A partire dagli anni ottanta, globalizzazione e concorrenza su scala mondiale hanno palesato la necessità di accrescere la flessibilità del nostro sistema produttivo, attraverso la liberalizzazione del mercato del lavoro. Ciò si è potuto verificare in particolar modo attraverso l'introduzione dei cosiddetti contratti atipici.
Queste le tappe fondamentali:
1. 1983/84, introduzione dei contratti di formazione e part-time;
2. pacchetto Treu del 1997, legalizzazione del lavoro interinale e del contratto co.co.co (collaborazione coordinata e continuativa);
3. legge 30 (conosciuta anche come legge Biagi) del 2001, trasformazione dei co.co.co in co.co.pro (collaborazione continuativa a progetto) e introduzione dello staff leasing, conosciuto anche come lavoro "a chiamata".
Marco Biagi, al contrario di quello che pensano in molti - probabilmente per ragioni politiche -, non è l'ideatore del cosiddetto "precariato in salsa italiana". Personalmente ritengo che il pacchetto più innovativo e significativo in tal senso sia stato quello che porta il nome dell'ex ministro Tiziano Treu, il quale introduce nel nostro sistema giuridico il contratto a tempo determinato o interinale.
Complessivamente, comunque, le forme contrattuali "atipiche", che si contrappongono a quello classico a tempo indeterminato, sono 44, di cui 38 già esistenti prima del 2001. La proliferazione di queste è a tutt'oggi continua, come testimoniato dai numeri.
Una discussione concreta ed onesta su un tema così delicato deve riconoscere i vantaggi che tali misure hanno apportato: dal 1995 ad oggi - una fase nella quale l'Italia è cresciuta ben al di sotto degli altri paesi europei - la crescita dell'occupazione è stata continua e sostenuta e il tasso di disoccupazione è sceso dall'11,3% al 6,1% (prima del crollo di Lehman Brothers).
In buona parte del vecchio continente la parziale liberalizzazione del mercato del lavoro ha determinato l'abbattimento del tasso di disoccupazione a due cifre. Part-time e contratti a termine hanno favorito, in termini di crescita occupazionale, donne e giovani.
Dunque tutto bene? Non esattamente. Queste misure sono state in grado di combattere il nemico degli ottanta e primi anni novanta: the unemployment. Ora, però, occorre uno scatto in avanti per superare i gravi limiti del sistema attuale.
Il morbo che ora affligge il nostro mercato del lavoro è il suo carattere "duale". Colpisce, a tal proposito, quanto affermato dai professori Tito Boeri e Pietro Garibaldi nel loro ultimo libro, Un nuovo contratto per tutti. I due economisti denunciano l'iniquità dello status quo: l'esistenza di lavoratori di serie A (con massime tutele) e lavoratori di serie B (lasciati al loro destino) è lampante nel momento in cui essi operano fianco a fianco, spesso svolgendo mansioni analoghe.
I principali problemi del precario, quelli che in sostanza lo rendono tale, sono quattro:
- estrema difficoltà nell'ottenere l'assunzione a tempo indeterminato (solo uno su dieci vi riesce);
- impossibilità di incrementare il proprio salario, per la mancanza di tempo necessario a raggiungere i vari scatti di anzianità a causa dei continui azzeramenti;
- pensione fortemente a rischio, visto che i contributi versati dal datore di lavoro sono più bassi rispetto ai contratti tipici e fortemente discontinui per la natura intrinseca degli stessi;
- assenza di protezione in uscita, ossia di ammortizzatori sociali che rendano meno drammatica la ricerca di un nuovo impiego.
Pdl e Pd, in questa particolare fase della vita politica italiana, sembrano aver dimenticato questo tema talmente delicato ed urgente. Probabilmente perché la sua complessità richiederebbe scontri e contrapposizioni. Solo dalla sinistra radicale, in particolare dai partiti di Rifondazione e comunisti italiani, si leva il grido di dolore.
