Articolo di Michele Boldrin, docente presso la Facoltà di Economia della Washington University, pubblicato su il Fatto Quotidiano dell’11 novembre 2010
Sembra che in Italia, per amore o per forza, molta gente lavori “gratis” – ossia, senza un immediato corrispettivo monetario, o quasi. Hanno cominciato (a fare notizia) Marco Travaglio e Vauro, poi è stata la volta di Roberto Benigni nel programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano. Ma non sono solo le celebrità televisive a lavorare gratuitamente. Tempo fa scoprimmo che molte scuole private quasi non pagano i propri docenti più giovani i quali, a loro volta, accettano di lavorare perché l’esperienza così accumulata genera “punti” per accedere all’impiego pubblico. L’associazione Libertiamo ha appena lanciato una campagna contro gli “stage gratuiti” che molte aziende offrono a neolaureati, un “limbo degradante”, mentre quelli durante il periodo della scuola sono “fortemente formativi”. Occorre quindi intervenire, anche perché non ci sono solo le imprese private: c’è il praticantato negli studi professionali e pure gli enti pubblici “danno il cattivo esempio”. Insomma, in Italia troppa gente lavora gratis e questo è sfruttamento. Ma il diffondersi del lavoro gratuito è sintomo di patologie economiche differenti da quelle che molti assumono esserne la causa.
Prima di cominciare a riflettere sul problema, verrebbe da chiedersi se esso sia veramente una novità o se, invece, si stiano solo riscoprendo pratiche antiche in abiti moderni. Rispondere a tale quesito richiede un’analisi empirica impossibile qui. Tralasciamola dando per acquisito che, in Italia, il lavoro gratuito sia più diffuso che in altri Paesi. Notiamo, anzitutto, che coloro i quali accettano di prestare i propri servizi senza farsi pagare lo fanno volontariamente. Essendo presumibilmente persone che non agiscono per farsi del male, ritengono che tale azione sia meglio delle alternative (non lavorare, cercare un lavoro più umile ma remunerato, mettersi in proprio, trasferirsi altrove). Nel caso, per esempio, degli insegnanti di scuola privata che lavorano a salari molto bassi, la controparte della transazione è la concessione di un punteggio che aumenta la probabilità di ottenere un posto fisso in una scuola pubblica. Nel caso degli stagisti negli uffici pubblici, vale un meccanismo analogo di compensazione via accumulazione di titoli utili per “vincere il concorso”. Un caso estremo è quello dei ricercatori universitari, che lavorano per anni a stipendi molto bassi nella speranza di poter accedere a una posizione di associato e ordinario. Poiché si accumulano le storie di ricercatori italiani che, emigrando nel Regno Unito, in Svizzera o in Francia, raddoppiano o triplicano il proprio stipendio, per coloro che scelgono di rimanere l’aumento della probabilità d’essere promossi compensa, in valore economico, il sacrificio di lavorare per molti anni a uno stipendio misero. Lo stesso vale per gli stagisti gratuiti nelle grandi aziende: cercano contatti e visibilità che aumentino la probabilità di un’assunzione “regolare”. Anche l’azienda, ovviamente, cerca qualcosa ma quello è più ovvio: lavoro a buon mercato.
Insomma, fatta eccezione per Benigni e gli altri della Rai, la maggioranza delle persone che lavorano gratis lo fanno nella speranza d’ottenere un posto fisso. Qual è, dunque, il valore di un posto fisso? È dato dal valore atteso scontato della differenza tra l’utilità che si ottiene in tale posto e l’utilità che si ottiene nel migliore impiego alternativo (ossia, principalmente, l’utilità che si ottiene migrando o cercando lavoro in un’occupazione diversa da quelle in cui il posto fisso comincia a non essere più tanto frequente, per esempio la piccola industria manifatturiera). Chiamiamo tale differenza “rendita da impiego fisso”. A chi va questa rendita? Dipende dal meccanismo adottato per allocare i posti fissi: molti sono i postulanti e pochi gli eletti, specie nel settore pubblico. Fare uno stage gratuito o insegnare per quattro soldi nella scuola privata sono maniere per comprarsi un biglietto della lotteria che assegna la rendita. E i biglietti li vendono le aziende o gli uffici pubblici presso i quali è possibile, lavorando gratis-o-quasi, acquisire “punti” per l’accesso al posto fisso. Sono questi i veri beneficiari dell’esistenza di tale rendita perché ricevono lavoro gratuito. Per questo l’esempio dei personaggi dello spettacolo citati all’inizio che, per “stare in Tv”, son disposti a lavorare gratis calza a pennello. Andare in Rai (o a Mediaset) permette di appropriarsi di parte delle rendite di duopolio di cui queste due compagnie godono. Ma per andarci occorre che il pubblico ti voglia e il pubblico televisivo, si sa, ha la memoria corta: se per un periodo non vede il tuo viso apparire nello scatolone acceso, si scorda di te. Ecco quindi che diventa conveniente offrirsi anche di lavorare gratis, per un po’, pur di rimanere in televisione. Ora, le rendite da posto fisso non sono di certo paragonabili a quelle che Rai e Mediaset distribuiscono alle loro “stelle”, ma la logica è la medesima.
