lunedì 8 ottobre 2012

Quale futuro per il Welfare?

Federico Rampini ha pubblicato di recente “Non ci possiamo più permettere uno stato sociale”. Falso” per l’editore Laterza
Molti si sono convinti che il nostro welfare è un lusso, che mantenendo certe conquiste sociali abbiamo "vissuto al di sopra dei nostri mezzi", e che è ora di ridimensionarci. Ma siamo sicuri che sia l'unica alternativa possibile? Siamo davvero sicuri che l'Europa è in declino perché statalista e assistenziale? Chi lo ha detto che lo Stato sociale deve essere smantellato?
La recensione di IBS
La classe non è acqua, dicono. Ma forse il popolare adagio non si riferisce alla classe media, che sembra essersi liquefatta come un ghiacciolo sotto il cielo plumbeo e soffocante del turbocapitalismo mondiale, e oggi non ci resta che star a rimpiangere le conquiste di sessant'anni di Stato sociale mentre queste evaporano davanti al nostro naso.
Il ritornello vola sulle note di un'aria ultimamente molto popolare, partita dagli Stati Uniti e che ha finito per imporsi dappertutto: il fallimento del modello europeo è sotto gli occhi di tutti; non possiamo più permetterci uno Stato sociale.
È falso! Risponde a chiare lettere Federico Rampini, e siccome Rampini è uomo di ottime letture e ancor più solida esperienza, varrà la pena ascoltare quel che ha da dire in merito alla questione. Tanto per cominciare, il dispaccio che il giornalista ci spedisce in forma di libro (e inaugurando con esso una nuova, benvenuta collana Laterza dal sapore fieramente pamphlettistico) arriva direttamente dal ventre della bestia, per così dire, e poggiando su dati freschissimi e di prima mano contribuisce a smantellare un bel po' di luoghi comuni dei quali - a quanto pare - siamo imbibiti ben bene.
Rampini, infatti, vive negli States da più di dieci anni, e a scanso di equivoci introduce immediatamente il lettore ad una comparazione "punto per punto" dei due opposti paradigmi di Welfare: quello americano - come vuole una vulgata di grande successo - è sicuramente un modello più efficiente di quello europeo, che in questi mesi drammatici sta mostrando la corda e confessa tutta la sua inadeguatezza di fronte alla Storia. La Storia maiuscola, quella che sono i vincitori a scrivere.
Ma ne siamo davvero sicuri, chiede Rampini? Perché a fronte di una pressione fiscale solo leggermente inferiore a quella cui siamo sottoposti noi europei, spiega il giornalista, moltissime sono le rinunce imposte al contribuente (e quindi al cittadino) americano. Sanità e istruzione su tutto, com'è noto (negli Stati Uniti una buona assicurazione privata per la sanità costa milleduecento dollari al mese, e sulle rette di un qualunque asilo a Manhattan sarà meglio tacere). Ma anche i trasporti, con una rete ferroviaria carissima e poco efficiente e - soprattutto - un sistema pensionistico drammaticamente inadeguato.
In generale, la frattura fra l'un per cento contro il quale puntano il dito i riottosi di Occupy Wall Street (... a proposito: buon compleanno, ragazzi!) e il resto del mondo sembra aumentare di giorno in giorno, e leggere delle ingerenze in politica con cui la famiglia Walton (proprietaria di Walmart, colosso della grande distribuzione) riesce ad influenzare l'agenda di un qualsiasi governo repubblicano, fa pensare e rabbrividire.
Plutonomia: governo dei ricchi. Una parola con la quale faremmo bene a familiarizzare, e che dovremmo imparare a temere.
Il libero mercato, nella sua accezione più intransigente e selvaggia, ha goduto di ottimi uffici stampa, negli ultimi trent'anni, ed è riuscito nell'intento di screditare qualsiasi modello che non si rifacesse al suo primo e più importante precetto: lo Stato è un vincolo fastidioso all'iniziativa dei privati.
In Europa, naturalmente, facciamo fatica a pensarla così, per aver vissuto storicamente in prima persona tutto il travaglio che ha portato alla nascita degli Stati e al loro consolidamento di istituzioni volte a regolare i rapporti, e ad offrire ammortizzatori per quelle parti di cittadinanza più esposte e vulnerabili. Già. Però oggi il mondo è cambiato, ci viene detto, e certamente c'è più di un seme di verità in questa constatazione. Ma - è ancora Rampini a suggerire - siamo sicuri che le risposte che stiamo fornendo a questo cambiamento siano quelle giuste?
L'analisi condotta dal giornalista è ampia e articolata, a dispetto delle esigue dimensioni del libro, e la forza della confutazione del pensiero unico dominante (quello riassunto nel titolo del libro) sta nel fatto che l'autore pone più domande che risposte, rivendicando però la fondamentale giustezza di un'intuizione sulla quale l'Europa ha immaginato sé stessa, e che è stata fin troppo pronta a rinnegare. Siamo ancora in tempo, ma non c'è tempo da perdere.
A cura di Wuz.it

Leggi tutto...