Se la sinistra radicale ha il merito di essere l'unica a parlare di questo reale problema, essa ha anche la colpa di proporre soluzioni sbagliate. Forse in questo caso sarebbe meglio parlare di dolo, in quanto - ahi noi - gli effetti di tali ricette son tristemente conosciute.
Oliviero Diliberto tuona: "scala mobile e posto fisso, ricordate che splendore?". Eh sì, tempi lontani - per fortuna. Basterebbe rispondere al caro compagno Diliberto con un'altra domanda: ricorda l'inflazione sopra il 20% e la disoccupazione alle soglie del 15%? Erano proprio quei tempi lontani che lui rimpiange.
Son due proposte deleterie, in particolar modo se attuate congiuntamente. Aggiustare mensilmente i salari all'inflazione genera un esplosivo circolo vizioso sulle aspettative inflazionistiche, che crescono a dismisura comportando una spirale al rialzo di prezzi e salari. Bene: il potere di acquisto è garantito, ma non il posto di lavoro.
Siamo in un contesto globale, come dicevamo all'inizio. Avere prezzi molto alti ci taglierebbe fuori dal commercio internazionale, la domanda estera dei nostri prodotti verrebbe meno e si avrebbe una riduzione degli ordini e dunque un aumento del numero di disoccupati. Se a questo uniamo un mercato del lavoro rigido, come lo era trent'anni fa, la frittata è fatta. Tanti disoccupati e prezzi alti, fenomeno conosciuto in economia come stagflazione.
Una politica di questo tipo è fortemente conservatrice, e volta a difendere i ricchi e gli insider che godono di un posto inattaccabile. Si immagini il pane a 10 euro: cosa comporterebbe per chi non ha uno straccio di reddito? Alla faccia di Robin Hood. Inoltre richiederebbe: uscire dall'Unione monetaria europea e anche dall'Ue stessa; tornare a gestire la politica monetaria per stampare moneta (lira si intende); monetizzare il deficit pubblico e ricorrere sistematicamente alla svalutazione della nostra valuta per alleggerire il costo dei nostri beni all'estero.
Fantascienza, ovvio. Ma era necessario fare un po' di chiarezza.
I problemi, però, restano gravi. Se si continuerà ad ignorarli, il rischio è proprio quello che posizioni di questo tipo divengano sempre più forti. Tenendo a mente i quattro cruciali problemi del precario prima elencati, si possono argomentare soluzioni vere, non ritorni di fiamma meglio conosciute dalle mie parti come "minestre riscaldate". Le sfide vere sono queste:
1. assicurare uguali garanzie in termini contributivi pensionistici a tutti i lavoratori. Per far questo non occorre eliminare le varie forme contrattuali atipiche, bensì limitarne l'uso. Bisogna evitare che se ne abusi, fissando un vincolo temporale al loro utilizzo (il professor Boeri ipotizza due anni), ma soprattutto eliminando il vantaggio fiscale che tali contratti assicurano. Questo non tanto per fare un dispetto alle imprese, ma per garantire una maggiore entità dei contributi previdenziali versati all'Inps da parte dei datori di lavoro, che andrebbero tutti fissati (per qualsiasi tipologia contrattuale) al 33%;
2. superare il carattere duale del nostro mercato del lavoro. A tal proposito le proposte principali son due: l'introduzione di un contratto unico, aperto, che non preveda una data di scadenza e che sia caratterizzato da una fase di inserimento (al massimo tre anni) ed una fase di stabilità (che inizia alla fine del terzo anno). Nella prima fase il lavoratore sarebbe tutelato dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per quel che attiene ad un eventuale licenziamento discriminatorio e non per licenziamento di natura economica. Quest'ultima tutela si ottiene accedendo alla fase di stabilità. Nel periodo di inserimento, però, il lavoratore acquisisce il diritto ad essere indennizzato, in caso di interruzione del rapporto di lavoro per ragioni economiche, in misura crescente.La buonuscita sarebbe pari a 15 giorni di retribuzione per ogni trimestre nel quale si è lavorato. Alla fine dei tre anni, se il datore decidesse di non entrare nella fase stabile, dovrebbe garantire sei mensilità di indennizzo al lavoratore. Dunque