lunedì 22 febbraio 2010

Quando il personale pubblico lavora nell’interesse dell’Ente

Si ringrazia la DeA (Demografici Associati) per la gentile concessione alla pubblicazione dell'articolo di Emanuele Costa su questo sito
Non si tragga in errore il lettore dall’effetto visivo generato dalla combinazione di parole dalle quali scaturisce il titolo dell’articolo, ma l’incoerenza è stata appositamente voluta e studiata per suscitare nella sensibilità umana quello shock intellettuale dal quale successivamente si spera possa svilupparsi uno spirito costruttivo di approccio ai problemi della Pubblica Amministrazione.
Ad alcuni sicuramente verrebbe però da domandarsi il perché dell’utilizzo della parola “incoerenza”.
Non è forse vero che il personale pubblico, inteso nel senso più ampio del termine (amministratori, dirigenti, dipendenti), svolge la propria attività lavorativa nell’esclusivo interesse dell’Ente? Il gioco di parole adottato che, come si è detto sopra, è stato ricercato con consapevolezza avrebbe preferito, al termine dell’affermazione, l’apposizione di un segno distintivo che la letteratura anglosassone identifica nel question mark, ma la punteggiatura mancante avrebbe esclusivamente portato ad elaborare una risposta, mentre, nella realtà, esistono ancora molte domande da porsi prima di giungere ad una soluzione.
Ma in cosa consiste l’interesse dell’Ente?
Una domanda alla quale, chiedendo anticipatamente perdono per la ripetizione poco sonante, si può rispondere univocamente con “risposte”, che non devono tradursi in articolate elucubrazioni verbali di lana caprina con le quali si giustifica il sesso degli angeli, ma in output, che, nonostante assumano la veste immateriale, possano definirsi tangibili e concreti.
Non a caso, credo che con tutta serenità non sia oggetto di scomunica definire “ingrato” il compito di formulare alcune considerazioni in merito, soprattutto quando si inseriscono nei rapporti complessi che esistono tra l’Ente Pubblico ed il Cittadino, dove la locuzione complessità è solo adeguata a quei meccanismi burocratici che infettano la mentalità del personale pubblico ancor prima che un agire razionale consenta di pervenire alla risoluzione del problema.
Anche l’espressione verbale “ingrato” è stata intenzionalmente scelta, in quanto, da un lato, non sempre risulta facile affrontare argomentazioni che incidono sulla realtà operativa di una Pubblica Amministrazione e, dall’altro, non è semplice utilizzare nell’esposizione una terminologia comprensibile, capace di catturare quell’attenzione che può aiutare a far condividere insieme alcuni aspetti, peraltro non sempre positivi, sui rapporti esistenti tra il potere pubblico e coloro nei confronti dei quali dovrebbe essere esercitato per l’erogazione di servizi.
Non è un caso fortuito se, nel tempo, il cittadino si disaffeziona dall’Amministrazione Pubblica, allontanandosi contestualmente dai problemi che affliggono la Comunità locale. Questo atteggiamento passivo, che rifugge il problema alla radice, è la risultante di un percorso gestionale progettato ad hoc per far sì che l’Ente Pubblico sia percepito come una scatola chiusa, dove al suo interno si decide di tutto ad eccezione di quella che, nella realtà, era la missione reclamata dagli Amministratori in sede di consultazione elettorale.
Le colpe di questo sistema non devono, tuttavia, essere cercate nei comportamenti dei Governi nazionali, di qualunque colore si siano dipinti, ma direttamente in coloro che, a livello locale, sono stati chiamati a gestire la cosiddetta “macchina pubblica”.
Infatti, a partire dai primi anni novanta (e questo è il dato più triste alla resa dei conti) il Legislatore nazionale è andato nel tempo partorendo una disciplina più o meno organica di provvedimenti mirati a rendere più snella l’attività della Pubblica Amministrazione, cercando di abolire tutta una serie di procedure ridondanti e obsolete che, nella burocrazia, trovavano (e purtroppo ancora oggi è così) quella preziosa linfa vitale che consentiva di celare, dietro una gestione disorganizzata, l’incapacità di adottare atti amministrativi idonei a soddisfare le esigenze della collettività.
I Cittadini, anziché essere considerati come portatori di interesse, sono individuati come generatori di problemi e, conseguentemente, meno si avvicinano al Palazzo Comunale (che costituisce la Pubblica Amministrazione per eccellenza, essendo capillarmente presente ovunque), meglio è per il quieto vivere e il proliferare di attività svolte e assolutamente improduttive di benefici tangibili per loro.
Oggi si vive in realtà locali dove chiunque abbia voglia, ma soprattutto pazienza, di perdere un po’ del suo prezioso tempo libero e decida di varcare il portone del proprio Comune si troverà immerso in un ambiente talmente asfittico che lo priverà di quell’ossigeno necessario per individuare la persona giusta alla quale rivolgersi per ottenere indicazioni e suggerimenti utili ad individuare con tempestività e precisione l’Ufficio competente a risolvere il problema.
L’Utente si ritroverà come se fosse all’interno di un museo privo di una cartina che illustra il giusto percorso nel labirintico andirivieni di corridoi, stanze e persone.
