La riforma della P. A. è a rischio per i contenuti del decreto legislativo sull’autonomia della commissione di valutazione e controllo alla quale non viene garantita piena indipendenza e autonomia e sul sistema di incentivazione disciplinato troppo dettagliatamente non lasciando spazi alla contrattazione collettiva. Inoltre è a rischio la trasparenza della P. A. cosi come prevista dalla legge n. 15 del 2009.
Editoriale del senatore Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera - 21 luglio 2009
Con l’introduzione del principio di “accessibilità totale” dei dati e informazioni circa il funzionamento delle amministrazioni, sul settore pubblico si è recentemente accesa una luce forte; tanto forte che alcuni la ritengono addirittura eccessiva. Ora c’è chi quella luce vorrebbe tornare a spegnerla. Penso che ai lettori del Corriere interessi conoscere questa vicenda in tempo utile per potere, una volta tanto, dire la loro, prima e non dopo che la decisione di tornare indietro venga presa.
Posso raccontare la vicenda dall’interno per averla vissuta di persona. Nel testo del disegno di legge che uscì, nel dicembre scorso, dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato era, sì, previsto l’obbligo delle amministrazioni pubbliche di garantire la trasparenza della propria organizzazione e del proprio funzionamento; ma non si era riusciti a inserirvi una enunciazione piena ed esplicita del principio della “trasparenza totale”. Questa enunciazione vi è stata inserita solo in una seconda fase dell’iter parlamentare, con un emendamento ispirato al principio della full disclosure già da tempo in vigore in Svezia, Regno Unito e Stati Uniti d’America. Era toccato a me presentarlo al Senato nel corso della sessione plenaria, esplicitando la sua diretta derivazione dalle due leggi che con lo stesso nome ‑ Freedom of Information Act ‑ regolano la materia in questi ultimi due Paesi. Nonostante che l’emendamento provenisse dall’opposizione, e che in un primo tempo la Commissione lo avesse ritenuto “eccessivo”, in Aula il relatore di maggioranza sul disegno di legge, Carlo Vizzini, espresse parere favorevole e altrettanto fece in quell’occasione il ministro Renato Brunetta a nome del Governo: ciò di cui va reso merito a entrambi. Ne sono usciti i commi settimo, ottavo e nono dell’articolo 4 della legge n. 15/2009, in vigore dal marzo scorso, dove si stabilisce innanzitutto che “la trasparenza è intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti internet”, di tutti i dati e le informazioni sull’organizzazione e l’andamento delle amministrazioni. Si stabilisce inoltre che “Le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione non sono oggetto di protezione della riservatezza personale” (comma nono).
Per avere un’idea di che cosa questo può concretamente significare, si consideri che è stata proprio una disposizione di full disclosure come questa a consentire a una giornalista britannica di mettere le mani su documenti fino ad allora inaccessibili e di scatenare lo scandalo dei rimborsi-spese di parlamentari e funzionari, da cui il Governo di Gordon Brown ha rischiato di farsi travolgere nelle settimane scorse. Si può ben capire, dunque, che questa norma oggi susciti molte preoccupazioni in casa nostra; e che contro la nuova norma, come vi era da attendersi, si torni ad alzare la bandiera della tutela della privacy dei dipendenti pubblici.
Lo scopo della nuova norma è proprio di voltar pagina rispetto a un quindicennio durante il quale la protezione della privacy dei pubblici dipendenti è stata sistematicamente, quanto indebitamente, utilizzata per sottrarre al controllo dell’opinione pubblica informazioni di grande importanza circa l’andamento delle amministrazioni. L’idea è che non c’è nulla di più pubblico dello svolgimento di una funzione pubblica: tutto di essa deve dunque essere interamente conoscibile da chiunque vi abbia interesse. La linea di confine tra vita privata e svolgimento della prestazione resta pur sempre netta: per esempio, nessuno potrà pretendere di conoscere la natura della malattia che ha colpito l’impiegato o il funzionario; ma il fatto che la sua prestazione sia rimasta sospesa per malattia, per quante volte e per quanto tempo, certamente sì. E anche la sua retribuzione, le sue mansioni, le sue promozioni e le valutazioni del suo operato.
Ora, c’è chi torna a ritenere, invece, che tutto questo sia eccessivo: a meno di quattro mesi dall’entrata in vigore della nuova norma, il senatore Filippo Saltamartini, relatore di maggioranza su di un altro disegno di legge ‑ il n. 1167, attualmente all’esame del Senato ‑ ha presentato un emendamento che ne dispone la soppressione. L’approvazione di questo emendamento, resa probabile dalla qualifica del suo presentatore, avrebbe il significato inequivoco di una convalida, anzi rafforzamento del vecchio regime, nel quale il baluardo della privacy contribuiva egregiamente a garantire gli arcana imperii, l’inconoscibilità dell’organizzazione e del funzionamento delle amministrazioni pubbliche.
