non riesce a dissipare i tanti dubbi. Ma bisogna fare in fretta perché le elezioni rischiano di essere alle porte ed il partito deve essere pronto.
Molti sono perplessi e critici ma decidono di non aprire apertamente la discussione. La politica però ci ha insegnato che le cose fatte in fretta senza risolvere le questioni strategiche prima o poi entrano in difficoltà e ci si trova davanti tutti i problemi che erano stati accantonati o lasciati sospesi.
Si tenga anche conto del fatto che gli effetti annuncio e lo svolgimento delle primarie hanno creato un grande clima di speranza e di attesa tra i cittadini che, ancora una volta, si fidano e chiedono che non si tratti di una nuova disillusione dopo la mancata concretizzazione dell’Ulivo, quando era necessario e possibile portare a compimento il processo iniziato da Prodi, e dopo i vergognosi dietro-front seguiti alle primarie che avevano indicato con larghissimo consenso Prodi come sfidante di Berlusconi alle elezioni del 2006.
Poi sappiamo come le cose sono andate. Alle elezioni del 2006 DS e Margherita riescono nel capolavoro di presentarsi uniti alla Camera e divisi al Senato, nonostante le molte sollecitazioni per una soluzione unitaria; hanno esigenza di misurare i loro rapporti di forza e questa scelta si rivela fallimentare. Forse non sarebbe cambiato radicalmente lo scenario ma è certo, dati alla mano, che la maggioranza di Prodi al Senato avrebbe potuto essere meno risicata di quella uscita dalle urne rendendo la vita dl Governo un po’ meno avventurosa ed esposta ad ogni evento.
Anche questa decisione provocherà l’allargamento dello scarto tra le aspettative dei cittadini e la pratica dei gruppi dirigenti. Scarto che aumenterà progressivamente a seguito delle scelte che il Governo effettuerà nell’intento di tenere insieme una coalizione che fin dal primo momento si mostra più preoccupata dei propri equilibri interni che di governare il Paese.
d) L’equivoco sostegno al governo Prodi e alla leadership dell’unico candidato cha ha battuto Berlusconi due volte
Il cupio dissolvi del centrosinistra è magistralmente raccontato dal libro di Brancoli. Su Prodi vengono caricate tutte le responsabilità, mentre le difficoltà ed i problemi vengono da una coalizione poco omogenea, all’interno della quale DS e Margherita sono impegnati a marcarsi e a distribuirsi i posti di potere. Gli equivoci si sprecano ma il culmine si raggiunge quando, in piena situazione di difficoltà del governo, si annuncia la volontà di andare da soli come PD alle prossime elezioni che paiono essere ormai prossime. E’ il 19 gennaio. Nessun organismo ha discusso e votato questa scelta strategica. E’ un segnale di “rompete le righe” e Prodi è il primo a farne le spese. Con l’onestà che lo contraddistingue, respingendo sollecitazioni ad agire in modo diverso e a dare le dimissioni senza arrivare al voto, porta la crisi in Parlamento, prende atto che il suo governo non ha più la maggioranza e rassegna le dimissioni. E’ il 24 gennaio 2008. Per la seconda volta, dopo aver vinto le elezioni, Prodi viene costretto alle dimissioni dalla sua stessa maggioranza con largo anticipo rispetto alla scadenza della legislatura, regalando ad un Berlusconi in evidente difficoltà la possibilità di riacquistare il centro della scena e di recuperare buoni rapporti con i suoi alleati dopo momenti di altissima tensione anche sul piano dello scontro verbale.
Tutti sanno com’è andata a finire. Prodi viene di fatto messo in un angolo e le sue dimissioni da Presidente del PD appaiono quasi un atto dovuto. Aldilà delle parole di circostanza nessuno si impegna seriamente per far desistere Prodi dal proposito di prendere le distanze dal progetto che aveva ideato e contribuito a far nascere. A molti pare meglio stare lontani da un uomo e da un governo che vengono considerati un peso per il progetto del PD. E così l’unica persona che è riuscita a sconfiggere Berlusconi per due volte alle elezioni viene messa da parte senza tanti riguardi.
e) Gravissimi errori nella scelta delle candidature per le politiche
Con la scusa, in parte plausibile, dei tempi stretti, utilizzando fino in fondo una legge elettorale odiosa, a parole duramente criticata, che consente di fidelizzare i parlamentari ai vari leader, di fatto, nominandoli dal centro, si arriva a comporre le liste per le politiche del 2008 con criteri che si riveleranno sciagurati.
