sabato 8 gennaio 2011

L’Italia non è un paese per i giovani

Articolo di Irene Tinagli pubblicato su La Stampa l’8 gennaio 2011
Ancora una volta potrà dire «l’avevo detto». Due giorni fa il ministro Tremonti metteva in guardia contro facili ottimismi sulla fine della crisi, e ieri i dati Istat sull’occupazione confermano un quadro tutt’altro che positivo. Non accenna a diminuire la disoccupazione complessiva, restando inchiodata all’8,7%, il dato più alto dal 2004, e riprende a salire quella giovanile, che arriva al 28,9%. Certamente questi dati non vanno letti isolatamente, ma assieme a quelli che, per esempio, indicano come anche l’occupazione sia parallelamente cresciuta (+0,1% rispetto a novembre) e a quelli che indicano che un maggior numero di persone si è rimesso attivamente alla ricerca di un lavoro, andando a ingrossare le statistiche sulla disoccupazione. Ma cercare di nascondersi dietro uno zero virgola in più porta all’unico risultato di non affrontare un problema strutturale e molto grave del nostro Paese, ovvero l’incapacità di crescere (da questo punto di vista i dati sull’occupazione andrebbero letti assieme a quelli del Pil, che stenta a ripartire, e a quelli della produttività, ancora ferma) e, problema ancor più grave, l’incapacità di coinvolgere le giovani generazioni nel tessuto economico e produttivo del Paese.
Nonostante continui a essere ignorata e sminuita dal nostro governo, la questione della disoccupazione giovanile in Italia è ormai da tempo un problema di assoluta gravità, che mortifica l’entusiasmo di milioni di giovani e delle loro famiglie e che frena la ripresa economica del Paese. Un problema al quale nessuno in Italia è stato capace di dare una risposta concreta. Uno scenario politico senza idee, diviso tra chi ha fatto leva sul disagio dei giovani semplicemente per cercare di indebolire il governo (compensando così un difetto dell’opposizione), e chi invece, all’interno del governo, ha liquidato la questione con dichiarazioni tanto incredibili quanto poco costruttive. Come l’ultima del ministro Sacconi, che durante le feste natalizie ha rimarcato come la disoccupazione giovanile sia colpa di cattivi genitori che li spingono a studiare e laurearsi quando invece potrebbero imparare un mestiere e adattarsi meglio alle esigenze del mercato. Chissà se è venuto in mente al ministro che il mercato del lavoro è anche frutto delle politiche economiche e sociali che un Paese persegue.
E che è il governo di un Paese che dovrebbe mirare ad adattare il proprio sistema economico e sociale alle dinamiche internazionali in modo da tenerlo competitivo, non i giovani che devono adattarsi al declino del Paese e all’incapacità dei politici di rimetterlo in moto. No, non è incitando i ragazzi ad accaparrarsi gli ultimi lavori da elettricisti o falegnami rimasti che risolveremo il problema della disoccupazione giovanile, ma intervenendo in maniera più incisiva sia su una effettiva riforma del mercato del lavoro (in modo da eliminarne la dualità che oggi marginalizza milioni di giovani), sia su politiche economiche lungimiranti. Politiche di sviluppo orientate a far sì che in Italia arrivino o nascano nuove imprese, in particolare imprese innovative, ad alta vocazione internazionale, capaci di far emergere nuovi settori e generare nuova occupazione. Certo, non sono interventi semplici, soprattutto in tempi di crisi, e anche altri Paesi hanno mostrato di fare degli errori di fronte alla crisi e di non riuscire sempre a ottenere i risultati sperati. Ma le cose si muovono, e sono pochi quelli che restano fermi.
Dopo aver investito gran parte di inizio mandato a riformare aspetti importanti del sistema di protezione sociale americano, Obama è passato a più aggressive misure di sviluppo, varando nel corso del 2010 un consistente pacchetto di incentivi alle imprese per supportare le nuove assunzioni e nuovi investimenti, con paralleli tagli alle tasse, per un totale di 150 miliardi di dollari. Sarà un caso, ma negli ultimi mesi l’occupazione negli Stati Uniti ha registrato continui miglioramenti. Proprio ieri i dati hanno indicato la creazione di oltre 100.000 posti di lavoro nel mese di dicembre - meno di quanto era stato precedentemente stimato, ma comunque un dato positivo soprattutto se lo si somma ai posti che erano stati creati a ottobre e novembre (210.000 e 71.000), nettamente al di sopra delle aspettative. La Germania, a sua volta, pur cercando di contenere il deficit con uno dei tagli di spesa del settore pubblico più pesanti dal dopoguerra, ha rilanciato il proprio sistema produttivo investendo in ricerca e sviluppo, negoziando con le imprese migliaia di posti di formazione per i giovani, orientando molti incentivi economici verso nuovi settori e le «industrie creative e culturali» (alla faccia di chi pensava che i tedeschi fossero solo interessati a costruire la propria potenza su macchinari e tecnologie), e finanziando numerose attività di supporto per le imprese orientate all’esportazione.
Il programma tedesco «Hermes», che offre garanzie di credito alle imprese esportatrici, nel 2009 ha emesso garanzie per 22,4 miliardi di euro, un record storico per la Germania. Una politica i cui risultati sono, fino a oggi, sotto gli occhi di tutti. In Italia oggi molti politici litigheranno su come leggere gli ultimi dati, ma se si avesse il coraggio di ammettere il fallimento di una politica che lascia quasi un terzo dei propri giovani senza lavoro e senza prospettive, e se si avesse davvero la forza di attivare politiche di sviluppo utili, e non solo predire o minimizzare disgrazie, forse un giorno potremmo dire a questi giovani qualcosa di più emozionante e utile di un semplice «arrangiatevi».

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