lunedì 2 agosto 2010

Irene Tinagli e Pietro Ichino sulla riforma universitaria

Editoriale di Irene Tinagli pubblicato su la Stampa il 30 luglio 2010
Dopo tante polemiche e dopo tanta pazienza, Mariastella Gelmini finalmente esulta. E ha molte ragioni per farlo.
La sua Riforma è stata approvata ieri in Senato, con un impianto sostanzialmente integro, non stravolto dalle centinaia di emendamenti che rischiavano di snaturarlo completamente. Ma l’approvazione del ddl non è solo un ottimo successo per il ministro, ma anche, nel complesso, un buon passo avanti per l’Università Italiana.
Alcune delle misure introdotte rappresentano delle innovazioni «culturali» sicuramente di rilievo, perché per la prima volta si introduce l’idea di valutazione sia sulle attività degli Atenei che sulle attività dei singoli docenti, anche i professori quelli già inseriti nel sistema. Le valutazioni non sono drastiche e mieteranno forse meno vittime del previsto, ma intanto viene introdotto nel sistema il «germe» della valutazione, del «merito», quel cambiamento culturale che per anni è stato oggetto di tanta retorica e annunci, ma rarissime azioni concrete.
Il decreto prevede numerose novità anche nella gestione e nella governance accademica, ma il punto che ha suscitato maggiori polemiche e che più tende a rompere vecchie logiche di funzionamento è quello che riguarda la figura dei ricercatori, che diventano a tempo determinato, per un massimo di 6 anni (quindi niente più ricercatori a vita), e le procedure di assunzione dei nuovi professori, che passeranno tutte attraverso un concorso di abilitazione nazionale (con commissione tirata a sorte) di fronte al quale ogni concorrente sarà trattato alla pari. Nessun favoritismo o priorità per chi è già nel sistema, magari da anni, nessuna ope-legis: tutti uguali di fronte al concorso. Certo, una volta ottenuta l’abilitazione, si entra in una lista unica e le Università sono libere di chiamare e dare priorità a chi vogliono all’interno di tale lista, ma per facilitare la mobilità è l’immissione di «esterni» il decreto prevede che tra i nuovi assunti di ciascuna Università ci sia una quota minima (un terzo per i professori di prima fascia) di persone che non erano già nell’Ateneo in questione.
L’introduzione di queste «quote outsider» mette forse un po’ di tristezza, facendoli apparire quasi come specie da proteggere, ma visto come sono andate le cose fino ad oggi, appare l’unico modo per arginare vecchie pratiche di assunzioni «incestuose» dentro gli Atenei. Queste regole sull’assunzione saranno ancora più efficaci se saranno veramente abbinate a tutte le misure citate dall’articolo 5 del decreto, in cui si prevedono valutazione e premi per le università che avranno effettivamente seguito criteri aperti e internazionali nell’assunzione dei nuovi docenti, nonché’ valutazioni regolari delle attività dei docenti anche dopo che sono stati assunti. Tali misure purtroppo sono solo citate nel decreto e demandate a successivo decreto attuativo del Governo, ma, se attuate secondo le modalità e gli indirizzi indicati nel decreto, rappresenterebbero una mezza rivoluzione e renderebbero molto più completa la Riforma.
Nel complesso, questo insieme di nuove regole, se riuscisse a passare indenne anche l’approvazione della Camera e venire poi supportata da buoni decreti attuativi, potrebbe davvero incoraggiare gli studenti più bravi a perseguire la carriera accademica e forse anche a convincere molti «cervelli» italiani emigrati all’estero a tentare la strada del rientro.
C’è un solo pezzo che manca, di cui nessuno parla, ovvero l’apertura del sistema non solo ai giovani italiani, ma anche a quelli stranieri. Su quel fronte la nuova riforma difficilmente potrà far fare grossi progressi. Il sistema ancora in piedi dei concorsi nazionali (in quale lingua?), con relativi iter burocratici, gazzetta ufficiale e così via, per non parlare dei salari ancora bassi, assai poco competitivi nel panorama internazionale, così come i fondi di ricerca ridotti all’osso non renderanno il nostro nuovo sistema universitario particolarmente attraente per gli stranieri. Quindi, anche se gli Atenei avranno incentivi all’internazionalizzazione del loro corpo docenti, difficilmente riusciranno ad attrarre docenti dall’estero, soprattutto i più bravi. Ad ogni modo, c’è da sperare che, una volta create le condizioni di un mercato interno più funzionale, meritocratico e trasparente, il resto si possa costruire su su. Insomma, un passo forse non totalmente sufficiente, ma certamente necessario.

