giovedì 30 dicembre 2010

Relazioni industriali da riformare per uscire dalla crisi

Documento sottoscritto da Augusto Barbera, Antonello Cabras, Stefano Ceccanti, Sergio Chiamparino, Paolo Giaretta, Pietro Ichino, Claudia Mancina, Ignazio Marino, Enrico Morando, Alessia Mosca, Magda Negri, Nicola Rossi, Francesco Tempestini, Giorgio Tonini, parlamentari del Pd - 30 dicembre 2010. 
A più di sessant’anni dall’abrogazione dell’ordinamento corporativo e dall’entrata in vigore della Costituzione, il sistema italiano delle relazioni industriali è ancora privo di una cornice compiuta di norme di fonte statuale, attuativa di quanto previsto dall’articolo 39 della Carta; ma è anche privo di una cornice compiuta di norme di fonte collettiva. Tale esso è rimasto anche dopo l’Accordo di concertazione del 23 luglio 1993, pur decisivo per l’accesso del Paese al sistema dell’Euro: quello stesso Accordo, infatti, rinviava a interventi legislativi, anche di livello costituzionale, in materia di contrattazione collettiva e relativa efficacia, che non sono stati poi attuati.
Qui il resto del postResta in particolare largamente indeterminata la disciplina di materie di importanza cruciale, in un regime come il nostro di pluralismo sindacale, quali quelle
- della misurazione della rappresentatività di ciascun sindacato nei luoghi di lavoro,
- dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi,
- dei rapporti tra contratti collettivi di diverso livello,
- dell’esercizio del diritto di sciopero,
- dell’efficacia della clausola di tregua sindacale,
le quali attualmente sono oggetto soltanto di orientamenti giurisprudenziali resi incerti dall’assenza di qualsiasi disciplina di fonte legislativa o collettiva.
Nell’ultimo decennio si è aperta una crisi del sistema, che è venuta progressivamente aggravandosi. È la crisi di un “modello contrattuale” affermatosi nei fatti, che per le sue caratteristiche strutturali produce un effetto depressivo sui livelli retributivi: a) ancorando i livelli della parte più forte e dinamica del tessuto produttivo nazionale a quelli della parte più debole; b) ostacolando gli investimenti stranieri abbinati a piani industriali innovativi. Quest’ultimo effetto è conseguenza della mancanza di un criterio che consenta di dirimere il dissenso tra i sindacati, quando esso si manifesta in sede aziendale nella negoziazione di piani industriali innovativi: questa situazione di anomia produce una marcata vischiosità del sistema di relazioni industriali, attribuendo di fatto un potere di veto alle formazioni minoritarie. La vicenda del progetto Fiat per la “Fabbrica Italia” ha posto in evidenza questa vischiosità e i difetti dell’ordinamento attuale che la determinano, rendendo l’opinione pubblica consapevole dei costi altissimi che ne derivano per il Paese, in termini di chiusura agli investimenti delle grandi multinazionali.
Superare questa vischiosità del sistema delle relazioni industriali è indispensabile per un Paese come il nostro la cui crescita economica è bloccata da molti anni e che non dispone di altra leva, per tornare a crescere, che quella dell’aumento drastico del flusso degli investimenti provenienti dall’estero. Effetti depressivi su quel flusso sono esercitati anche da altre cause strutturali, quali i difetti delle nostre amministrazioni pubbliche e delle nostre infrastrutture, i costi più alti che altrove dei servizi alle imprese dovuti a difetto di concorrenza dei rispettivi mercati; ma una fluidificazione del nostro sistema delle relazioni industriali può avere un effetto positivo sul flusso degli investimenti in entrata anche prima che gli altri difetti vengano efficacemente corretti.
In particolare, è necessario aprire spazi – assai più ampi degli attuali – di valutazione degli scostamenti rispetto ai modelli nazionali di organizzazione del lavoro, struttura delle retribuzioni, articolazione dei tempi di lavoro, portati dai nuovi piani industriali, nella consapevolezza che non giova a nessuno, né imprese né lavoratori, un sistema chiuso, per paura delle innovazioni cattive, anche alle innovazioni buone. È dunque questo il filo che proponiamo di tirare subito per avviare nel Paese un grande processo di modernizzazione.
La via maestra per il riassetto del sistema delle relazioni industriali dovrebbe essere quella di un accordo interconfederale sottoscritto da tutte le confederazioni imprenditoriali e sindacali maggiori, nel quale le cinque materie cruciali indicate sopra trovino compiuta disciplina: compito della legge, a quel punto, sarebbe soltanto quello di intervenire a sostegno dell’efficacia dell’accordo sindacale. Dove, però, il sistema mostri di non essere in grado di dotarsi di questa cornice di norme universalmente condivise, determinando il rischio di paralisi, spetta al legislatore intervenire in via sussidiaria e provvisoria, con una normativa snella, che sia il meno possibile intrusiva e il più possibile volta a rafforzare l’autonomia collettiva. L’obiettivo non è sottrarre materie alla libera contrattazione. Al contrario: si tratta di cambiare forme, protagonisti e tempi della contrattazione, per renderla più penetrante, pervasiva ed efficace.
Un esempio di come questa normativa legislativa può essere delineata è offerto dal disegno di legge n. 1872, presentato da 55 senatori del Pd nell’autunno 2009, il cui contenuto può sintetizzarsi come segue:
1. una disciplina molto semplice e lineare della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro consente di individuare il sindacato o coalizione sindacale titolare della maggioranza dei consensi, al livello aziendale e ai livelli superiori fino a quello nazionale;
2. a questo sindacato o coalizione viene attribuito il potere di stipulare un contratto collettivo ivi compresa la clausola di tregua in riferimento alle materie regolate nel contratto stesso con efficacia generale nell’ambito di sua competenza;
3. il contratto collettivo nazionale stipulato dal sindacato o coalizione maggioritaria resta la disciplina applicabile per default in tutta la categoria che il contratto stesso definisce;
4. è fatta, però, salva la possibilità che a un livello inferiore regionale o aziendale un sindacato o coalizione maggioritaria stipuli efficacemente un altro contratto di contenuto diverso, che in tal caso prevale sulla disciplina collettiva di livello nazionale;
5. qui il progetto prevede che si attivi un “filtro” ulteriore, per limitare la derogabilità del contratto nazionale da parte di quello di livello inferiore: il requisito che il sindacato stipulante in deroga sia radicato in almeno quattro regioni (ma si possono utilizzare e anche combinare tra loro tecniche di limitazione diverse, con diverso grado di restrittività).
Come la relazione al disegno di legge n. 1872/2009 avverte, la parte della riforma riguardante l’efficacia erga omnes del contratto collettivo nazionale richiede una riforma degli ultimi tre commi dell’articolo 39 della Costituzione. Nulla vieta tuttavia che, in attesa di questa modifica costituzionale, si escluda dalla nuova disciplina legislativa la (sola) materia dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi nazionali, limitando la riforma alle materie della rappresentanza sindacale nei posti di lavoro, alla contrattazione collettiva aziendale (ivi compresa la clausola di tregua) e ai suoi rapporti con il contratto collettivo nazionale: tutte queste materie, infatti, sono esenti dal vincolo risultante dagli attuali ultimi tre commi dell’articolo 39 della Costituzione.
Lettera di Pietro Ichino pubblicata sul Corriere della Sera il 30 dicembre 2010

1 commento:

stefano ceccanti ha detto...

ci sono degli errori nell'elenco finale dei nomi: quello giusto e corretto lo puoi prendere ora da Ichino o dal mio blog stefano ceccanti