“Vorrei ringraziare di cuore tutti voi che mi avete incoraggiato mentre andavo a Rosarno. Venerdì 8 mi ero svegliato senza minimamente pensare che sarei andato in Calabria. Non era in calendario. Solo che, arrivando in ufficio, vedendo su Sky le immagini agghiaccianti che provenivano da Rosarno ho deciso di andare giù. Era la prima intuizione. Sentivo che il mio posto era lì, accanto a questi giovani ragazzi africani nuovi schiavi africani nell'Italia del 2010; accanto a questa città sconvolta dalla violenza e dai saccheggi. Ho sentito dentro di me che dovevo stare lì senza nemmeno focalizzare per bene lo scopo. Ma la prima intuizione non poteva da sola bastare. Devo sempre ricordare a me stesso che non sono più solo ed esclusivamente me stesso, con i miei pensieri, i miei slanci, le mie pazzie. Non sono più il giornalista di una volta che usava partire d'improvviso verso terre di fuoco dove i conflitti mietevano vittime e la testimonianza giornalistica era nello stesso tempo un dovere e una missione. Devo sempre ricordare che ho una personalità pubblica, sono deputato della repubblica, sono parte di un movimento politico (Il Pd) e dunque ogni mia mossa ha una valenza e una lettura pubblica. Ho, quindi, responsabilmente preso tutti i contatti istituzionali, parlamentari, di partito e con le autorità locali calabresi. In realtà, tutti sconsigliavano per validissimi motivi che condivido la mia visita a Rosarno. Ma ho deciso lo stesso di andare perchè sentivo più forte il mio imperativo categorico personale, al contempo etico e politico. Ho deciso che il mio posto era lì. Fortunatamente l'Alitalia ha fatto la brava. Ho trovato subito posto e ho prenotato una macchina per andare da Lamezia a Rosarno accompagnato da Mattia Stella, mio bravissimo assistente e coadiuvati da Roma dalla mia fidatissima segretaria Giulia.
Sono arrivato a Rosarno alla guida di una punto grigia. Ad aspettarci al Casello un sacerdote, Don Pino, referente locale dell'associazione Libera di Don Ciotti, una vera manna grazie al quale ho potuto trovare la strada per incontrare le persone che m'interessava incontrare, i giovani immigrati.
Mi sono trovato in mezzo a due realtà infuocate, a due vittime arrabbiate e sotto shock: da un lato gli abitanti di Rosarno quasi tutti fuori nelle piazze con la rabbia dentro il cuore e sui volti. Mi sono fatto strada preceduto da Don Pino e, passando, ho provato a stabilire un contatto con un sorriso, una stretta di mano, un'occhiata. Sentivo dall'altra parte solo indifferenza, fastidio oppure sfida. In fondo ero un nero, ben vestito certo, sorridente certo ma un nero e non capivano cosa stessi facendo lì nella loro Rosarno accompagnato da quel prete amico dei "nivuri". A pochi metri loro, il gruppo dei ragazzi stranieri che mi hanno accolto come si accoglie in Africa una persona più grande, un amico, ma anche con diffidenza. Dentro di loro potevo leggere: "cosa ci fa qui un nero circondato dal rispetto di tutti, compreso quello degli ufficiali dei carabinieri che davanti a lui dimostrano rispetto". Sentivano che ero diverso non solo per l'età e i cappelli grigi, ma qualcosa diceva anche che ero uno di loro. Che si potevano fidare. I dubbi si sono sciolti quando ho salutato in modo per loro inequivocabile, in francese e in inglese, ma con gesti e una retorica per loro familiare. Ho sentito la tensione allentarsi e il silenzio calare su quei volti impauriti e diffidenti di fronte all'autorità italiana. Ho detto loro due cose: la prima e la più importante per me era la solidarietà e la vicinanza per le loro condizioni di vita, di lavoro e per il naufragio dei loro sogni. Ho detto loro che mi vergognavo come africano di vederli in quel posto in condizioni peggiori di quelli dai quali pensavano di sfuggire. Ho detto loro che mi vergognavo per la morte dei loro sogni nel miraggio agognato che si è rivelato più arido del deserto abbandonato in Africa. La seconda cosa che ho detto loro era che dovevano abbandonare la strada della violenza, frutto di una rabbia istintiva di fronte alla sparatoria di cui sono state vittime cinque di loro, ma che era una strada senza uscita, un vicolo cieco che rischiava di seppellire le mille ragioni della loro rabbia e frustrazione di fronte alla condizione di schiavitù dentro la quale si trovavano. Ho ricordato loro che in Sudafrica e soprattutto nella lotta per i diritti umani, le cose migliori che i neri avevano ottenuto li avevano ottenuti con la pratica della non violenza, fatte salve ovviamente le situazioni estreme di legittima difesa di fronte ad una oppressione insopportabile. Loro mi hanno risposto facendomi vedere le loro condizioni di vita. impossibili da descrivere in un testo. Mi hanno raccontato di guadagnare 25 euro dei quali 3 vanno a pagare il pasto quotidiano, 5 per il trasporto e l'intermediario e altri 5 per il pernottamento in quelle condizioni indegne degli esseri umani. Mi hanno detto che loro non potevano accettare di essere considerati delle prede vittime della voglia di sparare degli abitanti del luogo che ogni tanto scaricavano su di loro dei proiettili ordinati e indirizzati dalla malavita organizzata senza la quale nulla si muove in queste contrade. Mi hanno spiegato che loro avevano ormai paura e che volevano lasciare al più presto Rosarno, se possibile nella notte stessa. Avrei voluto portarli tutti a casa mia. Mi sono accontentato di spiegare loro che le autorità stavano pensando ad evacuarli con i tempi lenti delle decisioni politiche ed amministrative. Avevano ragione loro. Dieci minuti dopo la mia partenza da Rosarno ci sono state altre aggressioni.