Al segretario viene concesso il diritto di nominare una serie di candidati illustri e simbolici, ai partiti il compito di predisporre, con un rigorosissimo “manuale Cancelli”, tutte le altre candidature. I segretari regionali e provinciali, aldilà delle forme, diventano spettatori di una trattativa che viene svolta da pochissimi scelti consiglieri dei diversi leader di corrente e sotto-corrente. A parte i nomi scelti da Veltroni che servono a dare l’idea del tipo di partito che si vuol costruire e del suo insediamento sociale, non passa nome che non sia patrocinato da un gruppo di potere ben definito. La stessa decisione sulle deroghe per le riconferme dopo un certo numero di mandati diventa una vera e propria trattativa per evitare che qualche big rischi di rimanere a casa.
I candidati scelti direttamente da Veltroni vengono presentati giorno dopo giorno con grande enfasi mediatica, frutto di una studiata strategia tesa a colpire l’opinione pubblica, gli altri vengono individuati con precisione chirurgica dalle sotto-componenti dei due partiti principali. Chi non ha protezione o non è del tutto organico a questa logica è fuori. I cittadini elettori, protagonisti delle primarie, restano a guardare e si trovano di fronte a liste rigorosamente di apparato, almeno per i posti utili ad essere nominati. Non essendoci il voto di preferenza e non essendo state svolte elezioni primarie per le candidature, chi va in lista oltre i posti utili per la nomina lo fa per senso di responsabilità o per stare in compagnia, offrendo il proprio piccolo o grande contributo alla credibilità dell’operazione, sperando in un miracolo. Ma in molti i dubbi crescono e si capisce sempre meno quale sia il ruolo dei gruppi dirigenti formali del partito.
f) Il mancato riconoscimento della gravità della sconfitta elettorale
Dopo una campagna elettorale molto spinta alla legittimazione del leader con quotidiani colpi di scena e annunci ad effetto, il responso delle urne, contrariamente ai miracoli annunciati e sperati da alcuni, è drammatico. Esce un PD che certo raccoglie un buon consenso in percentuale (33,2%), ma che perde nettamente le elezioni in termini di seggi e recupera solo in minima parte i voti persi dalle altre forze che componevano l’alleanza precedentemente. La scelta di andare da soli e le speranze di trascinare Forza Italia ad uno scontro a due si rivelano sbagliate e Berlusconi torna per la terza volta al potere con un margine di vantaggio nettissimo.
Istruttiva ed illuminante a questo proposito la lettura del volume curato da Itanes “Il ritorno di Berlusconi”, pubblicato da Il Mulino. Si tratta di una vera e propria sconfitta, a lungo nascosta con consolanti analisi sul recupero realizzato nel corso della campagna elettorale rispetto alla caduta di consensi del governo Prodi.
Per di più l’alleanza dell’ultima ora con la lista Di Pietro e con i radicali non produce alcun positivo effetto e si scioglie come neve al sole. Non solo non si fa alcun gruppo unico, come annunciato in campagna elettorale, ma non passa giorno che non si alimentino polemiche e non si allarghino le distanze. Com’è noto le sconfitte aumentano i problemi. Anche con la cosiddetta sinistra radicale si apre un aspro conflitto anche a causa dell’esito tragico delle liste della sinistra arcobaleno che per la prima volta non riescono a portare alcun esponente in Parlamento. Il clima è molto difficile anche sul piano relazionale anche perché i leader della sinistra radicale cercano di scaricare sul PD la responsabilità del loro fallimentare risultato. Sappiamo che non è così. Le ragioni sono molto più complesse anche se è indiscutibile il fatto che in uno scontro molto polarizzato il richiamo al voto utile abbia contribuito ad assottigliare i già scarsi consensi alla sinistra radicale.