Bisogna sperare che ciò non avvenga. Ma se questo ha da essere l’esito, che lo sia, almeno questo, alla luce del sole, sotto gli occhi attenti dell’opinione pubblica.
Editoriale del senatore Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera - 21 luglio 2009
Con l’introduzione del principio di “accessibilità totale” dei dati e informazioni circa il funzionamento delle amministrazioni, sul settore pubblico si è recentemente accesa una luce forte; tanto forte che alcuni la ritengono addirittura eccessiva. Ora c’è chi quella luce vorrebbe tornare a spegnerla. Penso che ai lettori del Corriere interessi conoscere questa vicenda in tempo utile per potere, una volta tanto, dire la loro, prima e non dopo che la decisione di tornare indietro venga presa.
Posso raccontare la vicenda dall’interno per averla vissuta di persona. Nel testo del disegno di legge che uscì, nel dicembre scorso, dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato era, sì, previsto l’obbligo delle amministrazioni pubbliche di garantire la trasparenza della propria organizzazione e del proprio funzionamento; ma non si era riusciti a inserirvi una enunciazione piena ed esplicita del principio della “trasparenza totale”. Questa enunciazione vi è stata inserita solo in una seconda fase dell’iter parlamentare, con un emendamento ispirato al principio della full disclosure già da tempo in vigore in Svezia, Regno Unito e Stati Uniti d’America. Era toccato a me presentarlo al Senato nel corso della sessione plenaria, esplicitando la sua diretta derivazione dalle due leggi che con lo stesso nome ‑ Freedom of Information Act ‑ regolano la materia in questi ultimi due Paesi. Nonostante che l’emendamento provenisse dall’opposizione, e che in un primo tempo la Commissione lo avesse ritenuto “eccessivo”, in Aula il relatore di maggioranza sul disegno di legge, Carlo Vizzini, espresse parere favorevole e altrettanto fece in quell’occasione il ministro Renato Brunetta a nome del Governo: ciò di cui va reso merito a entrambi. Ne sono usciti i commi settimo, ottavo e nono dell’articolo 4 della legge n. 15/2009, in vigore dal marzo scorso, dove si stabilisce innanzitutto che “la trasparenza è intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti internet”, di tutti i dati e le informazioni sull’organizzazione e l’andamento delle amministrazioni. Si stabilisce inoltre che “Le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione non sono oggetto di protezione della riservatezza personale” (comma nono).
Per avere un’idea di che cosa questo può concretamente significare, si consideri che è stata proprio una disposizione di full disclosure come questa a consentire a una giornalista britannica di mettere le mani su documenti fino ad allora inaccessibili e di scatenare lo scandalo dei rimborsi-spese di parlamentari e funzionari, da cui il Governo di Gordon Brown ha rischiato di farsi travolgere nelle settimane scorse. Si può ben capire, dunque, che questa norma oggi susciti molte preoccupazioni in casa nostra; e che contro la nuova norma, come vi era da attendersi, si torni ad alzare la bandiera della tutela della privacy dei dipendenti pubblici.
Lo scopo della nuova norma è proprio di voltar pagina rispetto a un quindicennio durante il quale la protezione della privacy dei pubblici dipendenti è stata sistematicamente, quanto indebitamente, utilizzata per sottrarre al controllo dell’opinione pubblica informazioni di grande importanza circa l’andamento delle amministrazioni. L’idea è che non c’è nulla di più pubblico dello svolgimento di una funzione pubblica: tutto di essa deve dunque essere interamente conoscibile da chiunque vi abbia interesse. La linea di confine tra vita privata e svolgimento della prestazione resta pur sempre netta: per esempio, nessuno potrà pretendere di conoscere la natura della malattia che ha colpito l’impiegato o il funzionario; ma il fatto che la sua prestazione sia rimasta sospesa per malattia, per quante volte e per quanto tempo, certamente sì. E anche la sua retribuzione, le sue mansioni, le sue promozioni e le valutazioni del suo operato.
Ora, c’è chi torna a ritenere, invece, che tutto questo sia eccessivo: a meno di quattro mesi dall’entrata in vigore della nuova norma, il senatore Filippo Saltamartini, relatore di maggioranza su di un altro disegno di legge ‑ il n. 1167, attualmente all’esame del Senato ‑ ha presentato un emendamento che ne dispone la soppressione. L’approvazione di questo emendamento, resa probabile dalla qualifica del suo presentatore, avrebbe il significato inequivoco di una convalida, anzi rafforzamento del vecchio regime, nel quale il baluardo della privacy contribuiva egregiamente a garantire gli arcana imperii, l’inconoscibilità dell’organizzazione e del funzionamento delle amministrazioni pubbliche.
Bisogna sperare che ciò non avvenga. Ma se questo ha da essere l’esito, che lo sia, almeno questo, alla luce del sole, sotto gli occhi attenti dell’opinione pubblica.
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