Mi ero trovato a Rosarno in una situazione alquanto ambigua. Due fazioni l'una di fronte all'altra e io in mezzo. Due fazioni di cui mi sentivo parte: l'Africa delle mie origini; e l'Italia mia terra di scelta, di vita, la mia nuova patria e quella dei miei figli. Ero in mezzo, impotente ma deciso a fare la mia parte perché potesse rimanere un filo aperto tra le due fazioni. Non potevo e non dovevo scegliere. Ero obbligato ad essere un uomo di mediazione, un politico e cioé una persona di pace che ricompone ad armonica ricomposizione gli interessi divergenti presenti nella società. Mi sono sentito impotente ma utile; amareggiato per l'accaduto ma determinato nel proseguire la via della mediazione sociale e culturale.
Voglio, vorrei, offrire all'Italia un cantiere, un laboratorio, un sogno. Quello di una società senza schiavi che vagano da un punto all'altro della penisola, braccianti senza diritti ne dignità, vittime del "cattivismo" della Lega e del Ministro Maroni. Un'Italia talmente sicura di se, delle sue risorse, del suo patrimonio da non temere la novità dell'innesto. Un'Italia che non teme la consapevolezza di un'identità che sia un organismo vivente ad alta complessità e diversità. Un'Italia meticcia dove le persone contano perché sono persone e dove la democrazia si misura nella capacità de restituire umanità alle donne e agli uomini, qualunque siano il colore della pelle, la condizione sociale, la religione, l'orientamento sessuale. Un'Italia che abbandoni le strade della paura per solcare le piste di un futuro plurale, equo e socialmente inclusivo.”
Sono arrivato a Rosarno alla guida di una punto grigia. Ad aspettarci al Casello un sacerdote, Don Pino, referente locale dell'associazione Libera di Don Ciotti, una vera manna grazie al quale ho potuto trovare la strada per incontrare le persone che m'interessava incontrare, i giovani immigrati.
Mi sono trovato in mezzo a due realtà infuocate, a due vittime arrabbiate e sotto shock: da un lato gli abitanti di Rosarno quasi tutti fuori nelle piazze con la rabbia dentro il cuore e sui volti. Mi sono fatto strada preceduto da Don Pino e, passando, ho provato a stabilire un contatto con un sorriso, una stretta di mano, un'occhiata. Sentivo dall'altra parte solo indifferenza, fastidio oppure sfida. In fondo ero un nero, ben vestito certo, sorridente certo ma un nero e non capivano cosa stessi facendo lì nella loro Rosarno accompagnato da quel prete amico dei "nivuri". A pochi metri loro, il gruppo dei ragazzi stranieri che mi hanno accolto come si accoglie in Africa una persona più grande, un amico, ma anche con diffidenza. Dentro di loro potevo leggere: "cosa ci fa qui un nero circondato dal rispetto di tutti, compreso quello degli ufficiali dei carabinieri che davanti a lui dimostrano rispetto". Sentivano che ero diverso non solo per l'età e i cappelli grigi, ma qualcosa diceva anche che ero uno di loro. Che si potevano fidare. I dubbi si sono sciolti quando ho salutato in modo per loro inequivocabile, in francese e in inglese, ma con gesti e una retorica per loro familiare. Ho sentito la tensione allentarsi e il silenzio calare su quei volti impauriti e diffidenti di fronte all'autorità italiana. Ho detto loro due cose: la prima e la più importante per me era la solidarietà e la vicinanza per le loro condizioni di vita, di lavoro e per il naufragio dei loro sogni. Ho detto loro che mi vergognavo come africano di vederli in quel posto in condizioni peggiori di quelli dai quali pensavano di sfuggire. Ho detto loro che mi vergognavo per la morte dei loro sogni nel miraggio agognato che si è rivelato più arido del deserto abbandonato in Africa. La seconda cosa che ho detto loro era che dovevano abbandonare la strada della violenza, frutto di una rabbia istintiva di fronte alla sparatoria di cui sono state vittime cinque di loro, ma che era una strada senza uscita, un vicolo cieco che rischiava di seppellire le mille ragioni della loro rabbia e frustrazione di fronte alla condizione di schiavitù dentro la quale si trovavano. Ho ricordato loro che in Sudafrica e soprattutto nella lotta per i