Pietro Ichino sull’assemblea del PD

Perché Renzi avrebbe fatto meglio ad esserci all’Assemblea nazionale del PD
“Matteo Renzi aveva due motivi per non partecipare all’Assemblea nazionale, sabato all’Ergife. Uno formale: lui avrebbe potuto partecipare soltanto come osservatore, senza diritto di voto. Uno sostanziale: queste assise di partito sono sovente soltanto una passerella per i notabili e un luogo di ritrovo di quell’”apparato” che il sindaco di Firenze notoriamente non ama. Ma sabato all’Ergife non c’era solo questo: c’erano 615 rappresentanti veri dell’unico grande partito vero di cui oggi il nostro Paese disponga. Un partito impegnato a trovare – e, mi sembra, questa volta lo ha trovato – il giusto equilibrio tra la democrazia “interna”, quella delle centinaia di migliaia di iscritti, e la democrazia “esterna”, quella dei milioni di elettori. Certo, Renzi predilige il rapporto diretto con questi ultimi, gli elettori; ma sa pure che, se il 25 novembre prossimo i suoi molti supporters potranno esprimere il loro voto per lui, questo avverrà perché c’è un grande partito incarnato da iscritti, militanti e dirigenti, che sabato ha scelto di rendere contendibile la propria leadership dando vita a elezioni “primarie” davvero aperte. Questo è il motivo per cui Matteo non perde occasione per ripetere che, anche se perderà, il Pd resterà il suo partito; ed è sincero nel dirlo. Questo, però, è anche il motivo per cui avrebbe fatto meglio, sabato, a venire all’Ergife, anche soltanto nella veste, che per ora gli è data, di osservatore”.
In un precedente editoriale Ichino dichiara: “Nella palude attuale della politica italiana, il Pd oggi per merito del suo leader ha scelto di mettere la barra del timone in mano ai propri elettori, mostrando di aver capito che un partito non può riconquistare la fiducia della gente se esso stesso della gente ha paura. Ce ne sarebbe quanto basta per dire: “questo Bersani merita di vincere le primarie!”… se non ci fosse un neo nella sua relazione introduttiva all’Assemblea nazionale e nelle sue conclusioni. Non una sola parola su di una questione cruciale: come si può pensare di costruire una coalizione di governo credibile, che fa sua la strategia europea disegnata da Mario Monti, avendo come principale alleato un partito – SEL – che ogni giorno indica quella stessa strategia come la rovina del Paese e compie scelte concrete che vanno in direzione opposta? Se vuole vincere le primarie, il segretario del Pd deve trovare qualche cosa di convincente da dire su questo punto fondamentale della sua agenda; oppure cambiare rotta al più presto. Ieri all’Ergife su questo punto ha preferito tacere”.
I rapporti con Sel vanno chiariti in quanto Vendola continua a condizionare la posizione politica del Pd a cominciare dal referendum sull’art. 18 e dalla visione europea.

Leggi tutto...

domenica 7 ottobre 2012

Bersani all'assemblea del PD



Alla vigilia  dell’assemblea nazionale del Partito Democratico erano numerose le previsione catastrofiche sui risultati dell’assise: scissione del Pd, trappole per Renzi ed altro. Tali previsioni sono state smentite in modo chiaro ed inequivocabile e grazie alla capacità di Bersani ed alla testimonianza democratica dei membri dell’assemblea si è pervenuti a risultati entusiasmanti nel rispetto della democrazia e della partecipazione.
Alla vigilia dell’assemblea nazionale del Partito Democratico erano numerose le previsione catastrofiche sui risultati dell’assise: scissione del Pd, trappole per Renzi ed altro. Tali previsioni sono state smentite in modo chiaro ed inequivocabile grazie alla capacità ed alla visione democratica di Bersani ed alla testimonianza responsabile dei membri dell’assemblea si è pervenuti a risultati entusiasmanti nel rispetto della democrazia e della partecipazione.
In Facebook vi sono persone che non vogliono credere a quello che vedono e continuano a navigare nell'immaginario che non si concretizza mai e non tengono conto che in Italia da diverso tempo si è formato un elettorato mobile che sceglie di volta in volta e, pertanto, questi elettori non possono essere definiti di destra o di sinistra.
Il consigliere regionale Franco Bonfante nel post di Paola Lorenzetti su Facebook dichiara: “le primarie saranno libere e aperte. Dove e' il problema?”
“Credo che poche persone, dichiara Paola Lorenzetti sostenitrice di Bersani, si sarebbero comportate apertamente e democraticamente come Bersani, permettendo ad altri di competere nonostante ciò che si era già deciso da tempo. Un motivo in più per votarlo per me. Se Casini poi storce il naso per Vendola ... sai che dispiacere!”
Le primarie dovranno svolgersi in piena serenità evitando attacchi scorretti nei confronti dei candidati ed i tifosi devono adottare comportamenti corretti e sobri, come ha raccomandato Bersani, nei confronti di tutti i candidati del Pd.
Renzi si è affidato all’onesta di Bersani e non ha contestato le conclusioni dell’assemblea nazionale del Pd.
Documenti approvati dall'Assemblea
Relazione conclusiva di Bersani

Leggi tutto...