Forse non tutti sono a conoscenza del fatto che le leggi emanate nella direzione di ridurre le distanze tra Pubblica Amministrazione e Cittadino sono operative da oltre dieci anni e che il ritardo della loro piena applicazione non dipende dalla incomprensibile terminologia giuridica utilizzata nell’esporre il dettato normativo, ma nella mancanza di volontà di adeguare il proprio modus operandi, facilitando la comprensione che il lavoro svolto all’interno degli Enti Pubblici avviene tenendo sempre in primo piano l’interesse collettivo.
Il panorama di oggi è profondamente cambiato rispetto ai decenni scorsi ed il livello culturale del cittadino è elevato al punto che, per fortuna, non ripone più alcuna fiducia nei racconti del personaggio di turno che si materializza in quello creato da Carlo Lorenzini, in arte Collodi.
Nonostante ciò, se si sente recitare gli attori principali, sembrerebbe che lavorare nell’interesse dell’Ente sia alquanto difficile, per non dire pieno di ostacoli:
- le innovazioni sono istantanee e, conseguentemente, l’adeguamento richiede tempo;
- la normativa di riferimento si evolve e, quindi, occorre adeguare le procedure;
- gli scenari cambiano ripetutamente e ciò richiede forzatamente la definizione di nuovi “punti nave”.
Peccato che il regista del teatro organizzativo, a fronte di questi continui mutamenti ambientali, si dimentichi di ricordare ai protagonisti che il copione è sempre identico: l’obiettivo finale è la soddisfazione dei bisogni della collettività.
Cosa spinge allora a considerare l’interesse dell’Ente una cosa così astratta e priva di sostanza tale da richiedere la produzione di tanta documentazione, che si manifesta attraverso risme di carta, proliferazione di faldoni e attività ripetitive, se non inutili, frutto di decisioni non coerenti con le strategie da perseguire?
Esistono procedure appartenenti alla famiglia della lean thinking, che, se applicate, produrrebbero risultati talmente all’avanguardia da consentire un’azione amministrativa capace di instaurare un circolo virtuoso, che farebbe ridurre il time to market, ossia il tempo necessario per la soddisfazione dei bisogni della cittadinanza, dal preciso istante in cui si sono manifestati a quello in cui viene comunicato il risultato finale.
Anche la comunicazione riveste un ruolo di primo piano all’interno dell’Organizzazione Pubblica, che si impernia prioritariamente sulla comprensione dei problemi e non sulla loro soluzione, anche se è abbastanza evidente che la corretta individuazione del problema avvicina quella della sua soluzione.
Il personale pubblico, dagli amministratori ai dipendenti passando, soprattutto, per i dirigenti, ritiene che il possesso delle informazioni a disposizione sia ancora un segreto da non divulgare a nessuno sia in un’ottica bottom up, sia, a maggior ragione, top down. In pratica, si rifiuta di prendere in considerazione il beneficio che la comunicazione con il cittadino porta alla rimozione di quell’ostacolo che nella diffidenza trova il peggior nemico del rapporto di fiducia che altrimenti si verrebbe a realizzare.
La soluzione di gran parte dei problemi della Pubblica Amministrazione trova le sue fondamenta in un semplice fattore di mappatura e successiva riorganizzazione delle attività, ma questo non impedisce l’instaurarsi, nella illuminata vision prospettica del personale pubblico, di meccanismi perversi tali da far percepire che i processi di reengineering siano una minaccia anziché un’opportunità.
La loro filosofia di pensiero, ma anche il modo di intendere la res publica, è rimasta ancorata a schemi manageriali di derivazione preistorica, isolati dall’ambiente esterno circostante, generando quel timore che la semplificazione dei processi potrebbe far perdere potere all’interno dell’organizzazione e far percepire, conseguentemente, al beneficiario una sensazione di aver a che fare con un soggetto diverso da quello al quale si era inizialmente rivolto.
L’innovazione è bandita in quanto occorre eseguire i compiti nel preciso rispetto di regole prive di logica, di compilazione di moduli inutili e produzione di paginate di relazioni che nessuno leggerà. L’importante è continuare a credere che “se non c’è controllo, allora deve esserci il controllo”, per poi meravigliarsi della paralizzante inefficienza che non consente il perseguimento degli interessi dell’Ente, ma consente, però, di raggiungere altri obiettivi.
E’ necessario che nel contesto attuale caratterizzato da innovazione istantanea e globalizzazione la guida dell’Ente sia affidata a persone capaci di separare la vita professionale da quella privata, che siano fortemente propensi al change management e siano dotati di elasticità mentale senza per questo dimenticare il percorso di avvicinamento agli interessi della Comunità.
In caso contrario, la resistenza al cambiamento, l’ottusità mentale, il pedissequo rispetto di regole gestionali arcaiche faranno avanzare la Pubblica Amministrazione lentamente, come una nave in mezzo all’oceano, lungo una rotta disegnata da comportamenti improvvisati sordi alle sollecitazioni provenienti dall’ambiente interno.
Lungo questa direzione, ci si accorgerà ben presto che continuando a tracciare “punti nave”, anziché aver raggiunto lo stato desiderato, ovvero l’obiettivo finale, l’imbarcazione si sarà arenata in un nulla di fatto o, peggio ancora, si sarà incagliata tra gli scogli e che al cittadino, rimasto insoddisfatto, non rimarrà altro da dire che ci vuole tempo per risolvere i suoi problemi perché le scialuppe di salvataggio (leggasi “le risorse umane migliori”) hanno già da tempo abbandonato la nave.
Emanuele Costa

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