Intervista a cura di Lorenzo Morelli per il mensile Capital – 11 giugno 2009
E’ possibile coinvolgere i dipendenti nei piani di ristrutturazione aziendali? A che condizioni? Con quale contrattualistica? E che fare con chi non ci sta? E se i dirigenti sono in soprannumero? Le ristrutturazioni interne a cui tutte le aziende si stanno applicando, indipendentemente dall’andamento del mercato, è la grande scommessa del momento: da questa scelta difficile ma necessaria si creano le basi per affrontare le sfide future. Capital ha chiesto a Pietro Ichino, avvocato giuslavorista, professore di diritto del lavoro all’Università degli studi di Milano, come affrontare i problemi.
Con quali misure, dal suo punto di vista, si può affrontare una crisi aziendale?
Una ristrutturazione incisiva è in molti casi il modo in cui l’impresa può superare la congiuntura recessiva. Ma non è il solo. In molti casi la cosa giusta da fare è ridurre i superminimi, cioè la parte delle retribuzioni eccedente il minimo previsto dal contratto nazionale. Incominciando dal top management, ovviamente. Ma non lo si può fare unilateralmente, occorre negoziarlo. Anche una ristrutturazione incisiva, del resto, è utile che venga negoziata. E per un buon accordo è sempre preziosa l’assistenza di un buon avvocato; ma non basta.
Che cos’altro serve?
In entrambi i casi occorre che l’imprenditore sappia guadagnarsi la fiducia dei dipendenti, perché essi accettino di scommettere insieme a lui sul piano per uscire dalla crisi. E in questa scommessa comune può essere decisivo anche il ruolo del sindacato in azienda.Se è un sindacato che preferisce la cooperazione al conflitto.
Vede, le relazioni sindacali in un’azienda sono un sistema in cui il comportamento di ciascuno dipende dal comportamento degli altri. Condizione necessaria – certo, non sufficiente – perché il sindacato scelga la strategia cooperativa è che esso abbia di fronte un imprenditore affidabile.
Cioè? Cioè competente. Abituato a praticare una rigorosa trasparenza. Ma anche capace di presentare il piano industriale come un gioco a somma positiva, in cui tutti hanno da guadagnare.Ma chi perde il posto non ci guadagna certo.
Se il passaggio da un lavoro a un altro è debitamente assistito e indennizzato, può essere molto meglio questo che rimanere in un’azienda dove il proprio lavoro è poco valorizzato, dove si è di troppo. Ecco un altro terreno dove la qualità dell’avvocato che assiste l’impresa può essere decisiva.
In che senso?
Nel senso che anche dall’assistenza legale può dipendere il successo di un piano di downsizing aziendale non conflittuale.
Più precisamente, in che cosa il bravo avvocato può fare la differenza, in questo campo?
Nell’allargare le possibilità tecniche dell’accordo tra impresa e dipendenti, nell’inventare soluzioni negoziali nuove, nello sgombrare il campo da tanti pregiudizi diffusi su ciò che l’ordinamento consente e ciò che non consente. Ma il bravo avvocato deve anche saper andare contro il proprio interesse.
Che cosa intende dire?
Che in molti casi gli avvocati hanno un interesse configgente con quello dei propri clienti: l’interesse a complicare le cose inducendo le parti ad agire in giudizio l’una contro l’altra. Il bravo avvocato si distingue anche dalla semplicità e rapidità delle soluzioni che sa trovare.
Come fa il cliente ignaro a individuare l’avvocato con questa caratteristica?
Una spia di questa qualità del consulente legale è sovente la semplicità e chiarezza del suo linguaggio. E anche la sinteticità dei suoi pareri: l’avvocato che impiega dieci pagine per dire quel che potrebbe dire in una sola è probabilmente anche quello che impiega un anno per risolvere una pratica che si può risolvere in un mese.
Torniamo alla crisi. In che cosa questa differisce da quelle del passato?
Nella sua violenza e nella sua globalità. Ma ci vorrà ancora un po’ di tempo perché gli economisti riescano a spiegarci per intero i meccanismi di questa catastrofe.
Le contromisure che sono state prese a livello macroeconomico sono sufficienti?
I grandi Paesi occidentali hanno reagito un po’ in ordine sparso, ma hanno adottato misure efficaci.
L’Italia?