Si assiste ad un ulteriore scarto. Il gruppo dirigente fa analisi nel complesso positive e venate da eccessivo ottimismo. I cittadini, inebriati da una campagna elettorale molto ad effetto, sono frastornati dalla pesantezza della sconfitta che intuiscono essere non solo politica ma anche sociale e culturale, soprattutto dopo un’analisi più attenta del voto e della sua scomposizione sociale.
Alla sconfitta alle elezioni politiche si aggiunge quella perfino più triste e drammatica nelle elezioni per il sindaco di Roma dove Alemanno sconfigge nettamente al ballottaggio il candidato del PD, Rutelli. Roma, dopo 15 anni, torna al centrodestra. Appare a tutti con evidenza l’errore commesso nella scelta della candidatura, enfatizzato dal contemporaneo successo del candidato del centrosinistra in Provincia. Ma sarebbe sbagliato limitarsi a dare la colpa della sconfitta alla candidatura di Rutelli. L’esito elettorale, che risente certamente di quello politico, è frutto anche di una campagna elettorale per molti aspetti del tutto sfasata rispetto alle attese, alle domande e alle speranze dei cittadini, soprattutto degli strati più popolari.
g) Nel PD non si capisce chi decide, quando, dove e come
Accanto ad organismi ufficiali si convocano nei momenti topici “caminetti” al “loft”, gettando nello sconforto quanti avevano partecipato con convinzione e speranza al progetto costituente. Addirittura non c’è corrispondenza tra gli organismi statutari e quelli reali e il massimo dello sconcerto si raggiunge quando alla convocazione dell’Assemblea Nazionale si presenta un numero di persone lontanissimo dal numero legale, senza che il segretario si assuma l’onere di interpretare politicamente l’assenza di così tante persone.
Le decisioni vengono annunciate e diffuse attraverso gli organi di informazione senza che sia minimamente chiaro il processo della loro costruzione. Tanta televisione e tanti blog e forum per far credere che si arrivi a decidere dopo un percorso realmente democratico che in realtà non esiste; le grandi scelte sono prerogativa di pochi, non sempre componenti degli organismi dirigenti.
h) La totale superficialità rispetto ai problemi amministrativi e della vita reale del partito che diventa il partito degli eletti e degli amministratori
La scelta delle fondazioni di partito che incamerano i beni dei partiti precedenti priva di fatto il PD di una serie di risorse e tutti i fondi disponibili restano a Roma. Le strutture regionali, provinciali, di circolo vivono in qualche modo con risorse proprie e sulla base delle disponibilità individuali. Solo chi ha incarichi politici o amministrativi per i quali percepisce un’indennità o un rimborso può permettersi di assumersi incarichi di responsabilità e sembra sia scorretto solo porre il problema.
Non esiste alcun regolamento per l’uso delle risorse e tanto meno per i rimborsi spese. E’ del tutto evidente che dietro l’enfatica esaltazione del lavoro volontario si nasconde un disegno ben preciso. In questo modo nessuno che non abbia una posizione garantita può permettersi incarichi di prima responsabilità che comportino un impegno serio e continuativo, se non mettendo a repentaglio la propria condizione lavorativa e professionale. Ai cittadini normali, anche ai più volenterosi, non restano che le cariche di coordinatore di circolo. Per il resto tutto il partito è controllato dalle vecchie classi dirigenti. Per mascherare la cosa si ripetono a livello decentrato le pratiche del centro nazionale: commissioni, forum, blog, gruppi di lavoro, ecc.
L’importante è che tutte le decisioni vere ed importanti siano in mani sicure, che corrispondano o meno agli organismi dirigenti previsti dagli statuti. E poi come a livello nazionale non si perde occasione per invocare la litania dei giovani e delle donne ai quali, se non attraverso processi di cooptazione guidati dai vecchi gruppi dirigenti, si fa posto ogni tanto e quasi sempre in ruoli lontani dalle prime responsabilità.
i) La confusione politica regna sovrana e al nostro elettorato arrivano messaggi contraddittori
Questo è il capitolo forse più delicato. Veltroni in occasione della conferenza stampa nella quale ha spiegato le ragioni delle sue dimissioni ha ammesso come suo limite quello di aver cercato fino in fondo di tenere assieme tutti, quando era evidente che voler ad ogni costo tenere assieme tutte le posizione avrebbe portato a gravissimi problemi su una serie di temi cruciali, rischiando di uscire con mediazioni linguistiche spesso incomprensibili, sulle quali si è fatta anche dell’ironia, o di lasciare libero campo all’espressione di ciascuno che, a nome del PD, o così appariva sulla stampa, finiva per dire tutto ed il contrario di tutto.
