La scelta fra i tre candidati alla segreteria nazionale non è facile. Non è facile sulla base delle tre mozioni congressuali, in larga misura condivisibili e spesso sovrapponibili nella loro (inevitabile) genericità: data la natura di questi documenti, sottolineare frasi più o meno felici, affermazioni più o meno efficaci, reticenze o silenzi più o meno sapienti, è un modo di selezione poco affidabile. Un criterio migliore sarebbe quello di guardare alle storie dei dirigenti che si sono schierati per ognuno dei tre candidati: sono storie note, che raccontano di scelte (e non scelte) effettive e rivelano convinzioni e atteggiamenti più significativi di qualsiasi dichiarazione programmatica. Ma anche utilizzando questo criterio il giudizio continua a restare difficile. Come ricordiamo tutti, quasi l’intera nomenclatura dei due partiti costituenti si era schierata a suo tempo per Veltroni, anche quella parte che certamente non condivideva le idee da lui esposte al Lingotto, cosa che non poco ha contribuito alla confusione e alle incertezze successive.
Ora la nomenclatura si è divisa più nettamente di allora tra i due principali candidati, ma le linee di divisione non sono affatto chiare.
E’ una fortuna, ed è un successo del progetto PD, che la linea di divisione non sia più quella delle vecchie provenienze partitiche e neppure quella, ancor più insidiosa, tra credenti e non credenti (è priva di senso la contrapposizione tra laici e cattolici: un credente cattolico del nostro partito dovrebbe essere, ed è di solito, altrettanto laico di un non credente quando si tratta di distinguere tra la sfera della politica e delle istituzioni e quella delle convinzioni morali e religiose). Qual è allora la linea di demarcazione, quella che spiega perché Bindi e Letta stanno con Bersani, mentre Rutelli e Fassino stanno con Franceschini? E’ forse quella tra un atteggiamento di riformismo più liberale ed uno più socialdemocratico? In parte forse si, ma non quadra del tutto né con i nomi che abbiamo appena fatto, né con i testi delle mozioni. Calcoli di carriera, situazioni locali, legami contingenti, ragioni di opportunità le più varie confondono le acque, e poi una parte non piccola delle personalità più significative non si sono ancora schierate. E allora? Una qualche ragione deve pur esserci che spieghi schieramenti così insoliti, nonché le perplessità di tanti. A mio modo di vedere una ragione c’è, anche se certamente non è l’unica ed è offuscata da dichiarazioni tattiche dei candidati e dei loro principali sostenitori. Scusandomi con Marino –non è segno di scarsa considerazione- per ragioni di chiarezza mi limito ai due candidati che hanno maggiori probabilità di successo. E avverto che la nostra è una interpretazione, che probabilmente né Bersani, né Franceschini accetterebbero per intero.
“Diamo un senso a questa storia”, la storia del PD -afferma Bersani- dimenticando forse che Vasco Rossi aveva aggiunto: “perché un senso questa storia non ce l’ha”. Questa è una battuta, naturalmente, ma dei due candidati a me sembra che effettivamente Bersani sia quello che muove le critiche più radicali alle scelte operate nel recente passato. Non soltanto alla brevissima vicenda del PD –neppure due anni- ma all’intera storia che dall’Ulivo ha condotto al PD, e alle convinzioni sulle quali questo partito è stato costruito. Un partito di iscritti e di elettori. Aperto a primarie per la scelta dei candidati a cariche istituzionali, ma anche al coinvolgimento degli elettori nella scelta finale dei suoi dirigenti. Un partito che raccoglie, fonde e soprattutto adegua e rinnova tutte le grandi tradizioni riformistiche. E un partito grande, che si vuole misurare con un suo candidato Premier in un confronto bipolare. Vocazione maggioritaria non significa “correre da solo”, ma esprime una ambizione egemonica all’interno della coalizione, se questa è necessaria per vincere. Critiche alla segreteria Veltroni possono e debbono essere fatte. Ma la mozione originale di Bersani, la storia e molte dichiarazioni di suoi autorevoli sostenitori, significativi consensi da parte dell’UDC, hanno fatto sorgere in me la preoccupazione che le critiche non riguardino solo le discutibili scelte tattiche del recente passato, ma la stessa linea strategica, lo stesso impianto culturale sul quale il PD è stato costruito e che ho appena riassunto in modo sommario.
