domenica 14 dicembre 2008

Quale lavoro nella grande crisi

Articolo di Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera del 14 dicembre 2008
Con lo sciopero generale di venerdì la Cgil ha rivendicato dal Governo in modo lucido e preciso una maggiore mobilitazione di risorse contro la recessione. Ma non è stata altrettanto lucida su di un altro tema cruciale: a quale tipo di nuovo lavoro possono aspirare le centinaia di migliaia di persone che nella crisi stanno perdendo il vecchio.
I primi a perdere il posto sono i lavoratori precari, quelli che si collocano nella parte cattiva del nostro “sistema duale”: per licenziarli basta negare loro il rinnovo del contratto a termine, o di “lavoro a progetto”. In loro favore la Cgil, così come gli altri sindacati, rivendica almeno un po’ di sostegno pubblico; ma né l’una né gli altri chiariscono quale strategia intendano proporre affinché quegli ex-precari, quando torneranno al lavoro, non vi tornino nella stessa condizione di prima, cioè nella parte cattiva del sistema. Oltre ai precari, poi, stanno incominciando a perdere il posto a causa della crisi anche molte migliaia di dipendenti regolari di imprese grandi e medie. Se il quadro normativo resta quello attuale, è ragionevole prevedere che nel biennio o triennio di grande incertezza che ci attende, questi ex-regolari non ritroveranno lavoro se non in forma precaria.
Nel nostro mercato del lavoro, contrariamente a un’idea molto diffusa, si continua ad assumere, pur in tempi di crisi: anche se i ritmi non saranno gli stessi dell’ultimo decennio, i nuovi contratti di lavoro in Italia continueranno a contarsi a centinaia di migliaia ogni mese. La questione è: contratti di che tipo? E la risposta, se non cambierà qualche cosa, non può essere che questa: l’incertezza sul futuro porterà ad aumentare la quota del lavoro di serie B o C, in tutte le sue forme, compresa quella del lavoro nero. Davvero il sindacato non può far altro, per le vittime della crisi, che rivendicare un po’ più di spesa pubblica, abbandonandole per il resto al loro destino, cioè quello di essere per la maggior parte riassorbite nella parte cattiva del vecchio “sistema duale”?
In realtà c’è una riforma incisiva, cui il sindacato può partecipare da protagonista: un progetto che concilia la flessibilità indispensabile alle imprese con il superamento del “sistema duale” e con il massimo di sicurezza per i nuovi assunti, senza toccare le posizioni di lavoro preesistenti. Una svolta di questo genere è politicamente possibile, per esempio, con una legge semplice e snella che offra a imprese e sindacati la possibilità di stipulare un “contratto di transizione” a un sistema di protezione di tipo nord-europeo. Per tutti i nuovi assunti – salvo pochissime ovvie eccezioni – un rapporto a tempo indeterminato, ma non “ingessato”: controllo giudiziale limitato al licenziamento discriminatorio o di natura disciplinare; nel caso di licenziamento per motivi economici od organizzativi, un indennizzo crescente con l’anzianità di servizio; un consorzio o ente bilaterale finanziato e gestito dalle stesse imprese si prende in carico il lavoratore licenziato con un “contratto di ricollocazione” che garantisce un’assistenza integrale “alla danese”. Grande flessibilità, dunque, per le imprese disposte a farsi carico per intero del costo sociale dell’aggiustamento industriale, coniugata con un lavoro di serie A per tutti i new entrants.
Il finanziamento del consorzio o ente bilaterale – se questo funzionerà appena decentemente ‑ potrà consistere in un contributo medio dello 0,5 per cento delle retribuzioni dei nuovi assunti, con un meccanismo bonus/malus che faccia variare il contributo a seconda del maggiore o minore ricorso ai licenziamenti da parte di ciascuna azienda (per ulteriori dettagli rinvio al sito www.pietroichino.it). Si obietterà che i servizi nel mercato del lavoro “alla danese” in Italia non sono facili da realizzare; ma se il sistema sarà finanziato dal gruppo di imprese firmatarie del “contratto di transizione”, queste saranno fortemente incentivate a farlo funzionare bene, in modo che i periodi di disoccupazione si riducano e con essi si riduca la durata dei trattamenti dovuti ai lavoratori che avranno perso il posto. Alle imprese il compito di metterci il know-how e l’efficienza gestionale, al sindacato quello di controllare che il rigore rispetti l’equità e la parità di trattamento.
Ecco il nuovo ruolo che il sindacato oggi può svolgere per gli outsiders: rappresentarli e tutelarli nel superamento del vecchio sistema duale, nella transizione a un regime di flexicurity. Quanto al ruolo della politica in questo passaggio, la domanda è: se nel febbraio prossimo la conferenza programmatica del PD lancerà questa sfida, che cosa risponderanno Governo e maggioranza? Continueranno a coltivare l’idea che “chi tocca l’articolo 18 muore”? Continueranno nella vecchia politica volta a rosicchiare ancora un po’ di flessibilità nell’area del lavoro precario? O apriranno con l’opposizione una discussione sul nuovo diritto del lavoro di cui il Paese ha urgente bisogno?

2 commenti:

Andrea ha detto...

nel mio ufficio hanno scioperato 5 persone su 175. Mi sembra difficile rivendicare qualcosa. Non so le altre percentuali ma credo che questo tipo di sindacato non possa difendere nessuno.

Anonimo ha detto...

Bisognerebbe che il PD avesse già iniziato a chiarirsi le idee e proponesse soluzioni concrete, magari ascoltando Ichino che ne fa parte a pieno titolo.
Io ho scioperato contro la cancellazione dell'art. 18, non perchè sia contraria agli argomenti anche ora indicati, ma perchè prima si cancellavano le tutele e poi, molto poi, forse, molto forse, sarebbe arrivata una riforma accettabile. Si sbrighi il PD a presentare una piattaforma di revisione, concordandola in primis con la CGIL. A quel punto CISL e UIL non potranno che concordare, visto che già la chiedono.