Così è stato ad esempio sul tipo di opposizione da condurre nei confronti del governo, opposizione che è apparsa a molti nostri elettori come largamente inadatta e senza un profilo definito. Si è provato a rimediare con la grande manifestazione di piazza del 25 ottobre e con l’assunzione, di tanto in tanto, di toni più decisi ma la sostanza non è cambiata nella percezione dei nostri elettori. Nell’immaginario popolare e sui media il PD non riesce a farsi percepire come un partito capace di un’opposizione decisa, cosa che invece pare riuscire meglio a Di Pietro e spesso a nostro scapito.
Su una serie di temi centrali il partito parla con più voci o in modo che non appare chiaro a molti: sicurezza, giustizia, riforme istituzionali, legge elettorale, questione morale, bioetica, collocazione internazionale, riforma della Rai, problemi della scuola e dell’università, temi del lavoro e rapporti con le organizzazioni sindacali. Facciamo una grande fatica e anche quando maturiamo posizioni apprezzabili, come sulla crisi economica e sociale in atto non riusciamo a farle diventare terreno comune di iniziativa. Un esempio per tutti: l’imbarazzo creatosi all’interno del PD dopo la firma del patto tra le forze sociali sulla riforma della contrattazione senza l’adesione della CGIL. Si sono levate voci molto discordi senza alcun vero approfondimento di merito relativo ai contenuti dell’intesa. Certo non era una situazione semplice ma si è resa evidente la difficoltà del PD che non ha saputo mettere in campo una sua posizione.
l) Non si è contrastata la logica delle correnti organizzate
Dopo l’elezione del segretario tutti si sono affrettati a ribadire l’esigenza di non chiudersi in logiche di corrente, salvo dar vita due secondi dopo a raggruppamenti di varia natura che altro non sono che luoghi separati di discussione, diversi dagli organismi dirigenti e non sempre credibili come sedi di approfondimento e di contributo disinteressati. Niente di male, ma almeno finiamola con le finte e decidiamo in quale modo si regola la vita interna. Se si decide, come sarebbe giusto, di non regolare i rapporti interni sulla base di vecchie logiche correntizie, bisogna trovare dei criteri trasparenti e rigorosi che premino il merito e la competenza o almeno rendere contendibili, sul serio e non per finta, tutte le cariche.
Si è arrivati anche a situazioni francamente paradossali con D’Alema che pur non avendo formalmente incarichi nel partito dispone di una televisione parallela a quella ufficiale del PD oltre agli strumenti della potente fondazione “Italianieuropei” che pubblica da anni una interessante rivista bimestrale. Analogamente alcuni ex della Margherita non hanno esitato a darsi luoghi autonomi di iniziativa praticando primi approcci di quelle “alleanze di nuovo conio” delle quali Rutelli aveva parlato in un recente passato. I cattolici del PD, e in particolare i cosiddetti “teodem”, non hanno perso occasione per differenziarsi creando non pochi imbarazzi e in qualche caso arrivando, non tanto velatamente, a minacciare di abbandonare il partito se fossero state assunte decisioni da loro considerate lesive della loro fede religiosa, che va assolutamente rispettata e considerata un valore al pari di tutte le altre concezioni religiose e non, diverse da quella cattolica, ma che non potrà mai essere un riferimento obbligato ed esclusivo per un partito che intende essere laico proprio perché rispettoso delle diverse religioni.