Che fare? A leggere il dibattito italiano saltano fuori sempre le solite soluzioni. Obblighiamo le aziende a pagare sempre un salario minimo per qualsiasi funzione. Mandiamo gli ispettori del lavoro. Mandiamo la guardia di finanza. Vietiamo tout-court il lavoro “gratuito”, anche se volontario. Mi permetto di suggerire che si tratta di soluzioni inefficaci , genererebbero solo ulteriori vincoli e ulteriori costi di controllo per essere poi raggirate con nuovi e maggiormente subdoli mezzi.
La ragione per tale previsione, oltre all’esperienza accumulata, sta nella forza della motivazione economica: se c’è una grande rendita di cui appropriarsi qualcuno spenderà risorse per farlo. L’analogia con il caso delle “stelle” televisive serve anche qui: qual’è la soluzione più semplice per eliminare le rendite di duopolio di cui godono Rai e Mediaset? Rendere il settore televisivo più concorrenziale cosicché lavorare in uno dei due gruppi principali non sia l’unica maniera per andare in televisione. Tutti sanno, intuitivamente, che se in Italia vi fossero dieci canali televisivi, uno indipendente dall’altro, le rendite di Rai e Mediaset svanirebbero. Questa analogia suggerisce che esiste una soluzione semplice semplice anche per il problema, molto più serio del lavoro gratuito, una soluzione che elimina distorsioni, e comportamenti illegali e sfruttamento dei giovani alla ricerca del posto fisso: ridurre drasticamente la rendita da posto fisso, specialmente da posto fisso nell’impiego pubblico. Ma nessuno ne parla, chissà perché.
Insomma, fatta eccezione per Benigni e gli altri della Rai, la maggioranza delle persone che lavorano gratis lo fanno nella speranza d’ottenere un posto fisso. Qual è, dunque, il valore di un posto fisso? È dato dal valore atteso scontato della differenza tra l’utilità che si ottiene in tale posto e l’utilità che si ottiene nel migliore impiego alternativo (ossia, principalmente, l’utilità che si ottiene migrando o cercando lavoro in un’occupazione diversa da quelle in cui il posto fisso comincia a non essere più tanto frequente, per esempio la piccola industria manifatturiera). Chiamiamo tale differenza “rendita da impiego fisso”. A chi va questa rendita? Dipende dal meccanismo adottato per allocare i posti fissi: molti sono i postulanti e pochi gli eletti, specie nel settore pubblico. Fare uno stage gratuito o insegnare per quattro soldi nella scuola privata sono maniere per comprarsi un biglietto della lotteria che assegna la rendita. E i biglietti li vendono le aziende o gli uffici pubblici presso i quali è possibile, lavorando gratis-o-quasi, acquisire “punti” per l’accesso al posto fisso. Sono questi i veri beneficiari dell’esistenza di tale rendita perché ricevono lavoro gratuito. Per questo l’esempio dei personaggi dello spettacolo citati all’inizio che, per “stare in Tv”, son disposti a lavorare gratis calza a pennello. Andare in Rai (o a Mediaset) permette di appropriarsi di parte delle rendite di duopolio di cui queste due compagnie godono. Ma per andarci occorre che il pubblico ti voglia e il pubblico televisivo, si sa, ha la memoria corta: se per un periodo non vede il tuo viso apparire nello scatolone acceso, si scorda di te. Ecco quindi che diventa conveniente offrirsi anche di lavorare gratis, per un po’, pur di rimanere in televisione. Ora, le rendite da posto fisso non sono di certo paragonabili a quelle che Rai e Mediaset distribuiscono alle loro “stelle”, ma la logica è la medesima.
Che fare? A leggere il dibattito italiano saltano fuori sempre le solite soluzioni. Obblighiamo le aziende a pagare sempre un salario minimo per qualsiasi funzione. Mandiamo gli ispettori del lavoro. Mandiamo la guardia di finanza. Vietiamo tout-court il lavoro “gratuito”, anche se volontario. Mi permetto di suggerire che si tratta di soluzioni inefficaci , genererebbero solo ulteriori vincoli e ulteriori costi di controllo per essere poi raggirate con nuovi e maggiormente subdoli mezzi.
La ragione per tale previsione, oltre all’esperienza accumulata, sta nella forza della motivazione economica: se c’è una grande rendita di cui appropriarsi qualcuno spenderà risorse per farlo. L’analogia con il caso delle “stelle” televisive serve anche qui: qual’è la soluzione più semplice per eliminare le rendite di duopolio di cui godono Rai e Mediaset? Rendere il settore televisivo più concorrenziale cosicché lavorare in uno dei due gruppi principali non sia l’unica maniera per andare in televisione. Tutti sanno, intuitivamente, che se in Italia vi fossero dieci canali televisivi, uno indipendente dall’altro, le rendite di Rai e Mediaset svanirebbero. Questa analogia suggerisce che esiste una soluzione semplice semplice anche per il problema, molto più serio del lavoro gratuito, una soluzione che elimina distorsioni, e comportamenti illegali e sfruttamento dei giovani alla ricerca del posto fisso: ridurre drasticamente la rendita da posto fisso, specialmente da posto fisso nell’impiego pubblico. Ma nessuno ne parla, chissà perché.
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