Intervento di Pietro Ichino al Senato nella sessione antimeridiana del 10 febbraio 2009, nel corso della discussione sulla mozione presentata dalla maggioranza in sostituzione del disegno di legge ritirato dal Governo la sera precedente, in materia di trattamenti dovuti nelle situazioni di confine tra vita e morte.
“Vorrei distinguere, nel mio intervento, la parte che svolgo nella mia veste di politico e quella che svolgo come cristiano, o almeno aspirante tale. Non perché questo mi conduca a due conclusioni diverse, ma perché mi sembra necessario sottolineare una distinzione tra i due piani del discorso, che troppo sovente è ignorata o trascurata.
Nella veste di membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, chiamato a stabilire quale sia il confine tra vita meramente biologica e vita umana, tra stato vegetativo reversibile e irreversibile, ritengo che la legge debba limitarsi a definire il confine al di qua del quale c’è sicuramente vita umana da difendere con ogni mezzo, e il diverso confine al di là del quale il corpo umano può e deve essere considerato a tutti gli effetti morto. Questi sono i soli certi fines, i confini sicuri, che un ordinamento civile può e deve porre. Ed essi non sempre coincidono tra loro. Dico che non coincidono perché tra di essi talvolta si presenta una sorta di zona grigia, una zona di ragionevole opinabilità – corrispondente a quella che gli anglosassoni chiamano band of reasonableness delle opzioni possibili – dove possono verificarsi una infinità di situazioni-limite particolari la cui qualificazione è controvertibile. Qui, a ogni cittadino deve essere consentito, con l’assistenza del medico o di altro consigliere qualificato di sua scelta, agire secondo la propria coscienza.
Per quel che mi riguarda, in una situazione nella quale, come nel caso di Eluana Englaro, fosse ragionevole ritenere irreversibile la mia totale perdita di coscienza, cioè ritenere il mio corpo di fatto condannato a una vita puramente vegetativa, privato irreversibilmente di mente e coscienza, sentirei gravemente lesa la dignità della mia persona se quel corpo venisse mantenuto in vita per lungo tempo, ancorché nel modo più amorevole e rispettoso. Penso che questo senso di ribellione all’idea di una prolungata permanenza forzata in vita del proprio corpo privato per sempre della coscienza sia condivisa dalla grande maggioranza dei miei concittadini. Per questo ritengo che un legislatore laico, fissati i confini della zona di ragionevole opinabilità, debba riconoscere ai familiari di chiunque si trovi in una situazione di questo genere la libertà di scegliere secondo coscienza: di scegliere, cioè, se continuare o no ad alimentare una vita che può essere altrettanto ragionevole ritenere ancora vita umana, quanto non ritenerla più tale.
È evidente, oltretutto, che in una situazione di questo genere l’alimentazione forzata equivale sostanzialmente a un trattamento terapeutico: obbligare i parenti della persona non cosciente a praticarlo violerebbe il principio costituzionale che garantisce il diritto di rifiutare le cure.
Detto questo, e parlo ancora come membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, rispetto e difendo il diritto di chiunque, nel nostro Paese, quindi anche dei vescovi e in generale del Magistero ecclesiastico cattolico, come degli esponenti di ogni altra chiesa o comunità religiosa, di esprimere liberamente la propria opinione sul discrimine tra vita e morte, tra vita biologica e vita umana, e anche su che cosa la legge dovrebbe stabilire al riguardo: dissento dunque recisamente da chi vede negli interventi delle Autorità religiose sul terreno politico-legislativo una ingerenza indebita o comunque una scorrettezza.
È come cristiano – forse sarebbe meglio dire: come persona impegnata a coltivare intensamente il patrimonio plurimillenario della tradizione biblica –, è in questa veste che mi rammarico di interventi del tipo di quelli che la Chiesa cattolica con frequenza compie su ciò che questo Parlamento deve o non deve fare. E mi rammarico dell’atteggiamento – che non esito a definire clericale, nel senso peggiore del termine ‑ di un Governo che a questi interventi assoggetta programmaticamente e sistematicamente il proprio agire; incurante, oltretutto, del fatto che della nostra tradizione biblica non è depositaria soltanto la Chiesa cattolica, ma anche altre, come quelle protestanti e in particolare quella valdese; ne è depositaria pure, e da molto prima, la Comunità israelitica. E tutte queste, dalle Scritture, traggono insegnamenti di etica politica talora profondamente diversi rispetto alla Chiesa cattolica.
In consonanza con tanta parte di questa grande comunità di persone che nella tradizione biblica cercano il senso della propria vita, penso che la testimonianza di una Chiesa cristiana non debba mai consistere nell’indicare la soluzione giuridico-legislativa specifica da preferire, né tanto meno le concrete modalità dell’impegno politico; penso che essa invece debba educare i cristiani all’esercizio responsabile della propria coscienza, lasciando che proprio quest’ultima resti il punto di riferimento fondamentale per ciascuno di loro nelle scelte politiche, giuridiche, tecniche. Pietro Scoppola amava citare, a questo proposito, un’affermazione del Concilio Lateranense IV del 1215: “Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad Gehennam” (“qualsiasi cosa che si faccia contro la propria coscienza prepara all’Inferno”). Ultimamente, la Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II ha detto, con altre parole, la stessa cosa (§ 16): “L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio”. Nelle materie che vanno “rese a Cesare” (Mt., XXII, 21) – e tra queste vi è certamente la materia della legislazione civile ‑ le scelte operative devono esprimere i valori in cui crediamo attraverso la mediazione della coscienza di ciascuno di noi.