Veltroni in questa fase obiettivamente molto difficile ha pensato di poter governare il partito con un rapporto diretto con gli elettori, cercando per questa via di superare le contraddizioni che ben conosceva, non esercitando come avrebbe dovuto il potere di decidere in modo netto soprattutto quando avrebbe potuto farlo grazie alla debolezza iniziale dei suoi avversari interni. Si è limitato ad affiancarsi persone di immagine più che di sostanza, più in grado di reggere il confronto dialettico che la durissima battaglia politica necessaria a far nascere una cosa realmente nuova. Come si è visto la battaglia politica era invece inevitabile anche perché sul treno del partito sono saliti passeggeri che avevano in testa progetti di viaggio e destinazioni molto diverse tra di loro. Veltroni si è illuso a lungo di poter governare pacificamente processi che sarebbe stato necessario far uscire allo scoperto al più presto, prima che mettessero in discussione la sua leadership. Questa incertezza ha logorato la situazione spingendo Veltroni alla decisione di dimettersi subito dopo l’esito delle elezioni in Sardegna.
Nella conferenza stampa Veltroni ha solo fatto alla larga un cenno a questi tipi di difficoltà, evitando di mettere sul tappeto i problemi reali, si è detto, per signorilità e per senso di responsabilità nei confronti del partito. Potrà certamente essere così, ma resta il fatto che sulle ragioni delle sue dimissioni non si è aperta alcuna discussione politica vera e si resta nell’ambito delle supposizioni e delle interpretazioni. Non si può sfuggire da questo passaggio. Potrà essere un percorso doloroso, ma è certamente necessario; senza di esso rischiamo di farci molto più male, anche perché un dibattito che non si svolge alla luce del sole e non ha una sede formale, è destinato a non avere alcuno sbocco concreto e positivo. A volte, anche se può sembrare più pericoloso, è meglio imboccare la via più diretta senza continuare ad accantonare i problemi sperando in tempi migliori; spesso il passare del tempo peggiora la situazione.
Alla base delle nostre difficolta’ c’e’ una carenza di analisi politica sulle grandi trasformazioni in atto
Certamente sono stati commessi molti errori nella breve vita del PD fino ad oggi, ma sarebbe semplicistico pensare che basti cambiare una persona o un gruppo di persone perché tutto si sistemi.
Bisogna chiedersi come mai è successo tutto questo e capirne le ragioni profonde che non sono solo quelle, pur importanti, di carattere soggettivo.
Ecco allora che l’analisi da svolgere diventa estremamente impegnativa e richiede un lavoro di lungo periodo che non possiamo continuamente rimandare.
La storia politica, economica e sociale non solo dell’Italia, ma dell’Europa e del mondo intero è radicalmente cambiata a partire dall’ultimo quarto del secolo scorso. La grande trasformazione che si è realizzata sta dispiegando oggi pienamente le sue conseguenze. Alain Touraine, con la consueta lucidità, compie un’analisi profonda di quanto è avvenuto nel suo ultimo libro, “La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo”, pubblicato da Il Saggiatore nel 2008. Ma non sono certo mancati in questi anni gli studi che hanno analizzato i grandi cambiamenti.
Il problema è che noi non abbiamo saputo metterli a frutto tranne che a parole. Nella pratica delle grandi organizzazioni di massa, tra cui i partiti, tutto è più o meno andato avanti come prima, salvo accorgersi, e non è una novità, che alle elezioni, ormai da tempo, non ci vota più il vecchio insediamento sociale di cui il PCI e la DC erano espressione. Al PD è mancato un rapporto con un ceto intellettuale che elaborava politica. Nelle scuole di partito ormai si preparano dei piccoli amministratori, non persone che vengono incitate ad incuriosirsi o ad imparare, si costruiscono spesso delle giovani fotocopie degli attuali gruppi dirigenti. Insomma non siamo riusciti a saldare con la pratica politica quelle analisi teoriche che, anche in Italia, si sono sviluppate negli ultimi anni. Mentre nel mondo succedeva di tutto, le grandi organizzazioni sociali hanno mantenuto inalterato il loro profilo salvo piccoli aggiustamenti più dettati dalla tattica che da profonda e motivata convinzione.
