sabato 25 dicembre 2010

Pietro Ichino, relazioni industriali e lavoro

Intervista al senatore Pietro Ichino a cura di Matteo Spicuglia, in corso di pubblicazione sul mensile torinese Nuovo Progetto, gennaio 2011
Il lavoro è il suo pane. Gli studi, il sindacato, la professione di avvocato e docente universitario, la politica. Pietro Ichino è oggi uno dei giuslavoristi più apprezzati, senatore del Partito democratico dal 2008, stimato anche nel centrodestra. Da anni vive sotto scorta dopo le minacce delle Brigate Rosse, per le sue posizioni in materia di riforma del mercato del lavoro. Ichino invoca meritocrazia, meno rigidità, tempo indeterminato per tutti, sfatando però il mito dell’inamovibilità. “Il problema italiano – spiega - è sicuramente un problema di difetto di capacità di crescita: siamo quasi fermi ormai da quindici anni. Ma c’è anche un problema di cattivo funzionamento del mercato del lavoro, dovuto sia a difetto dei servizi, sia a difetto del nostro ordinamento giuridico del lavoro”. Un aspetto che frena anche gli investimenti stranieri nel nostro Paese.

Perché?
La nostra legislazione del lavoro è lontana dagli standard internazionali, astrusa, non traducibile in inglese. Inoltre, abbiamo un sistema di relazioni industriali inconcludente, oltre che tendenzialmente chiuso ai piani industriali innovativi. Correggere questi ultimi difetti è tecnicamente possibile in tempi brevi e a costo zero.

In che modo?
Il 10 novembre scorso il Senato ha approvato quasi all’unanimità – 255 voti favorevoli, solo 26 tra contrari e astenuti – una mozione che impegna il Governo a varare un Codice del lavoro unificato e semplificato, ispirato al modello della flexsecurity nordeuropea, secondo il progetto delineato in un mio disegno di legge presentato nel novembre 2009: tutta la legislazione nazionale sul rapporto di lavoro in 70 articoli. Sarebbe un passo avanti di grande importanza.

Qual è il nocciolo della sua proposta?
Delinea un regime che si può riassumere così: d’ora in poi, tutti a tempo indeterminato, anche se nessuno inamovibile. A tutti, invece, nel caso di perdita del posto di lavoro, una garanzia di sostegno del reddito crescente con l’anzianità di servizio, di continuità della contribuzione previdenziale e di assistenza efficace nel mercato, secondo il modello della flexsecurity nordeuropea. Per i dettagli devo rinviare al “Portale della Semplificazione e della Flexsecurity” che si trova nel mio sito http://www.pietroichino.it/.

La flexsecurity sarebbe una risposta anche al problema del precariato?
Il fenomeno del “precariato” non è che l’altra faccia della rigida stabilità dei rapporti di lavoro “regolari”. Il rapporto di lavoro di serie A, quello caratterizzato da un forte tasso di stabilità, è stato disegnato mezzo secolo fa, quando era normale che un giovane entrasse in un’azienda a 18 anni con una determinata mansione e con la prospettiva di conservare per 30 o 40 anni quella stessa qualifica in quella stessa azienda. Da allora è cambiato tutto. La tecnologia, ma anche la rapidità dell’evoluzione delle tecniche produttive e degli stessi prodotti, il ritmo di avvicendamento delle imprese nel tessuto produttivo. È aumentata l’incertezza cui qualsiasi imprenditore deve far fronte circa il futuro della propria azienda, non soltanto a lungo termine, ma anche nell’orizzonte dei due o tre anni. Da qui, il suo tendenziale rifiuto, nelle nuove assunzioni, verso un tipo di rapporto di lavoro troppo rigidamente stabile.