Ripensare il federalismo

Articolo di Roger Abravanel pubblicato sul Corriere della Sera il 7 ottobre 2012
Il governo sta rispondendo agli scandali delle Regioni con norme che tentano di rafforzare i controlli sui bilanci degli enti territoriali e inasprire le sanzioni. Le intenzioni sono giuste ma controllare i 30 mila euro del Suv che Fiorito «Er Batman» ha comprato per la neve a Roma assieme ai 10 miliardi della spesa sanitaria non sarà facile. Ma la risposta del governo Monti agli italiani è il massimo di ciò che si può fare oggi. Le Regioni sono diventate ormai il pilastro del federalismo sostenuto prima dalle sinistre, poi dalla Lega e oggi ancora dai neoliberisti che credono in uno Stato leggero e vicino ai cittadini e invocano un «vero federalismo» ispirandosi a quello degli Stati Uniti.
Ma il federalismo Usa da noi non è fattibile perché negli Usa gli Stati sono nati prima dello Stato federale (come è stato anche il caso dei Cantoni svizzeri) e si sono confederati in un patto (foedus) per la difesa e la moneta. Vantavano una storia e esperienza di governo autonomi. Che non è il nostro caso perché le Regioni non hanno nessuna base storica, un senso di appartenenza ridotto da parte dei loro abitanti, che si vedono semmai come cittadini del loro comune (pensiamo a pisani, livornesi e fiorentini che appartengono alla regione Toscana). Non hanno un’identità linguistica (come avviene invece in Catalogna e nei Paesi baschi) con la sola eccezione dell’Alto Adige, non a caso una delle poche che funzionano. Sono artificiali, più lontane dai cittadini finanche dello Stato centrale, senza peraltro averne i controlli (come il Tesoro e la Corte dei Conti) e la responsabilità nei confronti dei contribuenti perché sono finanziati dallo Stato centrale. Quello che è stato fatto in Italia non è un «federalismo» ma una «devoluzione» dei poteri dello Stato a enti locali, senza nessuna esperienza di autogoverno in epoca moderna (a parte il Piemonte e la Toscana i regni preunitari non coincidevano con le regioni). Questo «federalismo all’italiana» è costato un’enormità al nostro Paese, ben al di là dei rimborsi dei consiglieri regionali.
I costi delle strutture regionali sono esplosi e rappresentano oggi un parte importante e crescente dei costi dello Stato. Si sono moltiplicati i fronti della corruzione e le strutture federali sono diventate terreno fertile di quella cultura del non rispetto delle regole che ha ucciso quel po’ di liberismo che c’era in Italia. Per esempio, la regolazione dell’ambiente è in mano alle Regioni e il disastro va ormai oltre la «monnezza» di Napoli (lo testimoniano Malagrotta a Roma e l’inceneritore di Parma). I fallimenti delle Regioni sono anche nel loro ruolo di fornitori di servizi. La sanità in mano alle Regioni, oltre ai famosi «buchi», ha prodotto enormi differenze tra Nord e Sud: i cittadini del Sud Italia spesso devono migrare al Nord per avere cure decenti e spendono di tasca propria per la sanità più di quelli del Nord. Se il federalismo delle Regioni non ha senso, diverso è il caso dei Comuni. Questi sì che hanno una storia pluricentenaria, sono il vero riferimento sul territorio nel nostro Paese verso i quali i cittadini sentono un forte senso di appartenenza e hanno esperienza di governo. Ma dal 1400 il mondo è cambiato, l’urbanizzazione è irreversibile (ogni settimana la popolazione urbana mondiale aumenta di 1,3 milioni) e la rivoluzione dei trasporti e la nuova sensibilità ambientale rendono la dimensione del comune non più adeguata: non si va più a cavallo, ma in aereo e in treno e i rifiuti non vanno più in discarica ma negli inceneritori. Il ruolo delle città sul territorio è destinato a restare, ma non è detto che i Comuni dei prossimi anni siano quelli del passato. E allora quale federalismo? Responsabilizzare le Regioni con controlli e sanzioni non servirà a granché, come già detto. Peraltro eliminare tout court tutte le Regioni non è proponibile perché è ingiusto imporre ai cittadini con una buona sanità a basso costo (lombardi, toscani, ecc.) di metterla nelle mani di uno Stato che in passato non ha dato grandi prove di servizio pubblico di qualità.
Ci vuole un modello di articolazione territoriale dello Stato meno basato sui principi (il federalismo, il ruolo costituzionale delle Regioni) e più su quello che funziona in pratica.
Ciò che bisogna fare è «nazionalizzare» subito le competenze oggi in mano alle Regioni iniziando da ambiente ed energia, rafforzando e rendendo più indipendenti le authority. Dove fare gli inceneritori lo deciderà lo Stato e non il territorio. Poi sarà necessario trasferire la titolarità delle miriadi di concessioni e la proprietà pubblica delle aziende dei servizi locali dai Comuni e Regioni allo Stato, che successivamente le privatizzerà. E forse alla fine ci libereremo di tante piccole imprese che in passato sono state in mano alla criminalità per vederne nascere qualcuna grande come la francese Veolia. Il «territorio» sarebbe molto diverso da oggi, costruito probabilmente sui Comuni delle grandi città. Vanno create le aree metropolitane, introdotti coordinamenti forti a livello di macroregioni per i temi ambientali: che senso ha l’Ecopass solo a Milano se l’inquinamento proviene da auto che provengono dalla Lombardia? E la politica dei trasporti deve essere fatta a livello nazionale quando ci sono di mezzo degli aeroporti: come concepire lo sviluppo di Fiumicino e Malpensa senza trasporti ottimali dall’aeroporto al centro città?
Anche per la sanità ci vuole un percorso in cui lo Stato recuperi la leadership nel definire gli standard nazionali («livelli minimi di assistenza» e costi) più efficacemente di quanto fatto sinora e commissari le Regioni che sono sotto gli standard. E il commissario deve essere lo Stato, non il presidente della Regione commissariata, come avviene oggi. La Regione che non raggiunge gli standard verrebbe «espropriata» dei suoi poteri, fino allo scioglimento dell’assemblea regionale e il subentro dello Stato in tutte le sue funzioni... La fine del federalismo quindi? No, perché il federalismo vero in Italia non è mai nato, e gli italiani dovrebbero cominciare a occuparsi del federalismo in Europa.

Leggi tutto...