diritti umani, le cose migliori che i neri avevano ottenuto li avevano ottenuti con la pratica della non violenza, fatte salve ovviamente le situazioni estreme di legittima difesa di fronte ad una oppressione insopportabile. Loro mi hanno risposto facendomi vedere le loro condizioni di vita. impossibili da descrivere in un testo. Mi hanno raccontato di guadagnare 25 euro dei quali 3 vanno a pagare il pasto quotidiano, 5 per il trasporto e l'intermediario e altri 5 per il pernottamento in quelle condizioni indegne degli esseri umani. Mi hanno detto che loro non potevano accettare di essere considerati delle prede vittime della voglia di sparare degli abitanti del luogo che ogni tanto scaricavano su di loro dei proiettili ordinati e indirizzati dalla malavita organizzata senza la quale nulla si muove in queste contrade. Mi hanno spiegato che loro avevano ormai paura e che volevano lasciare al più presto Rosarno, se possibile nella notte stessa. Avrei voluto portarli tutti a casa mia. Mi sono accontentato di spiegare loro che le autorità stavano pensando ad evacuarli con i tempi lenti delle decisioni politiche ed amministrative. Avevano ragione loro. Dieci minuti dopo la mia partenza da Rosarno ci sono state altre aggressioni.
Mi ero trovato a Rosarno in una situazione alquanto ambigua. Due fazioni l'una di fronte all'altra e io in mezzo. Due fazioni di cui mi sentivo parte: l'Africa delle mie origini; e l'Italia mia terra di scelta, di vita, la mia nuova patria e quella dei miei figli. Ero in mezzo, impotente ma deciso a fare la mia parte perché potesse rimanere un filo aperto tra le due fazioni. Non potevo e non dovevo scegliere. Ero obbligato ad essere un uomo di mediazione, un politico e cioé una persona di pace che ricompone ad armonica ricomposizione gli interessi divergenti presenti nella società. Mi sono sentito impotente ma utile; amareggiato per l'accaduto ma determinato nel proseguire la via della mediazione sociale e culturale.
Voglio, vorrei, offrire all'Italia un cantiere, un laboratorio, un sogno. Quello di una società senza schiavi che vagano da un punto all'altro della penisola, braccianti senza diritti ne dignità, vittime del "cattivismo" della Lega e del Ministro Maroni. Un'Italia talmente sicura di se, delle sue risorse, del suo patrimonio da non temere la novità dell'innesto. Un'Italia che non teme la consapevolezza di un'identità che sia un organismo vivente ad alta complessità e diversità. Un'Italia meticcia dove le persone contano perché sono persone e dove la democrazia si misura nella capacità de restituire umanità alle donne e agli uomini, qualunque siano il colore della pelle, la condizione sociale, la religione, l'orientamento sessuale. Un'Italia che abbandoni le strade della paura per solcare le piste di un futuro plurale, equo e socialmente inclusivo.”
2 commenti:
Caro amico Jean hai avuto il coraggio di andare nel mio paese di nascita dove regna la mafia e l'ingiustizia. E' da ammirare il tuo coraggio e la tua sensibilità verso i più deboli peccato che il Governo ed il Ministro Maroni consideri gli avvenimenti come un problema di immigrazione e non invece come un territorio dove le istituzioni sono assenti ed è presente la mafia tra quelle più violente. Occorre riprendere l'iniziativa politica su tali problemi. Un abbraccio
Pubblicherò il tuo articolo nel mio blog Cambiamento nelle organizzazioni perché la tua testimonianza possa aprire il cuore a tante persone.
Ho telefonato a Jean per ringraziarlo del suo intervento a Rosarno e per ringraziarlo per la sua sensibilità di fronte a simile tragedia. Mi ha raccontato la sua esperienza ed il suo stato d'animo. Conosco Jean da diverso tempo e sono legato a lui da grande stima ed amicizia. Ci siamo ripromessi di andare insieme a Rosarno se lui decide di essere presente ancora una volta. Il dialogo con lui mi ha tanto commosso e cosi ci siamo salutati. Vi ringrazia per la solidarietà che state testimoniando rispetto alla tragedia grave ed inumana di Rosarno. Peccato potevamo parlare di più ma .... non c'è l'abbiamo fatta.
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