Non è certo questa la sede per sviluppare questo discorso, ma è necessario ribadire che se non si riprenderà con forza un serio lavoro di analisi e di progetto e si resterà ai giochi della tattica politica saremo condannati per lungo tempo alla sconfitta e non basta nemmeno evocare magicamente il discorso dei giovani, delle donne, delle nuove tecnologie. Senza un progetto politico ed una nuova “narrazione”, che non si improvvisano, la nostra difficoltà è destinata a durare.
Questa consapevolezza dovrebbe animare il futuro gruppo dirigente del PD ed essere considerata una priorità assoluta, almeno quanto la necessità di costruire un nuovo gruppo dirigente realmente nuovo e credibile del quale non possiamo più fare a meno.
Il dopo Veltroni non sarà facile: senza coraggio non si va da nessuna parte
E’ difficile sapere con certezza se Veltroni avesse già deciso o meno di dimettersi prima dei risultati delle elezioni in Sardegna. Certamente aver aspettato l’esito del voto non lo ha aiutato, anche perché una vittoria eventuale di Soru sarebbe andata a suo esclusivo merito, così come è avvenuto in Trentino con Dellai, mentre una sua sconfitta, come è stato, sarebbe stata totalmente messa a carico di Veltroni, indebolendo ulteriormente la sua leadership.
Certamente ha ragione Veltroni quando dice che un progetto come il PD ha bisogno di tempo per consolidarsi ed una leadership non può essere misurata su un singolo risultato. Il problema però nasce dal fatto che lui stesso con il continuo richiamarsi agli Stati Uniti e ad Obama ha reso più difficile praticare questa strada. Negli USA il leader che perde lascia il posto ed il partito lavora per un ricambio. In Italia solo Prodi ha praticato questa strada e la classe dirigente del nostro paese, compresa quella del PD, è ancora quella dei giovani della FGCI e dei giovani della DC. Potrà sembrare un po’ crudele come analisi, ma quanto scrive Andrea Romano nel suo libro “Compagni di scuola” merita di essere considerato.
Il mancato ricambio di classe dirigente rende poco credibile il nostro progetto e questo è un dato che non può essere trascurato. Anche a questo proposito non si tratta di sostenere un generico nuovismo, quanto di domandarsi perché il ricambio non si è realizzato e cosa bisogna fare per renderlo possibile senza creare dirigenti fotocopia di quelli che si vorrebbero sostituire o, peggio, eterodiretti.
Le dimissioni di Veltroni aprono una possibilità e spiazzano coloro i quali pensavano di trascinare la situazione fino alle prossime elezioni europee ed amministrative ed aprire subito dopo la verifica interna con il congresso. Ma anche le dimissioni rischiano di essere un’occasione persa se tutto resta nella sostanza inalterato.
Alcuni hanno sollevato con forza la proposta di avviare una nuova fase di primarie per l’elezione di un nuovo segretario. La proposta era assolutamente plausibile ma scarsamente realistica. In questa fase sarebbe stato assai difficile svolgere seriamente le primarie con una qualche possibilità di un effettivo cambiamento e contemporaneamente preparare le elezioni prossime alle quali mancano meno di tre mesi. Il rischio concreto, in assenza del tempo necessario per organizzarsi, era che alle primarie emergessero sempre i soliti, con qualche nuovo inserimento e che poi il risultato elettorale, che prevedibilmente non sarà entusiasmante, finisse per essere caricato sul nuovo gruppo dirigente, compromettendo così ogni residua possibilità di ricambio.
Diventava quindi realistico affidare la segreteria, se pur provvisoriamente ad un esponente del vecchio gruppo dirigente, meglio ancora se si fosse presentato anche Bersani, evitando di annunciare una candidatura futura che non si capisce perché non sia stata presentata nel momento in cui si apre un problema di sostituzione del segretario. Del resto essendo stato il vice di Veltroni, Franceschini doveva essere considerato, a tutti gli effetti, candidato sfidabile da chi aveva annunciato di volersi proporre come guida del partito in alternativa a Veltroni.
Alla fine è emersa la figura di Franceschini con un consenso plebiscitario da parte di una platea che non è più espressione delle primarie, essendo ormai frequentata da una piccola parte dei cittadini eletti e da una grande maggioranza di funzionari ed esponenti delle istituzioni.