giovedì 4 ottobre 2012

Imprese al femminile nell’Ocse

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 2 ottobre 2012
L'imprenditoria femminile è in rapida crescita in tutti i Paesi Ocse. Negli Stati Uniti le società con titolari donne sono ormai il 40% del totale, danno lavoro a 27 milioni di persone e generano più di un quinto del Pil. Le donne fondano, ogni anno, un numero di nuove imprese doppio rispetto agli uomini. Si tratta, è vero, di piccole iniziative, spesso situate nella residenza della titolare, con pochi dipendenti. Ma prodotti e servizi sono di alta qualità, il tasso di successo è elevato.
Per un volta, l'Italia non fa eccezione. Anzi, le titolari donne sono da noi più numerose che in Francia, Inghilterra e nella stessa Germania. Una interessante ricerca di Confartigianato presentata ieri alla Fondazione del Corriere segnala addirittura una lieve tendenza di crescita anche in tempi di crisi. E mette in risalto molte virtù del fare impresa al femminile: la capacità di delegare, di giocare in squadra, di gestire il multitasking . Virtù che hanno consentito alle donne di far breccia anche in settori high tech , tradizionalmente monopolizzati dagli uomini: un numero ancora piccolo ma crescente di imprenditrici opera nella chimica, nell'elettronica, nell'informatica, nelle telecomunicazioni, nella ricerca e sviluppo.
Certo, avere successo è ancora un percorso a ostacoli, a causa di stereotipi e pregiudizi duri a morire nonché delle difficoltà di conciliare le responsabilità lavorative con quelle familiari. I mariti-padri (in particolare quelli giovani e istruiti) sono oggi disponibili ad impegnarsi di più, tuttavia il grosso del carico domestico ricade ancora sulle donne, anche quando diventano imprenditrici di successo. Per la verità, dalla ricerca di Confartigianato non emerge una domanda acuta di welfare , di servizi sociali, di politiche di conciliazione. La piccola impresa a guida femminile costituisce forse l'ultima frontiera del familismo fai-da-te all'italiana, il massimo grado possibile di «integrazione creativa» tra sfera occupazionale e domestica. Plaudiamo pure all'intraprendenza (a volte eroica) delle nostre tante superdonne «titolari». Ma prepariamo anche il terreno per una più equilibrata configurazione tra lavoro, welfare e famiglia. L'esperienza internazionale ci insegna che dove questo è avvenuto si sono tratti enormi vantaggi non solo sul piano della qualità sociale ma anche della crescita e dell'occupazione.
La via da seguire oggi in Italia per superare i limiti e le contraddizioni del modello familista (conservandone, ovviamente, gli aspetti positivi) è quello di promuovere l'espansione di una nuova e moderna economia dei servizi motech . Si tratta di un neologismo basato su due idee. La prima e più familiare è quella di «tecnologia», in senso lato: i nuovi servizi devono sfruttare al massimo le opportunità offerte dai progressi dell'informatica e della comunicazione. La seconda idea è che il loro scopo deve essere motherly (materno), il «prendersi cura» dei bisogni personali e sociali dei consumatori, di facilitare la loro vita quotidiana (casa, lavoro, imprevisti), di migliorare il loro «star bene» (con se stessi, i familiari, i colleghi, gli amici). In lingua ebraica motek vuol dire «dolcezza»: il neologismo, coniato da uno studioso israeliano, vuole essere anche un richiamo di stile, la sottolineatura di atteggiamenti e modi di fare tipicamente femminili.
Giocando un po' con le parole potremmo metterla così: l'enorme patrimonio di motek che le donne italiane investono oggi all'interno della famiglia deve abbinarsi al loro crescente spirito imprenditoriale per far decollare un articolato e fiorente settore di servizi motech . Negli altri Paesi Ue questo settore è già ben sviluppato, con forti ricadute in termini di occupazione: in Francia quasi un milione di nuovi posti di lavoro negli ultimi sette anni. Qualcuno potrebbe comprensibilmente obiettare: la forza dell'Italia sta nella manifattura, cosa c'entrano i servizi «dolci»? C'entrano: le analisi socioeconomiche dimostrano che questi servizi non sono un lusso, ma (anche) un fattore produttivo, un modo per accrescere la flessibilità lavorativa, la motivazione e la creatività dei dipendenti, l'efficienza del contesto economico.
Il decollo della nuova economia dei servizi va almeno inizialmente sorretto da intelligenti politiche pubbliche, che allarghino l'accesso al credito alle (aspiranti) imprenditrici, che promuovano reti e incentivino fiscalmente il ricorso a prestazioni che le famiglie italiane sono abituate a produrre entro le mura domestiche (in forme spesso sub-ottimali). In tempi di recessione, parlare di queste cose può suonare come una fuga in avanti. Teniamo però presente che in fondo al tunnel non c'è una luce che risplende da sé. Siamo noi che dobbiamo accenderla: con progetti, lungimiranza e tanta intraprendenza.

Leggi tutto...

