Editoriale del senatore Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera del 2 aprile 2009
In Francia gli operai sequestrano gli amministratori delle loro imprese in crisi. Non vi è ragione per escludere che qualche cosa del genere possa accadere anche in Italia. È l’esito quasi naturale, in tempi di crisi, di un sistema di relazioni industriali che conosce soltanto l’ingessatura delle strutture produttive come forma di tutela forte del lavoro. Il fatto è che non c’è gesso capace di reggere al diluvio; e quando l’ingessatura si scioglie, anche i lavoratori più protetti restano con un pugno di mosche in mano.
Nel nostro vecchio assetto, il momento della crisi aziendale e del licenziamento è temuto dai lavoratori come un momento catastrofico di perdita del proprio reddito e di dispersione della propria professionalità specifica. E le cose, effettivamente, per lo più vanno proprio così. Proviamo invece a pensare a un sistema nel quale ‑ come nei Paesi scandinavi ‑ nel momento dello shock economico o tecnologico tutti i lavoratori hanno una forte garanzia di continuità del reddito e viene attivato un robusto investimento sul loro capitale umano, le loro capacità professionali, orientato a nuovi sbocchi occupazionali ben individuati. Per tornare in Italia, proviamo a pensare a un sistema nel quale è l’impresa stessa datrice di lavoro a prendere questo impegno verso i dipendenti. Allora non vedremo più questi ultimi sequestrare i loro amministratori; soprattutto, essi non guarderanno più alla crisi col terrore di chi si attende la catastrofe, ma con l’interesse di chi vede in essa - persino in quella più grave - un’occasione di aggiornamento professionale, di miglioramento della propria posizione nel tessuto produttivo. Di più: sarà l’intero sistema a guardare alla situazione di crisi con maggiore ottimismo, poiché questo meccanismo di sostegno e riqualificazione mirata dei lavoratori gli darà tutta la flessibilità e le risorse necessarie per rinnovarsi e far fronte alle nuove sfide.
Non è un sogno. Al contrario: è un progetto realizzabile in tempi brevi e a costo zero per le esauste casse statali. Costituisce uno sviluppo e completamento, sul versante dei servizi al mercato, del progetto che Tito Boeri e Pietro Garibaldi proposero nel 2003, e di nuovo lo scorso anno in un fortunato libro (Un nuovo contratto per tutti, ed. Chiarelettere). Trenta senatori hanno presentato il disegno di legge in Senato la settimana scorsa (25 marzo 2009 n. 1481); e non gli hanno voluto imprimere il sigillo del loro partito, per consentire che su di esso si determini la più ampia convergenza bi-partisan. Il progetto prevede sostanzialmente la possibilità che, nelle imprese disposte ad assumersene per intero l’onere, si incominci a sperimentare sui nuovi rapporti di lavoro un sistema di protezione “alla danese”. Vediamo più da vicino di che cosa si tratta.
Punto di partenza è un accordo collettivo “di transizione” al nuovo regime, una sorta di new deal contro la crisi e contro il lavoro precario: l’impresa o il gruppo di imprese interessate si impegna ad assumere con contratto a tempo indeterminato tutti i nuovi dipendenti (salvo poche eccezioni) e, in caso di licenziamento, a garantire loro, attraverso un’agenzia appositamente costituita, un trattamento di disoccupazione rafforzato e più duraturo. Ma soprattutto si impegna a garantire ai dipendenti, mediante la stessa agenzia, servizi efficaci di riqualificazione professionale e assistenza intensiva per la rioccupazione; e a seguire giorno per giorno chi ha perso il posto nell’itinerario verso il nuovo lavoro. Ci sarà un forte incentivo alla serietà ed efficacia di questi servizi, perché più rapida sarà la ricollocazione del lavoratore affidato loro, più ridotto sarà l’esborso per il suo trattamento di disoccupazione. Si calcola che l’intero nuovo sistema di assistenza, a regime, costerà alle imprese intorno allo 0,5 per cento del monte-salari dei nuovi assunti (per i dettagli rinvio al sito www.pietroichino.it). In cambio, esse si vedranno applicare una disciplina del licenziamento “alla danese”: controllo giudiziale severo soltanto sul possibile motivo discriminatorio, ma esenzione dal controllo giudiziale sul motivo economico od organizzativo del licenziamento. In altre parole: verrà data alle imprese la possibilità di procedere in qualsiasi momento all’aggiustamento industriale, anche prima che l’azienda entri in crisi, sul presupposto che saranno esse stesse a farsi carico di un’assistenza integrale ai propri dipendenti che perderanno il posto.
Fantascienza? Nel Nord-Europa queste cose si fanno già da molto tempo; e lì i lavoratori, soprattutto i più sfortunati, gli ultimi della fila, stanno molto meglio che da noi. Discutiamone.