licenziare diverrebbe progressivamente più oneroso. Questa è la proposta chiara e concreta dei due importanti economisti del lavoro italiani prima citati, ossia Tito Boeri e Pietro Garibaldi. I due punti cruciali sono: tutele crescenti e assenza di scadenza iniziale.L'altra proposta fa capo, invece, ad uno dei maggiori giuslavoristi italiani ed attuale senatore del Pd, Pietro Ichino. Nel dettaglio: contratto unico, a tempo indeterminato ma con maggiore flessibilità in uscita, in modo particolare attraverso una rivisitazione dell'articolo 18 prima citato. Abbiamo un periodo di prova della durata di sei mesi, al termine del quale scatta l'assunzione. Quest'ultima assicura la protezione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento discriminatorio, ma non per ragioni economiche od organizzative. In quest'ultimo caso vi è, però, un crescente indennizzo monetario. Dunque si eliminerebbe per i datori di lavoro l'obbligo di reintegro del lavoratore in caso di interruzione del rapporto dovuto ad una "causa non giusta", o meglio resterebbe per licenziamenti discriminatori, ma non per quelli dettati da esigenze economico-organizzative. Questo garantirebbe una maggiore flessibilità in uscita. Del resto, però, la durata della fase iniziale è molto ridotta rispetto alla proposta precedentemente analizzata.Boeri e Garibaldi, invece, puntano sul fatto che dopo un periodo di tre anni, nel quale si apprendono le attitudini del singolo lavoratore e si investe tanto sullo stesso, un'impresa non ha convenienza alcuna nel licenziarlo; dunque non occorre eliminare il reintegro previsto una volta entrati nella fase di stabilità;
3. riformare in modo radicale il nostro sistema di ammortizzatori sociali, che oggi appare frammentato, iniquo e per nulla universale. Un dato: in Italia solo un disoccupato su cinque riceve un qualche sussidio, al contrario dei paesi scandinavi nei quali sono nove su dieci i senza-lavoro sussidiati.I precari, anche in questo caso, sono i soggetti maggiormente colpiti. Un parasubordinato, tanto per fare un esempio, ha una probabilità cinque volte superiore di rimanere disoccupato rispetto agli occupati stabili. Dalla razionalizzazione dei tanti strumenti oggi esistenti (quali cassa di integrazione straordinaria, assegni di mobilità e sussidi ordinari), si potrebbe - quasi a costo zero - costruire un sistema unitario ed uniforme. In particolare: un assegno che garantisca il 65% dell'ultima retribuzione ricevuta, per i primi sei mesi, che si abbassi al 55% della stessa per il restante periodo di inattività lavorativa, che potrebbe essere allungata a due anni.Questa gradualità decrescente è fondamentale per attenuare eventuali effetti disincentivanti, che indurrebbero il singolo percettore a non cercare un ulteriore impiego. Da rimarcare il fatto che la cassa di integrazione ordinaria andrebbe preservata, in quanto strumento molto importante ed in grado di mantenere in vita il rapporto di lavoro, anche in fasi economiche negative. Le risorse necessarie per la completa realizzazione della riforma degli ammortizzatori sociali si potrebbero reperire con una maggiorazione contributiva per quelle che imprese che più di frequente ricorrono allo strumento del licenziamento; una sorta di sistema assicurativo di tipo bonus/malus.
Un occupato su cinque è atipico. Tra subordinati con contratto a termine, parasubordinati, apprendisti e part-time non per loro scelta, oggi si contano ben quattro milioni e mezzo di precari.
Queste, dunque, le principali sfide da affrontare nell'immediato futuro per riformare il mercato del lavoro italiano, garantendo al tempo stesso flessibilità (necessaria alle imprese) e maggiore sicurezza ai lavoratori, in particolare a quelli più deboli - ossia i giovani che vi si affacciano per la prima volta e le madri lavoratrici.
Un più alto grado di stabilità è fondamentale per combattere il basso tasso di natalità che ci attanaglia da anni, che invecchia pericolosamente il nostro Paese, prospettando il venir meno di equilibri vitali per il mantenimento della coesione sociale.