Franceschini aveva una sola chance. Non quella di enfatizzare la sua totale autonomia dai vecchi gruppi dirigenti, affermazione alla quale pochi sono disponibili a credere essendo lui figlio e frutto della stessa storia, quanto quella di chiamare tutti ad una vera e propria corresponsabilità assumendosi in pieno ed in prima persona l’onere di guidare il partito in questa difficile fase, senza consentire loro di stare alla finestra mettendo in prima fila persone di loro fiducia.
Credo che sia sbagliato e molto pericoloso mettere in campo oggi, con il rischio di bruciarle, candidature che con il congresso potrebbero assumere un ruolo di reale innovazione.
In realtà come sempre non si è avuto coraggio e si è deciso di dare una sistemata ad un assetto che rimane nella sostanza immutato se pur con l’inserimento di persone indubbiamente valide che però, da sole, in questo contesto, rischiano solo di continuare sulla stessa strada di prima. Non basta certo azzerare la vecchia segreteria ed il governo ombra per ridare smalto ad un progetto e sarebbe stato molto meglio, a mio parere, che i veri big del partito scendessero in campo in prima persona assumendosi tutte le loro responsabilità. Certamente qualcuno avrebbe protestato vedendo il ritorno ufficiale di vecchie facce, ma è ben peggio che gli stessi continuino a dirigere il partito stando fuori dagli incarichi di prima responsabilità, magari pensando già da ora ad alcune soluzioni alternative, qualora il progetto dovesse fallire. Soluzioni che assomigliano molto al ritorno ad un partito di sinistra che potrebbe anche continuare a chiamarsi formalmente PD, pur essendo diventato una cosa molto diversa dall’ispirazione originaria e ad un nuovo partito di centro frutto dell’incontro tra settori dell’attuale PD con l’UDC e altri spezzoni centristi.
L’altra cosa che deve finire è la litania del nuovismo e l’invocazione retorica all’unità spesso ad opera di chi è arrivato a posti di responsabilità proprio grazie ad un durissimo lavoro di lobbing.
C’è un’invocazione all’unità che viene sempre presentata come vincolo morale nei confronti di chi dissente, sottolineando il pericolo di deludere la nostra gente. Ma noi la deludiamo veramente con questi comportamenti, non con un dibattito, anche aspro, ma trasparente e nelle sedi ufficiali.
Che fare allora? E’ evidente che, oggi come oggi, dobbiamo tutti impegnarci per conseguire il miglior risultato possibile nelle prossime scadenze elettorali e nel contempo dobbiamo sviluppare, con la massima serietà, la discussione al nostro interno, cominciando già da ora a preparare il congresso, definendo almeno nelle linee generali un impianto di proposte programmatiche ed organizzative capaci di riaccendere la speranza tra i tanti cittadini che hanno guardato con interesse al Partito Democratico. Queste a mio parere sono le condizioni perché il processo possa ripartire ed avere successo.
Documento in Power Point
Le note di Roberto Fasoli sono finalizzate all’incontro di lunedì 6 aprile alle ore 18:30 presso la Baita del Coro Stella Alpina situata in località San Rocco di Quinzano
Per informazioni contattare: Pier Luigi Rossignoli Cell. 328 9720792 Mail: plumrossi@inwind.it

1 commento:

Sergio Paronetto ha detto...

Cari amici, ho letto la riflessione di R. Fasoli. E' importante seguire la sua riflessione che spero si sviluppi e si allarghi.
Secondo me, assieme alla discussione politico-organizzativa, sarebbe utile capire in che realtà viviamo oggi a Verona. Tra qualche mese, uscirà un libro a più mani su Verona.
Io ho scritto un lungo intervento riguardante l'esperienza di Tosi (prima, durante e dopo?), con ampia bibliografia.
Sono disponibile a riflessioni sul populismo etnico e sul progetto leghista a Verona e altrove.
Per me l'analisi deve essere completa e, per così dire, netta, radicale...Poi la politica intelligente può trovare i percorsi possibili.
Grazie per l'informazione. Allego una mia lettera all'Arena, pubblicata il 13 marzo.
Su argomenti simili ho pubblicato due saggi apparsi su "Note mazziane": "La città della paura" (n.1, 2008) e "La città della speranza"(n.2, 2008).