Il risultato è la spaccatura tra una generazione di adulti ipertutelati e una generazione di giovani all’opposto. Quale può essere il punto di equilibrio?
Lasciamo pure quello che oggi è il rapporto di lavoro “regolare” agli ormai pochi – meno di metà del totale dei lavoratori dipendenti italiani – che oggi ne godono; ma ridisegniamo il diritto applicabile a tutte le nuove assunzioni in modo da renderlo più adatto al nuovo contesto, e al tempo stesso più universale. In modo, cioè, da garantire il superamento graduale dell’attuale apartheid fra protetti e non protetti.

Il lavoro è una questione di diritti, ma anche di doveri. Quali sono quelli da mettere al centro?
I doveri sono quelli di sempre: lealtà e correttezza reciproca, adempimento della prestazione da entrambe le parti con la diligenza con cui lo si farebbe nei confronti di un figlio o di un coniuge cui si vuol bene. Non è una esagerazione: è la “diligenza del buon padre di famiglia” di cui parla da sempre il diritto civile. Ma oggi, nell’era della globalizzazione occorre qualche cosa di più: la disponibilità a scommettere insieme sull’innovazione. Carlo Darwin diceva che non è la specie più forte che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più ricettiva nei confronti degli stimoli al cambiamento.

Anche nel mondo economico?
Certo. L’impresa più forte è quella in cui, per un verso, l’imprenditore è più credibile agli occhi dei propri dipendenti, perché più trasparente e affidabile sul piano dell’etica degli affari. Per altro verso, il sindacato è più capace di operare come “intelligenza collettiva” dei lavoratori nella valutazione del piano industriale innovativo e, se la valutazione è positiva, nella stipulazione della scommessa comune con l’imprenditore su di esso.

In Italia, la “meritocrazia” è sulla bocca di tutti ma la realtà dei fatti è diversa. Quanto contano le regole e quanto un cambiamento di mentalità?
Contano sia le regole, sia la mentalità. Le regole: ci riempiamo la bocca di “meritocrazia”, ma ben pochi si rendono conto dell’incompatibilità di questo valore con l’inamovibilità dei lavoratori, soprattutto pubblici ma anche privati. La mentalità: ben pochi si rendono conto dell’incompatibilità di questo valore con il rifiuto drastico della valutazione individuale, che caratterizza la nostra cultura sindacale dominante.

In più occasioni, lei ha detto che in Italia non manca tanto la domanda di lavoro, quanto l’offerta. C’è un difetto dei servizi di formazione?
C’è anche un problema di difetto di domanda, riconducibile alla nostra chiusura agli investimenti stranieri. Ma si dimentica troppo sovente la gran quantità di posti di lavoro qualificato che non vengono coperti per mancanza di manodopera idonea disponibile. Questo è dovuto non soltanto a un difetto dei servizi di formazione professionale, ma anche – e forse ancora di più – a un difetto grave dei servizi di orientamento scolastico e professionale. Oggi una parte consistente della disoccupazione giovanile è imputabile a quest’ultimo difetto.

Cosa consiglierebbe a un giovane che si affaccia al mondo del lavoro?
Gli consiglierei innanzitutto di allungare il più possibile il suo raggio di mobilità: le occasioni di lavoro aumentano in ragione quadratica del raggio di mobilità del lavoratore. Poi gli consiglierei di cercare un buon servizio di orientamento, offerto da una delle tante grandi agenzie di collocamento, che sono tenute a operare gratuitamente nei confronti dei lavoratori. Farsi fare un bilancio oggettivo delle competenze e farsi indicare gli obiettivi occupazionali realisticamente perseguibili, nel suo caso specifico, con i rispettivi percorsi di formazione e addestramento. È quello che ho sempre consigliato ai miei studenti e in venticinque anni di insegnamento non ne ricordo uno solo che in questo modo non abbia trovato un lavoro soddisfacente. Tanto più soddisfacente quanto più sono stati disposti a estendere il raggio della ricerca.
Editoriale di Pietro Ichino del 27 dicembre 2010
Intervista Il Giornale

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