“Rendere a Cesare quel che è di Cesare” significa rispettare la laicità dello Stato, della sua politica, della sua legislazione. Questa laicità è sostanzialmente il metodo che consente a tutte le persone di buona volontà di trovare un terreno comune sul quale mettere in comunicazione le loro coscienze, ispirate a fedi e filosofie anche molto diverse, per cooperare nella ricerca delle soluzioni tecniche, politiche, legislative migliori per il bene del Paese. Quel terreno comune viene meno se c’è qualcuno che su di esso (quello, appunto, che il Vangelo ci invita a “rendere a Cesare”), si presenta con la verità in tasca, già bell’e confezionata, certificata con il sigillo della conformità alla volontà di Dio. Con gli occhi di chi legge la Bibbia, vedo in questa pretesa una violazione del secondo Comandamento: “non nominare il nome di Dio invano”.
Per concludere, chiedo alla Chiesa di affermare con forza il valore della vita; ma di rendere alla scienza ciò che le è proprio. Lasciare, cioè ai neurologi la valutazione tecnica circa l’irreversibilità della scomparsa di una componente essenziale della vita umana: la mente, la coscienza; lasciare, più in generale, ai medici la scelta del modo concretamente più umano e caritatevole di trattare, nella loro infinita varietà, i casi in cui si determina questa scomparsa irreversibile. È compito della Chiesa continuare a educare con rigore e passione le persone ai valori evangelici; ma essa deve lasciare loro – e in particolare a quelle che sono impegnate negli organi legislativi e amministrativi dello Stato – la libertà di compiere secondo coscienza le scelte proprie della funzione civile o professionale che esse svolgono, confrontandosi in proposito con le persone di fede diversa senza la pretesa di possedere in quel campo una verità rivelata, direttamente attinta dalla volontà divina. Anzi, credo che la Chiesa debba vegliare a che nessuno avanzi questa pretesa, nessuno violi il secondo Comandamento.
Al Governo e al Parlamento chiedo di riconoscere e proteggere, come impone la Costituzione, nella zona tra i due confini ‑ della certezza di vita umana da una parte, della certezza di morte dall’altra ‑, quella band of reasonableness delle opzioni possibili, all’interno della quale ogni cittadino, cristiano o no, deve poter decidere e agire secondo la propria coscienza.”
“Vorrei distinguere, nel mio intervento, la parte che svolgo nella mia veste di politico e quella che svolgo come cristiano, o almeno aspirante tale. Non perché questo mi conduca a due conclusioni diverse, ma perché mi sembra necessario sottolineare una distinzione tra i due piani del discorso, che troppo sovente è ignorata o trascurata.
Nella veste di membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, chiamato a stabilire quale sia il confine tra vita meramente biologica e vita umana, tra stato vegetativo reversibile e irreversibile, ritengo che la legge debba limitarsi a definire il confine al di qua del quale c’è sicuramente vita umana da difendere con ogni mezzo, e il diverso confine al di là del quale il corpo umano può e deve essere considerato a tutti gli effetti morto. Questi sono i soli certi fines, i confini sicuri, che un ordinamento civile può e deve porre. Ed essi non sempre coincidono tra loro. Dico che non coincidono perché tra di essi talvolta si presenta una sorta di zona grigia, una zona di ragionevole opinabilità – corrispondente a quella che gli anglosassoni chiamano band of reasonableness delle opzioni possibili – dove possono verificarsi una infinità di situazioni-limite particolari la cui qualificazione è controvertibile. Qui, a ogni cittadino deve essere consentito, con l’assistenza del medico o di altro consigliere qualificato di sua scelta, agire secondo la propria coscienza.
Per quel che mi riguarda, in una situazione nella quale, come nel caso di Eluana Englaro, fosse ragionevole ritenere irreversibile la mia totale perdita di coscienza, cioè ritenere il mio corpo di fatto condannato a una vita puramente vegetativa, privato irreversibilmente di mente e coscienza, sentirei gravemente lesa la dignità della mia persona se quel corpo venisse mantenuto in vita per lungo tempo, ancorché nel modo più amorevole e rispettoso. Penso che questo senso di ribellione all’idea di una prolungata permanenza forzata in vita del proprio corpo privato per sempre della coscienza sia condivisa dalla grande maggioranza dei miei concittadini. Per questo ritengo che un legislatore laico, fissati i confini della zona di ragionevole opinabilità, debba riconoscere ai familiari di chiunque si trovi in una situazione di questo genere la libertà di scegliere secondo coscienza: di scegliere, cioè, se continuare o no ad alimentare una vita che può essere altrettanto ragionevole ritenere ancora vita umana, quanto non ritenerla più tale.
