venerdì 27 maggio 2011

Rapporto Banche e Politica

Articolo di Federico Testa* pubblicato su Il Sole 24 Ore il 26 maggio 2011
È ghiotta l'occasione lanciata da Guido Rossi di dibattere su un tema che è riferibile alle relazioni fra poteri economici (incardinati nel sistema bancario e finanziario) e politica. Si può solo condividere la denuncia dei rischi connessi alla progressiva perdita di intensità di democrazia nelle società occidentali, che coincide con l'aumento del tasso di concentrazione della ricchezza e la perdita di peso della classe media. Curiosamente il modello di democrazia inglese basato sull'elitarismo finanziario ha prevalso negli Usa e sembra occupare quasi tutto il sistema dell'Occidente.
Se vuoi fare carriera non serve più il cursus honorum della politica: meglio entrare nel sistema finanziario. Meno latino e più inglese. Ciò significa anche il trionfo dell'oligopolio criptocollusivo delle istituzioni finanziarie mondiali, con i noti meccanismi di porte girevoli fra regolatori e regolati o peggio istituzioni legislative.
Vorrei concentrarmi sul nostro Paese: insisterei sulla capacità del sistema bancario di influenzare le decisioni del livello legislativo. La presenza di un articolato sistema di fondazioni bancarie rende poi peculiare il tutto. Tralascio la questione del perché sia stato "virtuoso" rispetto ad altri. Anche in Italia non sono mancati interventi di emergenza da parte dei soci, e se si guarda alla dinamica di mercato e ai moltiplicatori anche il sistema delle banche popolari quotate non ne esce bene. Ma non si può dire che esso abbia dettato l'agenda della politica: la Robin Hood tax è stata introdotta quando i conti economici stavano per collassare (e dopo si sono resi necessari interventi di emergenza), ancora oggi curiosamente le azioni della Banca d'Italia sono di proprietà (forzata) degli istituti che vedono così assorbita una quota di capitale, con un qualche svantaggio competitivo rispetto ai concorrenti.
La stagione di accertamenti e sistematici "patteggiamenti" con l'Amministrazione finanziaria sembrano confermare tutto fuorché una capacità di influenza. Forte è l'interventismo del potere politico sul sistema bancario e finanziario: questo aspetto connota in una prospettiva critica la situazione italiana. Le operazioni di sistema sfociate nella nascita di fondi di investimento per il social housing e per le imprese non rispondono a un interesse del sistema finanziario ma a una richiesta della politica, e solo il tempo dirà se la costruzione di fondi e l'uso dello strumento delle Sgr è la strada corretta. Indire la prospettiva della nascita di un fondo sovrano italiano, che ancora deve delinearsi nei profili tecnici, dovrà essere valutata anche rispetto alle conseguenze per il sistema bancario, oltre che alla capacità dello strumento di rafforzare la competitività del sistema Paese.
Non diversamente si potrebbe ragionare sulla scalata alle reti private di distribuzione del gas da parte del Fondo F2i. Nato per lo sviluppo delle infrastrutture, finisce per essere longa manus del potere politico per ri-pubblicizzare beni che il privato ha dimostrato di saper gestire meglio. Vi sono aspetti che rappresentano un'invasione di campo da parte del potere politico a danno dei soggetti bancari. Si pensi al condizionamento a creare un national champion nel risparmio gestito. Va ricordata la spinta della politica nel tentativo di influenzare il ricambio o la nomina dei vertici degli istituti bancari e finanziari, per alcuni versi da dare per scontata, ma in alcuni casi così maldestra da comportare conflitti anche laceranti.
Queste ultime considerazioni consentono di toccare il tema del ruolo delle fondazioni di origine bancaria, che nel loro complesso hanno svolto tre funzioni positive: garantito l'indipendenza dal potere politico (di qualsiasi parte) anche in condizioni di pressione forte, consentito la ristrutturazione del sistema bancario nazionale con la nascita di due competitori forti su scala europea e sostenuto gli istituti con aumenti di capitali. Non poco, è chiaro. Anche se non bisogna rinunciare a guardare ai meccanismi che ne migliorino trasparenza, efficienza e indipendenza.
Dunque ben venga l'adozione della "carta delle fondazioni", un codice di autodisciplina che tenga lontani gli appetiti "di parte", che scongiuri rischi di compiacenza nei confronti del "potente di turno" e avvii una riflessione sul costo di funzionamento e su una loro concentrazione alla ricerca di economie di scala. Una valutazione della loro economicità è urgente, anche per giudicare le scelte di gestione dei loro organi, in termini di capacità erogativa e di gestione del patrimonio. La presenza di figure autonome negli organi, anche estranee al sistema di interessi locali e con una formazione internazionale, garantirebbe maggiore autonomia e vera accountability, a miglior servizio degli interessi generali dei territori di riferimento. Infine anche una politica di rotazione dei componenti degli organi consentirebbe un rafforzamento dell'autonomia e della trasparenza.
Va superata la coincidenza dell'attività di controllo con il potere esecutivo. Oggi il problema principale è il ripristino del corretto rapporto tra potere politico ed economico e finanziario, nell'interesse del rafforzamento del Paese.
*Federico Testa è parlamentare del PD, componente della commissione Attività produttive e docente di Economia e gestione dell’impresa all’Università di Verona

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