martedì 25 settembre 2012

Perché ho scelto Bersani

Ho interpellato alcuni esponenti del Partito Democratico che sostengono alle primarie Pierluigi Bersani per conoscere le motivazioni di questa scelta rispetto ad alcune tematiche: giovani, donne, piccole e medie imprese, amministrazione, competenze e rinnovamento. Dalle dichiarazioni sono emersi pensieri e valutazioni molto interessanti ed utili per chi pensa di partecipare alle primarie.
A Matteo Avogaro, segretario di Generazione Democratica di Verona ho chiesto:
Perché i giovani dovrebbero scegliere Bersani alle primarie?
Perché Bersani ha messo al centro della sua proposta il lavoro, e il gioco di squadra. Che sono i due elementi su cui la mia generazione deve puntare per riscattarsi, riconquistare la dignità che le è stata sottratta, ed il diritto a potersi costruire una vita da "adulti". Noi ventenni di oggi siamo cresciuti nell'Italia del berlusconismo, dell'egoismo diffuso, dell'"uomo solo al comando": tutte cose che ci hanno portato nel pieno della crisi in cui siamo ora. E' quindi il momento di dire basta agli uomini della provvidenza, di mettere al centro l'idea di lavorare insieme, e un progetto di crescita economica e sociale che non lasci indietro nessuno, soprattutto i più deboli, tra i quali ci sono le nuove generazioni. Su questi temi Bersani, e la sua squadra di giovani composta da Alessandra Moretti, Tommaso Giuntella e Roberto Speranza, sono una garanzia e un'assicurazione per l'Italia di domani.
Serena Capodicasa, consigliere di circoscrizione di Verona, ha risposto alla seguente domanda:
Alle primarie del centro sinistra, oltre a Bersani e Renzi, si presenta Laura Puppato. Perché hai deciso di sostenere Bersani anziché una donna molto stimata nel Veneto come Laura Puppato?
La stessa domanda potresti farmela su Renzi, visto che ho molto apprezzato alcune sue iniziative come quella fatta a Firenze quest'anno con gli amministratori di tutta Italia, perché è giovane e parla di rinnovamento del Partito, come faccio io. E come lui Laura ha moltissime qualità: vive la politica al femminile, è un nuovo volto che potrebbe dare una scossa al Partito, in maniera più intelligente di come sta facendo Renzi e poi è veneta!
Ma il punto non è questo: non disdegno gli altri candidati ma rifletto su cosa stiamo andando a fare.
Io voglio che il mio Partito vada unito e compatto alle elezioni politiche più importanti degli ultimi 20 anni, delle elezioni in cui il dittatore mediatico di questo Paese non è più politicamente rilevante e in cui la sinistra ce la può o ce la deve fare, diventando protagonista vero dell'amministrazione del Paese. Questo non è possibile in un quadro in cui, prima ancora di decidere la legge elettorale che ci sarà, iniziano a spuntare candidature per le primarie di coalizione, tutte e tre del PD: ricordiamoci che non è un Congresso, ma è il momento in cui bisogna stare tutti a guscio di tartaruga, uniti e spaccare tutto.
Non ho mai avuto la tendenza, in un conflitto specie se intrapartito, di fare la super sponsor del leader scelto, per le cose che ho detto prima: qui non è il leader che conta ma tutto un Partito che deve stare compatto, ora o mai più. E stare compatti riferendosi al Segretario Nazionale del Pd è il migliore dei modi. E poi non guasta il fatto che Bersani sia una persona che a livello istituzionale ha già dimostrato buone capacità, una persona che ha anche capito che dobbiamo smetterla con i compromessi che strizzino sempre l'occhio al liberismo spinto, che ci ha portato fin qua, ma bisogna ricominciare veramente a amministrare il Paese per le persone, non per il soldi.
L'augurio che faccio a tutti è che finite queste primarie "inter nos" si possa veramente essere un'unica "macchina da guerra" che ci faccia vincere queste elezioni, sperando che queste primarie non siano troppo tardi.
Al consigliere della Provincia di Verona Diego Zardini ho posto le seguenti domande:
Lei è un consigliere provinciale molto attento ai problemi del territorio ed ha scelto di sostenere Bersani alle primarie. Il suo ruolo di amministratore ha influito nella scelta di Bersani alle primarie?
Senz'altro essere amministratori locali, in un periodo storico così difficile per le pubbliche amministrazioni, sia sotto il profilo finanziario sia a causa dell'insofferenza dei cittadini nei confronti della politica e delle istituzioni, ci obbliga ad una concretezza e ad un pragmatismo che ci induce a scegliere la miglior proposta di merito. Bersani, da amministratore locale prima, da ministro poi ha già dimostrato di conoscere la macchina statale, di essere in grado di adottare riforme innovative di sicuro impatto positivo per il sistema economico e sociale del nostro paese. Bersani è stato il riformatore più innovativo e concreto degli ultimi decenni. Grazie a lui il mercato ha superato alcune ingessature che ci relegavano in fondo alle classifiche dell'OCSE. Insomma, da amministratore credo fermamente che le proposte mirate di Bersani siano le più concrete ed efficaci per il bene dell'Italia.
Le competenze di Bersani potranno aiutare il paese a superare la crisi e realizzare una maggiore giustizia sociale?
Certamente l'esperienza dimostrata del campo sono una confortante garanzia. Bersani ha avviato una stagione di liberalizzazioni, di quelle che riguardano la vita di tutti i giorni di ogni cittadino. L'impatto sulla qualità della vita ed i riflessi di una maggiore giustizia sociale si sono misurati in passato. Purtroppo l'avvento del governo targato PDL e Lega, ha bloccato ogni passo avanti, anzi ci ha fatti regredire e finire sull'orlo del baratro. Insomma per un governo progressista, riformista ed innovatore c'è ancora tanto da fare e l'Italia ne ha ancora tanto bisogno. Questo governo in grado di risollevare le sorti degli italiani e dell'Italia non può che essere un governo targato PD e Bersani è il più qualificato a raggiungere questo obbiettivo.
Ad Alessandra Salardi, responsabile Impresa e Territorio del Pd di Verona, ho rivolto una domanda che riguarda le sue competenze:
Lei conosce le problematiche delle piccole e medie imprese per la sua provenienza e per l’incarico che ricopre nel Pd di Verona. La strategia di Bersani comprende il sostegno alle piccole e medie imprese che rappresentano circa il 95% delle imprese italiane?
Il Partito Democratico ha una vera passione per l'economia reale: valorizzare il lavoro e sostenere la domanda interna. Il PD è il partito del territorio in tutto il Paese, le piccole imprese diffuse sono l'equilibrio del sistema. E oggi c'è un grande squilibrio nell'economia reale." Queste le affermazioni che il segretario Pierluigi Bersani ha pronunciato a conclusione della Conferenza Nazionale sulla piccola e micro impresa che si è tenuta a Monza nell'ottobre dello scorso anno. Forse un grillo parlante quando, in tempi non sospetti, piú di un anno fa, cercava di riportare l'attenzione della politica ai temi concreti che tutti i giorni preoccupano e assillano le piccole imprese: i tempi dei pagamenti, l'accesso al credito, il pesante carico fiscale, le infrastrutture, la necessità di fare rete. E questo é parlare di lavoro per il 95% delle imprese italiane. Da quella Conferenza di Monza, la prima nel PD, il segretario non ha mai mancato di sottolineare e premere su questi temi nei riguardi del governo Monti. Forse anche perché, con la sua capacità di ascolto, ha fatto proprie le istanze di tutti quegli imprenditori che quel giorno si sono rivolti a lui con le loro testimonianze.
Massimo Lanza che ricopre l’incarico di segretario del Circolo di Caldiero (VR) è stato disponibile a rispondere ad una domanda più politica:
Si tratta di primarie di partito o per la premiership? Lei crede che Renzi sia il vero innovatore perché propone la rottamazione o che Bersani abbia una sua idea per realizzare il cambiamento nel Partito Democratico e nel Governo?
Mi auguro che le primarie possano indicare il candidato primo ministro per la coalizione di centro sinistra. Avranno conseguenze importanti anche all’interno del Partito ed un’ulteriore incertezza deriva, ora, dalla legge elettorale che verrà adottata. Una legge maggioritaria con forte premio di maggioranza, come l’attuale, farà diventare la competizione vere primarie di coalizione.
Renzi ha l’indubbio grande pregio di aver fatto diventare un tema importante per la politica la grande anomalia italiana della eccessiva longevità politica di troppi leader del passato. Da questo punto di vista è un vero innovatore che ha dimostrato anche capacità comunicative che spesso mancano al PD ed ai suoi esponenti.
Ovviamente l’innovazione passa anche da altri aspetti e a me piace citare la partecipazione democratica: in questo campo è il Partito Democratico ad essere il vero innovatore, con la sua capacità di confronto e di condivisione di idee e progetti attraverso un processo di coinvolgimento di tantissimi iscritti, sostenitori e dirigenti.
Bersani impersona, dal mio punto di vista, questa grande capacità di innovazione che ha tempi più lenti e minore visibilità ma permetterà di consolidare nel tempo il ruolo del PD in Italia.