Coraggio politico e lungimiranza ispirino il legislatore.
Giuseppe Del Matteo
Alessandro Natale
Sito web
Queste le tappe fondamentali:
1. 1983/84, introduzione dei contratti di formazione e part-time;
2. pacchetto Treu del 1997, legalizzazione del lavoro interinale e del contratto co.co.co (collaborazione coordinata e continuativa);
3. legge 30 (conosciuta anche come legge Biagi) del 2001, trasformazione dei co.co.co in co.co.pro (collaborazione continuativa a progetto) e introduzione dello staff leasing, conosciuto anche come lavoro "a chiamata".
Marco Biagi, al contrario di quello che pensano in molti - probabilmente per ragioni politiche -, non è l'ideatore del cosiddetto "precariato in salsa italiana". Personalmente ritengo che il pacchetto più innovativo e significativo in tal senso sia stato quello che porta il nome dell'ex ministro Tiziano Treu, il quale introduce nel nostro sistema giuridico il contratto a tempo determinato o interinale.
Complessivamente, comunque, le forme contrattuali "atipiche", che si contrappongono a quello classico a tempo indeterminato, sono 44, di cui 38 già esistenti prima del 2001. La proliferazione di queste è a tutt'oggi continua, come testimoniato dai numeri.
Una discussione concreta ed onesta su un tema così delicato deve riconoscere i vantaggi che tali misure hanno apportato: dal 1995 ad oggi - una fase nella quale l'Italia è cresciuta ben al di sotto degli altri paesi europei - la crescita dell'occupazione è stata continua e sostenuta e il tasso di disoccupazione è sceso dall'11,3% al 6,1% (prima del crollo di Lehman Brothers).
In buona parte del vecchio continente la parziale liberalizzazione del mercato del lavoro ha determinato l'abbattimento del tasso di disoccupazione a due cifre. Part-time e contratti a termine hanno favorito, in termini di crescita occupazionale, donne e giovani.
Dunque tutto bene? Non esattamente. Queste misure sono state in grado di combattere il nemico degli ottanta e primi anni novanta: the unemployment. Ora, però, occorre uno scatto in avanti per superare i gravi limiti del sistema attuale.
Il morbo che ora affligge il nostro mercato del lavoro è il suo carattere "duale". Colpisce, a tal proposito, quanto affermato dai professori Tito Boeri e Pietro Garibaldi nel loro ultimo libro, Un nuovo contratto per tutti. I due economisti denunciano l'iniquità dello status quo: l'esistenza di lavoratori di serie A (con massime tutele) e lavoratori di serie B (lasciati al loro destino) è lampante nel momento in cui essi operano fianco a fianco, spesso svolgendo mansioni analoghe.
I principali problemi del precario, quelli che in sostanza lo rendono tale, sono quattro:
- estrema difficoltà nell'ottenere l'assunzione a tempo indeterminato (solo uno su dieci vi riesce);
- impossibilità di incrementare il proprio salario, per la mancanza di tempo necessario a raggiungere i vari scatti di anzianità a causa dei continui azzeramenti;
- pensione fortemente a rischio, visto che i contributi versati dal datore di lavoro sono più bassi rispetto ai contratti tipici e fortemente discontinui per la natura intrinseca degli stessi;
- assenza di protezione in uscita, ossia di ammortizzatori sociali che rendano meno drammatica la ricerca di un nuovo impiego.
Pdl e Pd, in questa particolare fase della vita politica italiana, sembrano aver dimenticato questo tema talmente delicato ed urgente. Probabilmente perché la sua complessità richiederebbe scontri e contrapposizioni. Solo dalla sinistra radicale, in particolare dai partiti di Rifondazione e comunisti italiani, si leva il grido di dolore.
Se la sinistra radicale ha il merito di essere l'unica a parlare di questo reale problema, essa ha anche la colpa di proporre soluzioni sbagliate. Forse in questo caso sarebbe meglio parlare di dolo, in quanto - ahi noi - gli effetti di tali ricette son tristemente conosciute.