Editoriale di Pietro Ichino per la Newsletter n. 114 - 2 agosto 2010
Nella home page di questo sito compare stabilmente, fin dalla sua nascita, il patto sulla base del quale due anni e mezzo fa accettai la candidatura al Parlamento nelle liste del Pd: lealtà verso il partito nel voto in Aula e in Commissione, lealtà verso lettori ed elettori nel dire sempre tutto quello che penso, anche se in contrasto con la linea del Partito. A questo patto mi sono attenuto nella discussione in Senato sul disegno di legge della ministra Gelmini: ho votato, secondo le indicazioni del mio gruppo, contro il disegno di legge; ma ho il dovere di chiarire che, se fosse dipeso solo da me, avrei votato a favore. A me sembra – e su questo mi trovo, per questa e questa sola volta, a concordare con la posizione assunta in Senato da Francesco Rutelli e dalla sua Alleanza per l’Italia – che la riforma muova nella direzione giusta sia con l’introduzione della valutazione sugli Atenei e sui singoli professori e ricercatori, sia con la previsione dell’assunzione a termine dei ricercatori e del principio up or out (“alla scadenza del contratto, o vieni promosso, o vai a lavorare nella scuola media superiore, utilizzando il titolo acquisito”), sia con la nuova disciplina dei concorsi, sia infine con la nuova ripartizione delle prerogative di governo degli Atenei fra senato accademico e consiglio di amministrazione, con maggiore spazio ai finanziatori esterni. I motivi di questa mia opinione sono – a grandi linee – gli stessi che si trovano espressi nell’editoriale di Irene Tinagli sulla Stampa di venerdì scorso e in quello della stessa economista del 24 luglio, ma anche negli editoriali di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 22 luglio scorso e di Michele Salvati sullo stesso quotidiano del giorno dopo.
C’è il problema dei tagli economici recati dalla manovra di Tremonti, i quali certo soffocano la nostra Università. Ma se questa fosse capace finalmente di stanare, attraverso un rigoroso processo di valutazione, tutti i professori che da decenni non aggiornano i propri corsi, o che li scaricano sui propri ricercatori e assegnisti, così come tutti i professori o ricercatori che da anni non producono alcun contributo scientifico apprezzabile, se l’Università incominciasse a individuare ed eliminare queste situazioni di vera e propria rendita parassitaria, essa potrebbe recuperare risorse molto superiori rispetto a quelle che i tagli di Tremonti le tolgono. Gli strumenti per fare questo in parte già ci sarebbero, se presidi e rettori esercitassero fino in fondo le proprie prerogative; in parte vengono rafforzati dal disegno di legge Gelmini. Sono ancora insufficienti? Rivendichiamo maggiore incisività e determinazione. Ma non è questo un buon motivo per opporci al primo passo che viene compiuto, con questo disegno di legge, in una direzione che mi sembra proprio quella giusta.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Mi sembra che il problema sia un altro. Sul DDL il Governo non aveva alcuna intenzione di migliorare il testo: marcia a tappe forzate, poi tutti in vacanza per due settimane.

A me sembra che la cosa migliore sia fare affondare questo DDL pasticciato, sperando di poter ripartire con un Ministro piu' competente.

O perlomeno con un Ministro che non sia patentemente in malafede: si veda, per esempio, le mistificazioni documentate qui

http://unimediapisa.wordpress.com/2010/10/22/il-vello-doro/