Per approfondire la personalità e le competenze di Pierluigi Bersani si consigliano i seguenti libri:
- Pierluigi Bersani, Per una buona ragione, Laterza, 2011;
- Ivan Scalfarotto, Ma questa è la mia gente, Mondadori, 2012. In questo libro è compresa una conversazione tra Ivan Scalfarotto e Pierluigi Bersani.

Leggi tutto...

Contratto chimici: la Cgil ci ripensa

Articolo di Giulio Sapelli pubblicato sul Corriere della Sera il 25 settembre 2012
L'Italia continua a essere un Paese straordinario, ricco di risorse umane e di solidarietà sociale che fondano la tenuta sia tecnologica sia economica del nostro sistema produttivo e della società tutt'intera. A fronte di un potere politico in trasformazione profonda per la crisi dei partiti e uno scenario economico internazionale sempre più difficile, ogniqualvolta si fa appello alla condivisione e alla partecipazione, l'Italia rivela se stessa. Vien da pensare a quelle tre virtù «penultime» che per Simone Weil dovevano riempire i cuori e informare i comportamenti dei produttori, datori di lavoro e lavoratori: l'umiltà, l'attenzione, il rispetto. Non è fuori luogo richiamare questi valori quando leggiamo le ipotesi di accordo di rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro del settore chimico, firmato il 22 settembre scorso. Accordo importantissimo che si inserisce tempestivamente nel dibattito in atto sulla produttività e a tale dibattito può dare un grande apporto. I tempi in cui quest'intesa è stata raggiunta sono stati rapidissimi: solo due incontri nell'arco di una settimana. E questo grazie a un dialogo tra le parti sociali che fin dal giugno del 2011 è stato continuo, pragmatico e diretto a risolvere i problemi con una mentalità innovativa. Si pensi che al centro del contratto vi è un concetto di produttività fondato sulle capacità personali, sulle buone relazioni industriali e quindi sulla flessibilità organizzativa che da queste discende. La formazione è al centro quindi non solo della produttività, ma anche della capacità del lavoratore di svolgere determinate attività che consentono una flessibilità nella prestazione lavorativa mai punitiva.
Produttività e buona occupazione sono i temi centrali di questo accordo che a mio parere ha un ruolo storico perché fonda il rispetto da parte di tutti delle norme contrattuali sulla qualità delle relazioni industriali e sulla valorizzazione del livello aziendale della contrattazione collettiva, collegando strettamente la competitività dell'impresa con l'informazione e la partecipazione dei lavoratori. Essenziale in questo contratto è il concetto di «occupabilità». Esso si sostanzia delineando un patto di solidarietà generazionale che si fonda sulla disponibilità delle aziende firmatarie a investire su nuove assunzioni di giovani a fronte della disponibilità dei lavoratori anziani occupati a trasformare in vista della pensione il proprio contratto da full time a part time. Ecco un patto sociale intergenerazionale che non solo offre ai giovani l'opportunità di lavorare ma riduce il carico di lavoro delle persone più anziane investendole di una grande responsabilità sociale. Naturalmente questo progetto, secondo un'impegnativa logica della sussidiarietà, chiama a gran voce interventi legislativi necessari per attenuare l'impatto sulle retribuzioni e sul trattamento pensionistico dei lavoratori che potrebbero dare la loro disponibilità a un'uscita anticipata e graduale grazie al part time. Se consideriamo gli aspetti di welfare aziendale e gli aumenti retributivi previsti che sono già tipici delle categorie interessate al contratto vediamo che si delinea davanti a noi un sistema di relazioni industriali fortemente innovativo per il nostro Paese e che si allinea alle esperienze internazionali «comunitarie» delle altre nazioni. Inoltre, per dirla in termini tecnici, quest'accordo ha un'assoluta coerenza con quello confederale del 28 giugno 2012 che ha segnato un punto di contatto importante tra tutte le organizzazioni sindacali nazionali. È sconcertante in questo contesto l'episodio di cui è stato protagonista il valoroso segretario generale di categoria della Cgil Alberto Morselli. Egli, dopo aver firmato il contratto, si è senza clamori dimesso. Io credo per la dichiarazione di Susanna Camusso la quale, interpellata sull'accordo, ha detto che avrebbe dato un giudizio solo dopo averne letto attentamente il testo, sconfessando di fatto il suo sindacato di categoria. Si ripropone qui in tono forse più drammatico per i tempi che viviamo la vicenda che investì Bruno Trentin nel giugno 1992, quando si dimise da segretario generale della Cgil dopo aver firmato l'accordo che disdettava il nefasto patto sul punto unico di scala mobile. La ragione di ciò sta nel fatto che le tre virtù penultime di Simone Weil, che sono la fonte di una buona vita lavorativa, per diventare carne e sangue della vita quotidiana di chi lavora hanno bisogno anche di una delle importanti virtù cardinali che spesso dimentichiamo: la virtù della temperanza, che ci rende capaci di equilibrio, dominando gli istinti e mantenendo i desideri nei limiti della responsabilità. Naturalmente solo i forti sanno essere temperati, e solo i forti sanno essere prudenti e giusti. E in quest'Italia dilacerata la forza e la giustizia vengono dal mondo del lavoro e dell'impresa socialmente orientata e perciò avviata a una maggiore redditività economica. Per questo spero che Morselli torni al suo posto al fianco dei lavoratori.