Oliviero Diliberto tuona: "scala mobile e posto fisso, ricordate che splendore?". Eh sì, tempi lontani - per fortuna. Basterebbe rispondere al caro compagno Diliberto con un'altra domanda: ricorda l'inflazione sopra il 20% e la disoccupazione alle soglie del 15%? Erano proprio quei tempi lontani che lui rimpiange.
Son due proposte deleterie, in particolar modo se attuate congiuntamente. Aggiustare mensilmente i salari all'inflazione genera un esplosivo circolo vizioso sulle aspettative inflazionistiche, che crescono a dismisura comportando una spirale al rialzo di prezzi e salari. Bene: il potere di acquisto è garantito, ma non il posto di lavoro.
Siamo in un contesto globale, come dicevamo all'inizio. Avere prezzi molto alti ci taglierebbe fuori dal commercio internazionale, la domanda estera dei nostri prodotti verrebbe meno e si avrebbe una riduzione degli ordini e dunque un aumento del numero di disoccupati. Se a questo uniamo un mercato del lavoro rigido, come lo era trent'anni fa, la frittata è fatta. Tanti disoccupati e prezzi alti, fenomeno conosciuto in economia come stagflazione.
Una politica di questo tipo è fortemente conservatrice, e volta a difendere i ricchi e gli insider che godono di un posto inattaccabile. Si immagini il pane a 10 euro: cosa comporterebbe per chi non ha uno straccio di reddito? Alla faccia di Robin Hood. Inoltre richiederebbe: uscire dall'Unione monetaria europea e anche dall'Ue stessa; tornare a gestire la politica monetaria per stampare moneta (lira si intende); monetizzare il deficit pubblico e ricorrere sistematicamente alla svalutazione della nostra valuta per alleggerire il costo dei nostri beni all'estero.
Fantascienza, ovvio. Ma era necessario fare un po' di chiarezza.
I problemi, però, restano gravi. Se si continuerà ad ignorarli, il rischio è proprio quello che posizioni di questo tipo divengano sempre più forti. Tenendo a mente i quattro cruciali problemi del precario prima elencati, si possono argomentare soluzioni vere, non ritorni di fiamma meglio conosciute dalle mie parti come "minestre riscaldate". Le sfide vere sono queste:
1. assicurare uguali garanzie in termini contributivi pensionistici a tutti i lavoratori. Per far questo non occorre eliminare le varie forme contrattuali atipiche, bensì limitarne l'uso. Bisogna evitare che se ne abusi, fissando un vincolo temporale al loro utilizzo (il professor Boeri ipotizza due anni), ma soprattutto eliminando il vantaggio fiscale che tali contratti assicurano. Questo non tanto per fare un dispetto alle imprese, ma per garantire una maggiore entità dei contributi previdenziali versati all'Inps da parte dei datori di lavoro, che andrebbero tutti fissati (per qualsiasi tipologia contrattuale) al 33%;
2. superare il carattere duale del nostro mercato del lavoro. A tal proposito le proposte principali son due: l'introduzione di un contratto unico, aperto, che non preveda una data di scadenza e che sia caratterizzato da una fase di inserimento (al massimo tre anni) ed una fase di stabilità (che inizia alla fine del terzo anno). Nella prima fase il lavoratore sarebbe tutelato dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per quel che attiene ad un eventuale licenziamento discriminatorio e non per licenziamento di natura economica. Quest'ultima tutela si ottiene accedendo alla fase di stabilità. Nel periodo di inserimento, però, il lavoratore acquisisce il diritto ad essere indennizzato, in caso di interruzione del rapporto di lavoro per ragioni economiche, in misura crescente.La buonuscita sarebbe pari a 15 giorni di retribuzione per ogni trimestre nel quale si è lavorato. Alla fine dei tre anni, se il datore decidesse di non entrare nella fase stabile, dovrebbe garantire sei mensilità di indennizzo al lavoratore. Dunque licenziare diverrebbe progressivamente più oneroso. Questa è la proposta chiara e concreta dei due importanti economisti del lavoro italiani prima citati, ossia Tito Boeri e Pietro Garibaldi. I due