La mia preoccupazione è che il PD guidato da Bersani –per ora costretto in un contesto bipolare dalla legge elettorale voluta dal PDL- si rassegnerebbe più facilmente del PD di Franceschini a un mutamento di quel contesto, ed anzi lo favorirebbe se si presentasse l’occasione. In questo caso “il senso della storia” sarebbe un ritorno al proporzionale, dove un PD più nettamente “laico” e “di sinistra” lascia il compito di conquistare gli elettori più moderati a un rinnovato e irrobustito partito centrista, neo-democristiano, sperando che poi questo si allei con lui. Per carità, congettura più che legittima. E anche attraente e famigliare per quelli di noi che provengono da tradizioni riformistiche non cattoliche e che provano simpatia vera per la sinistra e i valori che rappresenta. Ci ritroveremmo “fra noi”, e probabilmente ci ricongiungeremmo a compagni che ci hanno lasciato per partiti più radicali, ma che ora dovrebbero aver appreso la lezione e tornare all’ovile. Insomma: basta con la fatica di mediare con le iniziative o le resistenze clericali che talora emergono nel riformismo cattolico! Basta con le auto-limitazioni che ci dobbiamo imporre per non spaventare, se non per attirare, elettori moderati. Similes cum similibus: agli elettori di centro ci pensi un partito di centro. Contenti noi, ancor più contenti Casini e Tabacci.
Ho un po’ colorito le mie preoccupazioni per renderle più evidenti. Per ora resto convinto che un PD guidato da Franceschini corra meno il rischio di un rovesciamento di strategia di un PD guidato da Bersani. E non auspico questo rovesciamento, perché sono anche convinto che –nonostante le difficoltà, gli errori e le sconfitte di questa prima fase- l’intuizione originaria del PD sia ancora feconda, più feconda della comprensibile nostalgia per il calduccio familiare dei vecchi partiti. E’ una intuizione ambiziosa e difficile, che sconta una profonda trasformazione della nostra società e la perdita di senso di molte categorie sulle quali si basavano le distinzioni tra la destra e la sinistra di un tempo, e tra i partiti che le impersonavano. La sinistra riformista, il centrosinistra, è in crisi in tutta Europa. In Italia ci aspetta un compito immenso, in cui tutte le energie culturali e morali di coloro che soffrono per le condizioni in cui Berlusconi ha ridotto il nostro paese devono essere riunite in un unico sforzo, in un unico grande partito. Berlusconi non è eterno, e il bipolarismo dopo Berlusconi sarà una cosa profondamente diversa da quello che è stato sinora. Perché gettare la spugna proprio adesso?
Michele Salvati
Osservazioni di Pietro Ichino e Replica di Michele Salvati
Ora la nomenclatura si è divisa più nettamente di allora tra i due principali candidati, ma le linee di divisione non sono affatto chiare.
E’ una fortuna, ed è un successo del progetto PD, che la linea di divisione non sia più quella delle vecchie provenienze partitiche e neppure quella, ancor più insidiosa, tra credenti e non credenti (è priva di senso la contrapposizione tra laici e cattolici: un credente cattolico del nostro partito dovrebbe essere, ed è di solito, altrettanto laico di un non credente quando si tratta di distinguere tra la sfera della politica e delle istituzioni e quella delle convinzioni morali e religiose). Qual è allora la linea di demarcazione, quella che spiega perché Bindi e Letta stanno con Bersani, mentre Rutelli e Fassino stanno con Franceschini? E’ forse quella tra un atteggiamento di riformismo più liberale ed uno più socialdemocratico? In parte forse si, ma non quadra del tutto né con i nomi che abbiamo appena fatto, né con i testi delle mozioni. Calcoli di carriera, situazioni locali, legami contingenti, ragioni di opportunità le più varie confondono le acque, e poi una parte non piccola delle personalità più significative non si sono ancora schierate. E allora? Una qualche ragione deve pur esserci che spieghi schieramenti così insoliti, nonché le perplessità di tanti. A mio modo di vedere una ragione c’è, anche se certamente non è l’unica ed è offuscata da dichiarazioni tattiche dei candidati e dei loro principali sostenitori. Scusandomi con Marino –non è segno di scarsa considerazione- per ragioni di chiarezza mi limito ai due candidati che hanno maggiori probabilità di successo. E avverto che la nostra è una interpretazione, che probabilmente né Bersani, né Franceschini accetterebbero per intero.