Leggi tutto...

domenica 23 settembre 2012

Trasparenza o Privacy?

Occorre fare della trasparenza un fattore condiviso nelle autonomie locali e nelle amministrazioni centrali dello Stato. Nonostante l'art. 11 del D. Lgs. n. 150 del 2009 siamo ancora lontani dalla sua piena applicazione. La cultura dell'opacità e dell'omertà causa disastri inimmaginabili. Si ricorda a tale proposito Enron, Parmalat e Lehman Brother.
Il sistema politico va valutato per quello che è e non per quello che sembra. Per tale motivo occorre trasparenza. Infine occorre ricordare che l'omertà favorisce la criminalità organizzata e la corruzione. La trasparenza incide positivamente sull’incremento della ricchezza nazionale.
Intervento di Pietro Ichino al convegno del 19 settembre 2012 presso la F.N.S.I , Iniziativa per l’adozione di un Freedom of Information Act (FOIA) anche in Italia, in occasione della Giornata della Trasparenza. Dal sito http://www.pietroichino.it/
In questo mio breve intervento accennerò soltanto a tre punti che mi paiono importanti: valorizzare le norme già esistenti; anticipare la riforma legislativa della trasparenza totale con i nostri comportamenti; correggere la distorsione che si è determinata nella cultura giuridica della privacy. A ben vedere questi tre punti possono essere ricondotti a uno solo: incominciamo a praticare i principi e le regole della full disclosure subito, anche a legislazione invariata. Questo preparerà il terreno a una maggiore effettività della nuova legge, quando finalmente arriveremo a dotarcene.
1. Valorizzare le norme già esistenti. – Sia pure in modo assai difettoso, tuttavia il principio della trasparenza totale ha già incominciato a essere enunciato nella legge-delega per la riforma del 2009 delle amministrazioni pubbliche (legge n. 15/2009, articolo 4, comma 2, lettera h), che vincola le amministrazioni ad “assicurare la totale accessibilità dei dati relativi ai servizi resi dalla pubblica amministrazione”), a essere precisato nel decreto-delegato emanato in adempimento di quella delega legislativa (d.lgs. n. 150/2009, articolo 11, che sancisce il principio di “accessibilità totale … delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati delle attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti…”) e a essere ulteriormente precisato nel Codice della protezione dei dati personali (comma 3-bis inserito nell’articolo 19 del d.lgs. n. 196/2003 dall’articolo 14 del Collegato lavoro, l. n. 183/2010, che sgombera il campo da un ostacolo sistematicamente opposto al tentativo di impedire la piena attuazione della norma del 2009, vincolando le amministrazioni a rendere accessibili a chiunque “le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione, con la sola eccezione delle “notizie concernenti la natura delle infermità e degli impedimenti personali o familiari che causino l’astensione dal lavoro”). Queste norme, certo, non hanno l’incisività dei Freedom of Information Acts statunitensi e britannici; ma costituiscono pur sempre un punto di riferimento normativo importante, che potrebbe essere valorizzato molto più di quanto non si sia fatto in questi primi tre anni di loro applicazione. La stessa legge del 2009, poi, ha istituito un’autorità indipendente, la Commissione per la valutazione, l’integrità e la trasparenza delle amministrazioni-CIVIT, che dovrebbe considerarsi preposta anche all’attuazione e promozione di quel principio di trasparenza. E, aggiungo io, che dovrebbe costituire una sorta di contraltare dell’Autorità per la protezione dei dati personali, promuovendo nel settore pubblico il necessario contemperamento tra i principi di full disclosure e privacy. Dunque non mancano disposizioni legislative alle quali ben potrebbe farsi riferimento per incominciare a praticare su larga scala i principi e il metodo della full disclosure nelle amministrazioni. Invece, su questo fronte tutto tace; e anche la Civit, fino a oggi, si è mostrata assai poco attiva su questo fronte. Non solo: si assiste anche a comportamenti amministrativi che vistosamente contraddicono quei principi e quel metodo. Solo alcuni esempi: nessuna amministrazione mette on line i mandati di pagamento e gli atti su cui essi si basano, in particolare i contratti con i fornitori e collaboratori privati; quasi nessuna amministrazione mette on line i dati relativi alle valutazioni della propria performance, i dati sui propri organici, sulle qualifiche, mansioni specifiche e retribuzioni dei dipendenti, sui loro tassi di assenze, sulle valutazioni delle loro prestazioni: qui domina ancora l’idea che il diritto alla privacy escluda questa pubblicazione, nonostante che due anni fa – come si è visto – nel Codice della protezione dei dati personali sia stata inserita una disposizione mirata esplicitamente ad affermare il contrario. E ultimamente l’ANVUR (che pure merita per altri aspetti tutto il nostro plauso), ignorando totalmente quella disposizione, ha addirittura pubblicamente addotto esigenze di protezione della riservatezza individuale a giustificazione della non pubblicazione delle valutazioni dei risultati individuali della ricerca universitaria.
2. Anticipare la riforma con i nostri comportamenti. – A questa inerzia occorre incominciare a contrapporre il maggior numero possibile di iniziative volte ad applicare fin d’ora i principi e le regole della full disclosure, anche a legislazione invariata, in attesa che un Freedom of Information Act nostrano segni definitivamente la svolta, con il pieno allineamento per questo aspetto dell’Italia ai Paesi più avanzati. Vedo un primo luogo dove questa anticipazione sarebbe integralmente possibile, con effetti dirompenti, negli enti locali – Comuni e Province – alla cui testa stia un sindaco o presidente che crede nel valore della trasparenza totale. Così, per esempio, ho salutato con grande soddisfazione il fatto che Matteo Renzi abbia inserito nel proprio programma per le primarie del centrosinistra un capitoletto sull’introduzione del Freedom of Information Act nel nostro Paese; ma ho anche osservato che Renzi è oggi sindaco di una grande città italiana; e che, se crede davvero in questo principio, nulla gli impedisce di farlo applicare in modo totale e rigoroso nell’amministrazione municipale di cui egli è il capo. Sono anche convinto che solo l’applicazione rigorosa del principio di trasparenza totale possa testimoniare la volontà dei partiti di voltar pagina in modo radicale rispetto alle malversazioni di cui abbiamo purtroppo visto negli ultimi mesi e ancora in questi ultimi giorni numerose tragiche manifestazioni, in tutto l’arco delle forze politiche rappresentate in Parlamento. Per questo mi sono battuto affinché il gruppo parlamentare a cui appartengo adottasse fin d’ora la full disclosure come principio ispiratore di tutta la propria amministrazione; una delibera in questo senso è stata effettivamente adottata dalla Presidenza del gruppo dei senatori democratici nel luglio scorso, ma a tutt’oggi non ha ancora incominciato a essere messa in pratica: spero che l’attuazione non tardi. Ma penso che tutti i partiti dovrebbero sentire la necessità vitale – prima ancora che il dovere morale – di incominciare immediatamente ad applicare questo principio, se vogliono recuperare la fiducia di una parte almeno del loro elettorato. E invece si assiste alla ridicola discussione circa la certificazione dei bilanci dei gruppi parlamentari: come se il problema fosse quello di confermare la solidità di quei bilanci (chi mai dubita della solvibilità di questi soggetti?), e non quello della trasparenza, della possibilità di controllo da parte dell’opinione pubblica su ogni voci di spesa di quel denaro, che è pubblico all’origine e resta sostanzialmente tale quando è usato per far funzionare un ente di rilevanza costituzionale, quali sono i partiti e i loro gruppi parlamentari. Occorrerebbe che l’opinione pubblica esigesse fin d’ora, con grande forza, l’applicazione di questo principio da parte dei partiti e gruppi parlamentari, così forzando anche il legislatore a disporre nello stesso senso in sede di riforma del finanziamento pubblico della politica.
3. Correggere gli eccessi e le distorsioni della cultura della privacy. – Infine, occorre che gli studiosi del diritto e gli opinionisti incomincino a sottoporre a una revisione attenta e profonda l’intera costruzione giurisprudenziale che è venuta formandosi, soprattutto per opera dell’Autorità per la protezione dei dati personali, intorno alla nozione di diritto alla riservatezza e alle sue implicazioni in materia di conoscibilità e circolazione dei dati. Ho proposto poc’anzi alcuni esempi dell’uso indebito che del principio di protezione della privacy si è progressivamente fatto nell’ultimo ventennio per evitare la trasparenza totale delle amministrazioni e impedire la circolazione di dati che nulla hanno a che fare con la vita privata delle persone. Dal principio costituzionale di protezione della persona umana si è voluto dedurre una regola di inconoscibilità dei dati inerenti alla vita delle persone, che – secondo i suoi sostenitori – dovrebbe essere considerata come regola generale, suscettibile soltanto di eccezioni ben delimitate disposte da norme legislative specifiche. Questa costruzione viene, così, utilizzata di volta in volta per affermare la non conoscibilità delle valutazioni dell’attività didattica e di ricerca dei singoli professori universitari, la non utilizzabilità dei dati di cui le scuole dispongono sulle carriere scolastiche degli studenti, o dei dati di cui dispongono le amministrazioni giudiziarie sull’attività dei singoli magistrati nell’esercizio della loro funzione, e così via. Siamo arrivati all’assurdo per cui, in nome della privacy (qui utilizzata per coprire la pigrizia degli addetti), la quasi totalità degli Istituti scolastici rifiuta di fornire informazioni sui diplomi, con i relativi voti di profitto, rilasciati ai propri ex-studenti! Credo che il danno prodotto da questa distorsione della nozione di protezione dei dati personali per il progresso civile ed economico del nostro Paese sia molto grave. In attesa di una legge che ristabilisca l’equilibrio necessario tra diritto delle persone al riserbo e libertà di circolazione delle informazioni, e di un’autorità per la trasparenza delle amministrazioni che si occupi di difendere questo equilibrio, è indispensabile che incominciamo fin d’ora a costruire nel settore pubblico la cultura della full disclosure".