punti cruciali sono: tutele crescenti e assenza di scadenza iniziale.L'altra proposta fa capo, invece, ad uno dei maggiori giuslavoristi italiani ed attuale senatore del Pd, Pietro Ichino. Nel dettaglio: contratto unico, a tempo indeterminato ma con maggiore flessibilità in uscita, in modo particolare attraverso una rivisitazione dell'articolo 18 prima citato. Abbiamo un periodo di prova della durata di sei mesi, al termine del quale scatta l'assunzione. Quest'ultima assicura la protezione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento discriminatorio, ma non per ragioni economiche od organizzative. In quest'ultimo caso vi è, però, un crescente indennizzo monetario. Dunque si eliminerebbe per i datori di lavoro l'obbligo di reintegro del lavoratore in caso di interruzione del rapporto dovuto ad una "causa non giusta", o meglio resterebbe per licenziamenti discriminatori, ma non per quelli dettati da esigenze economico-organizzative. Questo garantirebbe una maggiore flessibilità in uscita. Del resto, però, la durata della fase iniziale è molto ridotta rispetto alla proposta precedentemente analizzata.Boeri e Garibaldi, invece, puntano sul fatto che dopo un periodo di tre anni, nel quale si apprendono le attitudini del singolo lavoratore e si investe tanto sullo stesso, un'impresa non ha convenienza alcuna nel licenziarlo; dunque non occorre eliminare il reintegro previsto una volta entrati nella fase di stabilità;
3. riformare in modo radicale il nostro sistema di ammortizzatori sociali, che oggi appare frammentato, iniquo e per nulla universale. Un dato: in Italia solo un disoccupato su cinque riceve un qualche sussidio, al contrario dei paesi scandinavi nei quali sono nove su dieci i senza-lavoro sussidiati.I precari, anche in questo caso, sono i soggetti maggiormente colpiti. Un parasubordinato, tanto per fare un esempio, ha una probabilità cinque volte superiore di rimanere disoccupato rispetto agli occupati stabili. Dalla razionalizzazione dei tanti strumenti oggi esistenti (quali cassa di integrazione straordinaria, assegni di mobilità e sussidi ordinari), si potrebbe - quasi a costo zero - costruire un sistema unitario ed uniforme. In particolare: un assegno che garantisca il 65% dell'ultima retribuzione ricevuta, per i primi sei mesi, che si abbassi al 55% della stessa per il restante periodo di inattività lavorativa, che potrebbe essere allungata a due anni.Questa gradualità decrescente è fondamentale per attenuare eventuali effetti disincentivanti, che indurrebbero il singolo percettore a non cercare un ulteriore impiego. Da rimarcare il fatto che la cassa di integrazione ordinaria andrebbe preservata, in quanto strumento molto importante ed in grado di mantenere in vita il rapporto di lavoro, anche in fasi economiche negative. Le risorse necessarie per la completa realizzazione della riforma degli ammortizzatori sociali si potrebbero reperire con una maggiorazione contributiva per quelle che imprese che più di frequente ricorrono allo strumento del licenziamento; una sorta di sistema assicurativo di tipo bonus/malus.
Un occupato su cinque è atipico. Tra subordinati con contratto a termine, parasubordinati, apprendisti e part-time non per loro scelta, oggi si contano ben quattro milioni e mezzo di precari.
Queste, dunque, le principali sfide da affrontare nell'immediato futuro per riformare il mercato del lavoro italiano, garantendo al tempo stesso flessibilità (necessaria alle imprese) e maggiore sicurezza ai lavoratori, in particolare a quelli più deboli - ossia i giovani che vi si affacciano per la prima volta e le madri lavoratrici.
Un più alto grado di stabilità è fondamentale per combattere il basso tasso di natalità che ci attanaglia da anni, che invecchia pericolosamente il nostro Paese, prospettando il venir meno di equilibri vitali per il mantenimento della coesione sociale.
Coraggio politico e lungimiranza ispirino il legislatore.
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