In Francia gli operai sequestrano gli amministratori delle loro imprese in crisi. Non vi è ragione per escludere che qualche cosa del genere possa accadere anche in Italia. È l’esito quasi naturale, in tempi di crisi, di un sistema di relazioni industriali che conosce soltanto l’ingessatura delle strutture produttive come forma di tutela forte del lavoro. Il fatto è che non c’è gesso capace di reggere al diluvio; e quando l’ingessatura si scioglie, anche i lavoratori più protetti restano con un pugno di mosche in mano.
Nel nostro vecchio assetto, il momento della crisi aziendale e del licenziamento è temuto dai lavoratori come un momento catastrofico di perdita del proprio reddito e di dispersione della propria professionalità specifica. E le cose, effettivamente, per lo più vanno proprio così. Proviamo invece a pensare a un sistema nel quale ‑ come nei Paesi scandinavi ‑ nel momento dello shock economico o tecnologico tutti i lavoratori hanno una forte garanzia di continuità del reddito e viene attivato un robusto investimento sul loro capitale umano, le loro capacità professionali, orientato a nuovi sbocchi occupazionali ben individuati. Per tornare in Italia, proviamo a pensare a un sistema nel quale è l’impresa stessa datrice di lavoro a prendere questo impegno verso i dipendenti. Allora non vedremo più questi ultimi sequestrare i loro amministratori; soprattutto, essi non guarderanno più alla crisi col terrore di chi si attende la catastrofe, ma con l’interesse di chi vede in essa - persino in quella più grave - un’occasione di aggiornamento professionale, di miglioramento della propria posizione nel tessuto produttivo. Di più: sarà l’intero sistema a guardare alla situazione di crisi con maggiore ottimismo, poiché questo meccanismo di sostegno e riqualificazione mirata dei lavoratori gli darà tutta la flessibilità e le risorse necessarie per rinnovarsi e far fronte alle nuove sfide.
Non è un sogno. Al contrario: è un progetto realizzabile in tempi brevi e a costo zero per le esauste casse statali. Costituisce uno sviluppo e completamento, sul versante dei servizi al mercato, del progetto che Tito Boeri e Pietro Garibaldi proposero nel 2003, e di nuovo lo scorso anno in un fortunato libro (Un nuovo contratto per tutti, ed. Chiarelettere). Trenta senatori hanno presentato il disegno di legge in Senato la settimana scorsa (25 marzo 2009 n. 1481); e non gli hanno voluto imprimere il sigillo del loro partito, per consentire che su di esso si determini la più ampia convergenza bi-partisan. Il progetto prevede sostanzialmente la possibilità che, nelle imprese disposte ad assumersene per intero l’onere, si incominci a sperimentare sui nuovi rapporti di lavoro un sistema di protezione “alla danese”. Vediamo più da vicino di che cosa si tratta.
Punto di partenza è un accordo collettivo “di transizione” al nuovo regime, una sorta di new deal contro la crisi e contro il lavoro precario: l’impresa o il gruppo di imprese interessate si impegna ad assumere con contratto a tempo indeterminato tutti i nuovi dipendenti (salvo poche eccezioni) e, in caso di licenziamento, a garantire loro, attraverso un’agenzia appositamente costituita, un trattamento di disoccupazione rafforzato e più duraturo. Ma soprattutto si impegna a garantire ai dipendenti, mediante la stessa agenzia, servizi efficaci di riqualificazione professionale e assistenza intensiva per la rioccupazione; e a seguire giorno per giorno chi ha perso il posto nell’itinerario verso il nuovo lavoro. Ci sarà un forte incentivo alla serietà ed efficacia di questi servizi, perché più rapida sarà la ricollocazione del lavoratore affidato loro, più ridotto sarà l’esborso per il suo trattamento di disoccupazione. Si calcola che l’intero nuovo sistema di assistenza, a regime, costerà alle imprese intorno allo 0,5 per cento del monte-salari dei nuovi assunti (per i dettagli rinvio al sito www.pietroichino.it). In cambio, esse si vedranno applicare una disciplina del licenziamento “alla danese”: controllo giudiziale severo soltanto sul possibile motivo discriminatorio, ma esenzione dal controllo giudiziale sul motivo economico od organizzativo del licenziamento. In altre parole: verrà data alle imprese la possibilità di procedere in qualsiasi momento all’aggiustamento industriale, anche prima che l’azienda entri in crisi, sul presupposto che saranno esse stesse a farsi carico di un’assistenza integrale ai propri dipendenti che perderanno il posto.
Fantascienza? Nel Nord-Europa queste cose si fanno già da molto tempo; e lì i lavoratori, soprattutto i più sfortunati, gli ultimi della fila, stanno molto meglio che da noi. Discutiamone.
1 commento:
La situazione è davvero critica e rischia di diventare veramente esplosiva. Occorrono quindi proposte innovative e coraggiose come quelle di Ichino
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