Leggi tutto...

sabato 22 settembre 2012

Manifesto Capitalista

Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta di Luigi Zingales



Una delle prime vittime della crisi economica è stata la fiducia: chi aveva creduto che libertà e uguaglianza fossero raggiungibili grazie al libero gioco del mercato si è ritrovato amaramente deluso. Ma come è successo, e quando, che il sogno di prosperità per tutti del capitalismo si trasformasse in un incubo di ingiustizia e povertà degno del peggior comunismo sovietico? Quando si è diffusa l'idea che "fare impresa" voglia dire orientare le scelte politiche per favorire l'interesse di pochi a scapito della collettività, anziché impegnare il proprio talento nella ricerca di un futuro migliore, aperto a tutti? Se non rispondiamo a queste domande, abbandonandoci al populismo naif con il suo generico rifiuto dei meccanismi economici, rischiamo di perdere quello che rimane il migliore dei sistemi possibili: con tutti i suoi difetti, offre pur sempre le migliori opportunità al maggior numero di persone. Alla degenerazione del capitalismo finanziario, alimentato anche in Italia da nepotismo, corruzione e incompetenza, Luigi Zingales contrappone idealmente il liberalismo delle origini, l'antidogmatismo e la fiducia nell'armonica convergenza di interessi individuali e collettivi; difende il mercato come regno delle opportunità e della produzione di ricchezza al servizio dei cittadini, purché ripulito da lobby e monopoli che fanno pagare alla comunità i disastri che hanno provocato.

Leggi tutto...