“Diamo un senso a questa storia”, la storia del PD -afferma Bersani- dimenticando forse che Vasco Rossi aveva aggiunto: “perché un senso questa storia non ce l’ha”. Questa è una battuta, naturalmente, ma dei due candidati a me sembra che effettivamente Bersani sia quello che muove le critiche più radicali alle scelte operate nel recente passato. Non soltanto alla brevissima vicenda del PD –neppure due anni- ma all’intera storia che dall’Ulivo ha condotto al PD, e alle convinzioni sulle quali questo partito è stato costruito. Un partito di iscritti e di elettori. Aperto a primarie per la scelta dei candidati a cariche istituzionali, ma anche al coinvolgimento degli elettori nella scelta finale dei suoi dirigenti. Un partito che raccoglie, fonde e soprattutto adegua e rinnova tutte le grandi tradizioni riformistiche. E un partito grande, che si vuole misurare con un suo candidato Premier in un confronto bipolare. Vocazione maggioritaria non significa “correre da solo”, ma esprime una ambizione egemonica all’interno della coalizione, se questa è necessaria per vincere. Critiche alla segreteria Veltroni possono e debbono essere fatte. Ma la mozione originale di Bersani, la storia e molte dichiarazioni di suoi autorevoli sostenitori, significativi consensi da parte dell’UDC, hanno fatto sorgere in me la preoccupazione che le critiche non riguardino solo le discutibili scelte tattiche del recente passato, ma la stessa linea strategica, lo stesso impianto culturale sul quale il PD è stato costruito e che ho appena riassunto in modo sommario.
La mia preoccupazione è che il PD guidato da Bersani –per ora costretto in un contesto bipolare dalla legge elettorale voluta dal PDL- si rassegnerebbe più facilmente del PD di Franceschini a un mutamento di quel contesto, ed anzi lo favorirebbe se si presentasse l’occasione. In questo caso “il senso della storia” sarebbe un ritorno al proporzionale, dove un PD più nettamente “laico” e “di sinistra” lascia il compito di conquistare gli elettori più moderati a un rinnovato e irrobustito partito centrista, neo-democristiano, sperando che poi questo si allei con lui. Per carità, congettura più che legittima. E anche attraente e famigliare per quelli di noi che provengono da tradizioni riformistiche non cattoliche e che provano simpatia vera per la sinistra e i valori che rappresenta. Ci ritroveremmo “fra noi”, e probabilmente ci ricongiungeremmo a compagni che ci hanno lasciato per partiti più radicali, ma che ora dovrebbero aver appreso la lezione e tornare all’ovile. Insomma: basta con la fatica di mediare con le iniziative o le resistenze clericali che talora emergono nel riformismo cattolico! Basta con le auto-limitazioni che ci dobbiamo imporre per non spaventare, se non per attirare, elettori moderati. Similes cum similibus: agli elettori di centro ci pensi un partito di centro. Contenti noi, ancor più contenti Casini e Tabacci.
Ho un po’ colorito le mie preoccupazioni per renderle più evidenti. Per ora resto convinto che un PD guidato da Franceschini corra meno il rischio di un rovesciamento di strategia di un PD guidato da Bersani. E non auspico questo rovesciamento, perché sono anche convinto che –nonostante le difficoltà, gli errori e le sconfitte di questa prima fase- l’intuizione originaria del PD sia ancora feconda, più feconda della comprensibile nostalgia per il calduccio familiare dei vecchi partiti. E’ una intuizione ambiziosa e difficile, che sconta una profonda trasformazione della nostra società e la perdita di senso di molte categorie sulle quali si basavano le distinzioni tra la destra e la sinistra di un tempo, e tra i partiti che le impersonavano. La sinistra riformista, il centrosinistra, è in crisi in tutta Europa. In Italia ci aspetta un compito immenso, in cui tutte le energie culturali e morali di coloro che soffrono per le condizioni in cui Berlusconi ha ridotto il nostro paese devono essere riunite in un unico sforzo, in un unico grande partito. Berlusconi non è eterno, e il bipolarismo dopo Berlusconi sarà una cosa profondamente diversa da quello che è stato sinora. Perché gettare la spugna proprio adesso?
Michele Salvati
Osservazioni di Pietro Ichino e Replica di Michele Salvati
1 commento:
Condivido in tutto per tutto quanto dichiarato da Michele Salvati trovando conforto alle mie riflessioni.Purtroppo però queste considerazioni e soprattutto le conseguenze non emergono chiaramente nelle riunioni precongressuali e tanto meno nei giornali.A qualche mio tentativo di "mettere in guardia" e di ponderare bene le scelte,mi hanno
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