È evidente, oltretutto, che in una situazione di questo genere l’alimentazione forzata equivale sostanzialmente a un trattamento terapeutico: obbligare i parenti della persona non cosciente a praticarlo violerebbe il principio costituzionale che garantisce il diritto di rifiutare le cure.
Detto questo, e parlo ancora come membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, rispetto e difendo il diritto di chiunque, nel nostro Paese, quindi anche dei vescovi e in generale del Magistero ecclesiastico cattolico, come degli esponenti di ogni altra chiesa o comunità religiosa, di esprimere liberamente la propria opinione sul discrimine tra vita e morte, tra vita biologica e vita umana, e anche su che cosa la legge dovrebbe stabilire al riguardo: dissento dunque recisamente da chi vede negli interventi delle Autorità religiose sul terreno politico-legislativo una ingerenza indebita o comunque una scorrettezza.
È come cristiano – forse sarebbe meglio dire: come persona impegnata a coltivare intensamente il patrimonio plurimillenario della tradizione biblica –, è in questa veste che mi rammarico di interventi del tipo di quelli che la Chiesa cattolica con frequenza compie su ciò che questo Parlamento deve o non deve fare. E mi rammarico dell’atteggiamento – che non esito a definire clericale, nel senso peggiore del termine ‑ di un Governo che a questi interventi assoggetta programmaticamente e sistematicamente il proprio agire; incurante, oltretutto, del fatto che della nostra tradizione biblica non è depositaria soltanto la Chiesa cattolica, ma anche altre, come quelle protestanti e in particolare quella valdese; ne è depositaria pure, e da molto prima, la Comunità israelitica. E tutte queste, dalle Scritture, traggono insegnamenti di etica politica talora profondamente diversi rispetto alla Chiesa cattolica.
In consonanza con tanta parte di questa grande comunità di persone che nella tradizione biblica cercano il senso della propria vita, penso che la testimonianza di una Chiesa cristiana non debba mai consistere nell’indicare la soluzione giuridico-legislativa specifica da preferire, né tanto meno le concrete modalità dell’impegno politico; penso che essa invece debba educare i cristiani all’esercizio responsabile della propria coscienza, lasciando che proprio quest’ultima resti il punto di riferimento fondamentale per ciascuno di loro nelle scelte politiche, giuridiche, tecniche. Pietro Scoppola amava citare, a questo proposito, un’affermazione del Concilio Lateranense IV del 1215: “Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad Gehennam” (“qualsiasi cosa che si faccia contro la propria coscienza prepara all’Inferno”). Ultimamente, la Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II ha detto, con altre parole, la stessa cosa (§ 16): “L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio”. Nelle materie che vanno “rese a Cesare” (Mt., XXII, 21) – e tra queste vi è certamente la materia della legislazione civile ‑ le scelte operative devono esprimere i valori in cui crediamo attraverso la mediazione della coscienza di ciascuno di noi.
“Rendere a Cesare quel che è di Cesare” significa rispettare la laicità dello Stato, della sua politica, della sua legislazione. Questa laicità è sostanzialmente il metodo che consente a tutte le persone di buona volontà di trovare un terreno comune sul quale mettere in comunicazione le loro coscienze, ispirate a fedi e filosofie anche molto diverse, per cooperare nella ricerca delle soluzioni tecniche, politiche, legislative migliori per il bene del Paese. Quel terreno comune viene meno se c’è qualcuno che su di esso (quello, appunto, che il Vangelo ci invita a “rendere a Cesare”), si presenta con la verità in tasca, già bell’e confezionata, certificata con il sigillo della conformità alla volontà di Dio. Con gli occhi di chi legge la Bibbia, vedo in questa pretesa una violazione del secondo Comandamento: “non nominare il nome di Dio invano”.
Per concludere, chiedo alla Chiesa di affermare con forza il valore della vita; ma di rendere alla scienza ciò che le è proprio. Lasciare, cioè ai neurologi la valutazione tecnica circa l’irreversibilità della scomparsa di una componente essenziale della vita umana: la mente, la coscienza; lasciare, più in generale, ai medici la scelta del modo concretamente più umano e caritatevole di trattare, nella loro infinita varietà, i casi in cui si determina questa scomparsa irreversibile. È compito della Chiesa continuare a educare con rigore e passione le persone ai valori evangelici; ma essa deve lasciare loro – e in particolare a quelle che sono impegnate negli organi legislativi e amministrativi dello Stato – la libertà di compiere secondo coscienza le scelte proprie della funzione civile o professionale che esse svolgono, confrontandosi in proposito con le persone di fede diversa senza la pretesa di possedere in quel campo una verità rivelata, direttamente attinta dalla volontà divina. Anzi, credo che la Chiesa debba vegliare a che nessuno avanzi questa pretesa, nessuno violi il secondo Comandamento.
Al Governo e al Parlamento chiedo di riconoscere e proteggere, come impone la Costituzione, nella zona tra i due confini ‑ della certezza di vita umana da una parte, della certezza di morte dall’altra ‑, quella band of reasonableness delle opzioni possibili, all’interno della quale ogni cittadino, cristiano o no, deve poter decidere e agire secondo la propria coscienza.”
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