Buon cammino. Shalom. Sergio Paronetto


Caro direttore, molti
non lo sanno. Chi le pronuncia forse non lo sa ma è bene rendersene conto. Tante frasi dure e aggressive ripetute a sostegno di ordinanze, di provvedimenti o di proposte legislative a favore dei padani e dei veronesi doc, assomigliano a quelle che hanno preparato il clima politico e culturale delle leggi razziali in Germania (1935) e in Italia (1938). Senza abbondare in citazioni (la bibliografia al riguardo è immensa), mi limito a ricordare il programma del Partito nazionalsocialista, redatto da Hitler nel 1920, dove si afferma (dal n. 4 al n. 8) la famigerata teoria della “comunità di popolo” basata su concetto di Volksgenosse che significa “membro della comunità popolare”, di “razza tedesca”, l’unico a godere dei diritti di cittadinanza. Tutti gli altri sono “ospiti” sottomessi a una “legislazione per stranieri”. E’ questo che si vuole?
Chi ritiene esagerato il giudizio di imminente o diluito nazifascismo può almeno riflettere sulla logica tribale in cui stiamo cadendo. Vari esponenti politici di governo (nazionale e locale) sembrano pensare solo all’ indiano padano-veronese perennemente assediato o minacciato. Vogliamo vivere come tribù separate o parallele? Tribù significa sia gruppo etnico che organismo sociale determinato e omogeneo che occupa una regione sulla quale afferma diritti tradizionali.
Moltissimi rom, sinti o islamici sono italiani-veronesi da anni, eppure si cercano impronte e foto, si invoca la difesa della “comunità di popolo”, si moltiplicano controlli esasperati del tutto controproducenti, mai pensati, ad esempio, per i sospettati di criminalità mafiosa o di finanza nera (analizzata dal Financial Crimes Enforcement Network), per gli autori (in gran parte familiari o conoscenti) di violenza contro donne, bambini e bambine o per i responsabili di grandi evasioni fiscali o di vittime del lavoro.
Giorni fa, un gruppo di antropologi ha diffuso un appello dal titolo “La civiltà violata. Contro il ripiegamento autoritario e razzista che mina le basi della coesistenza”. Le loro argomentazioni assomigliano a quelle di molte organizzazioni sostenitrici della campagna “siamo medici non spie” o ai firmatari della recente lettera aperta riguardante l’inutile odiosa schedatura di persone (italiane e veronesi), avvenuta il 5 marzo scorso presso le piazzole di sosta di strada La Rizza.
Gli imprenditori delle paure aprono ferite e alimentano divisioni. La cultura del nemico ci rende tutti più infelici e insicuri. Il linguaggio volgare e violento che spesso ci avvolge tende a produrre inevitabilmente azioni volgari e violente. La vera sicurezza può essere solo costruita assieme come un bene comune.
Ultima osservazione. I sostenitori del binomio “sangue-suolo”
sono pronti a brandire la croce come simbolo di un “cristianesimo senza Cristo”
che mi sembra simile a quello propugnato dall’“Action francaise”, il movimento di Charles Maurras sostenitore di un “cattolicesimo anticristiano”, condannato da Pio X (1914) e da Pio XI (1926). Ogni progetto autoritario o totalitario ha bisogno di una religione civile settaria o guerriera.
Non è questa la cultura veronese in cui sono cresciuto.
Non è questa la fede cristiana espressa dal recente Sinodo diocesano. Non è questa la veronesità del nostro Berto Barbarani, cantore di San Zen che ride (patrono nordafricano della
città) e dell’ Adese che va in cerca de
paesi e de cità. Esiste una Verona ricca di risorse democratiche e di esperienze libere e solidali che forse si è assopita ma può risvegliare la sua identità relazionale e cosmopolita. Qualcosa si muove. Per qualche mese alcuni autobus porteranno per Verona la scritta “Nella mia città nessuno è straniero”.
L’omonimo cartello associativo ha allestito presso il don Calabria la mostra “Gli altri siamo noi” che sarà visitata da più di mille studenti.
Sergio Paronetto
Verona 10.03.09