Il Governo italiano ha giustificato le modeste dimensioni del proprio intervento, rispetto al resto d’Europa, con le dimensioni enormi del nostro debito pubblico e la necessità di evitare a tutti i costi un calo di fiducia dei mercati finanziari nel nostro sistema nazionale. Però…
A suo parere si potrebbe fare qualcos’altro?
Forse sarebbe stato possibile un intervento pubblico più robusto a sostegno della domanda di beni e servizi, senza perdita di fiducia nei mercati finanziari, se si fosse colta l’occasione della crisi per compiere alcune grandi riforme strutturali di cui il nostro sistema ha grande bisogno.
Quali?
Quella del welfare, per cominciare: spendiamo troppo per mandare in pensione i cinquantottenni e troppo poco per garantire il reddito a chi perde il lavoro, per promuovere il lavoro professionale delle donne, per le situazioni di povertà infantile. Poi la transizione a un sistema di flexsecurity, secondo le sollecitazioni che ci vengono dall’Unione Europea.
Che significa, in concreto?
Coniugare il massimo possibile di flessibilità per le nostre strutture produttive, con il massimo possibile di sicurezza dei lavoratori nei processi di aggiustamento industriale. La sicurezza dei lavoratori è un bene essenziale, anche sul piano macroeconomico, come la crisi attuale ci insegna; ma non la si può fondare sull’ingessatura dei posti di lavoro.
Poi c’è la riforma del sistema della contrattazione collettiva.
Quella non è compito del legislatore, ma del sistema di relazioni industriali. L’accordo del 22 gennaio scorso indica la via di uno spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia, verso le aziende.
Ma la Cgil non è d’accordo.
La divergenza tra la Cgil e le altre confederazioni apre una fase di confronto tra modelli diversi di sindacalismo. Una fase in cui si confronteranno e competeranno tra loro strategie e visioni sindacali diverse. Se gli imprenditori vogliono che il modello cooperativo prevalga su quello conflittuale, dovranno guadagnarselo sul campo, con la bontà dei loro piani industriali e la loro personale affidabilità. Solo così potrà prevalere il sindacalismo della scommessa comune tra lavoratori e imprenditore sull’innovazione positiva.
E’ possibile coinvolgere i dipendenti nei piani di ristrutturazione aziendali? A che condizioni? Con quale contrattualistica? E che fare con chi non ci sta? E se i dirigenti sono in soprannumero? Le ristrutturazioni interne a cui tutte le aziende si stanno applicando, indipendentemente dall’andamento del mercato, è la grande scommessa del momento: da questa scelta difficile ma necessaria si creano le basi per affrontare le sfide future. Capital ha chiesto a Pietro Ichino, avvocato giuslavorista, professore di diritto del lavoro all’Università degli studi di Milano, come affrontare i problemi.
Con quali misure, dal suo punto di vista, si può affrontare una crisi aziendale?
Una ristrutturazione incisiva è in molti casi il modo in cui l’impresa può superare la congiuntura recessiva. Ma non è il solo. In molti casi la cosa giusta da fare è ridurre i superminimi, cioè la parte delle retribuzioni eccedente il minimo previsto dal contratto nazionale. Incominciando dal top management, ovviamente. Ma non lo si può fare unilateralmente, occorre negoziarlo. Anche una ristrutturazione incisiva, del resto, è utile che venga negoziata. E per un buon accordo è sempre preziosa l’assistenza di un buon avvocato; ma non basta.
Che cos’altro serve?
In entrambi i casi occorre che l’imprenditore sappia guadagnarsi la fiducia dei dipendenti, perché essi accettino di scommettere insieme a lui sul piano per uscire dalla crisi. E in questa scommessa comune può essere decisivo anche il ruolo del sindacato in azienda.Se è un sindacato che preferisce la cooperazione al conflitto.
Vede, le relazioni sindacali in un’azienda sono un sistema in cui il comportamento di ciascuno dipende dal comportamento degli altri. Condizione necessaria – certo, non sufficiente – perché il sindacato scelga la strategia cooperativa è che esso abbia di fronte un imprenditore affidabile.
Cioè? Cioè competente. Abituato a praticare una rigorosa trasparenza. Ma anche capace di presentare il piano industriale come un gioco a somma positiva, in cui tutti hanno da guadagnare.Ma chi perde il posto non ci guadagna certo.
Se il passaggio da un lavoro a un altro è debitamente assistito e indennizzato, può essere molto meglio questo che rimanere in un’azienda dove il proprio lavoro è poco valorizzato, dove si è di troppo. Ecco un altro terreno dove la qualità dell’avvocato che assiste l’impresa può essere decisiva.
In che senso?
Nel senso che anche dall’assistenza legale può dipendere il successo di un piano di downsizing aziendale non conflittuale.
Più precisamente, in che cosa il bravo avvocato può fare la differenza, in questo campo?
Nell’allargare le possibilità tecniche dell’accordo tra impresa e dipendenti, nell’inventare soluzioni negoziali nuove, nello sgombrare il campo da tanti pregiudizi diffusi su ciò che l’ordinamento consente e ciò che non consente. Ma il bravo avvocato deve anche saper andare contro il proprio interesse.
Che cosa intende dire?
Che in molti casi gli avvocati hanno un interesse configgente con quello dei propri clienti: l’interesse a complicare le cose inducendo le parti ad agire in giudizio l’una contro l’altra. Il bravo avvocato si distingue anche dalla semplicità e rapidità delle soluzioni che sa trovare.
Come fa il cliente ignaro a individuare l’avvocato con questa caratteristica?
Una spia di questa qualità del consulente legale è sovente la semplicità e chiarezza del suo linguaggio. E anche la sinteticità dei suoi pareri: l’avvocato che impiega dieci pagine per dire quel che potrebbe dire in una sola è probabilmente anche quello che impiega un anno per risolvere una pratica che si può risolvere in un mese.
Torniamo alla crisi. In che cosa questa differisce da quelle del passato?
Nella sua violenza e nella sua globalità. Ma ci vorrà ancora un po’ di tempo perché gli economisti riescano a spiegarci per intero i meccanismi di questa catastrofe.
Le contromisure che sono state prese a livello macroeconomico sono sufficienti?
I grandi Paesi occidentali hanno reagito un po’ in ordine sparso, ma hanno adottato misure efficaci.
L’Italia?
Il Governo italiano ha giustificato le modeste dimensioni del proprio intervento, rispetto al resto d’Europa, con le dimensioni enormi del nostro debito pubblico e la necessità di evitare a tutti i costi un calo di fiducia dei mercati finanziari nel nostro sistema nazionale. Però…
A suo parere si potrebbe fare qualcos’altro?
Forse sarebbe stato possibile un intervento pubblico più robusto a sostegno della domanda di beni e servizi, senza perdita di fiducia nei mercati finanziari, se si fosse colta l’occasione della crisi per compiere alcune grandi riforme strutturali di cui il nostro sistema ha grande bisogno.
Quali?
Quella del welfare, per cominciare: spendiamo troppo per mandare in pensione i cinquantottenni e troppo poco per garantire il reddito a chi perde il lavoro, per promuovere il lavoro professionale delle donne, per le situazioni di povertà infantile. Poi la transizione a un sistema di flexsecurity, secondo le sollecitazioni che ci vengono dall’Unione Europea.
Che significa, in concreto?
Coniugare il massimo possibile di flessibilità per le nostre strutture produttive, con il massimo possibile di sicurezza dei lavoratori nei processi di aggiustamento industriale. La sicurezza dei lavoratori è un bene essenziale, anche sul piano macroeconomico, come la crisi attuale ci insegna; ma non la si può fondare sull’ingessatura dei posti di lavoro.
Poi c’è la riforma del sistema della contrattazione collettiva.
Quella non è compito del legislatore, ma del sistema di relazioni industriali. L’accordo del 22 gennaio scorso indica la via di uno spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia, verso le aziende.
Ma la Cgil non è d’accordo.
La divergenza tra la Cgil e le altre confederazioni apre una fase di confronto tra modelli diversi di sindacalismo. Una fase in cui si confronteranno e competeranno tra loro strategie e visioni sindacali diverse. Se gli imprenditori vogliono che il modello cooperativo prevalga su quello conflittuale, dovranno guadagnarselo sul campo, con la bontà dei loro piani industriali e la loro personale affidabilità. Solo così potrà prevalere il sindacalismo della scommessa comune tra lavoratori e imprenditore sull’innovazione positiva.
Nessun commento:
Posta un commento