martedì 3 gennaio 2012

Lidia Riboli sostiene il progetto Flexsecurity

Intervento di Lidia Riboli, 29 dicembre 2011, pubblicato sul sito del senatore Pietro Ichino http://www.pietroichino.it/
Più di trent’anni fa ho raccolto con Democrazia Proletaria le firme per un referendum che richiedeva di eliminare l’esenzione per le piccole imprese dall’obbligo di reintegrare nel posto di lavoro i lavoratori che fossero stati licenziati senza giusta causa (con riconoscimento giudiziale a norma dell’articolo 18).
Mi sembrava giusto che non esistessero, a norma di legge, discriminazioni tra lavoratori di piccole e grandi imprese, per quanto riguarda le tutele da far valere.
Il referendum è stato poi ritenuto inammissibile. Molti anni dopo, nel 2003, è stato indetto da Rifondazione Comunista un referendum con un quesito simile, ma non è riuscito a raggiungere il quorum.
Come sappiamo, per superare quella che era ed è ritenuta un’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, è stato varato prima il pacchetto Treu nel 1997, poi la legge trenta detta anche legge Biagi ecc.
Si è in questo modo contribuito a creare un doppio mercato del lavoro anche per le grandi aziende: il primo rigidamente garantito, il secondo privo di qualunque tutela (ma alla creazione di questo mercato ha contribuito soprattutto, dopo la legge Biagi, il ricorso facile da parte delle imprese all’ingaggio di lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza, ma con partita Iva in modo da eludere l’intero diritto del lavoro).
Nell’ultimo anno il governo Berlusconi ha cercato di introdurre i patti in deroga (già inaugurati con un falso referendum collegato a un vero e proprio ricatto da Marchionne per la Fiat). Se accettati dalla maggioranza delle rappresentanze sindacali di una azienda, potevano sostituire qualsiasi norma di legge e quindi anche l’articolo 18.
É accaduto in sostanza qualcosa di simile a quello che è accaduto per l’equo canone: siccome i proprietari di casa avevano paura delle rigidità contrattuali previste, lasciavano piuttosto gli appartamenti vuoti o affittavano totalmente in nero. Non potendo modificare la legge, si evitava di applicare una legge.
In seguito la si è cominciata a svuotare dall’esterno con i patti in deroga, i contratti transitori ecc. Alla fine tutti i nuovi contratti venivano fatti fuori equo canone. La differenza è che anche gli equi canoni prima o poi andavano a scadere e ora in pratica non ce ne sono più, mentre i contratti a tempo indeterminato ci sono ancora. Però quando possono i datori di lavoro li aggirano ben volentieri.
Perciò sempre più vengono applicati contratti chiamati con formule di fantasia, che vorrebbero richiamare altro da quello che quasi sempre sono: normali rapporti di lavoro dipendente.
Così all’inizio sono nate le collaborazioni continuate, le partite iva, e di seguito i lavoratori interinali, i contratti a progetto, i lavoratori parasubordinati ecc.
I datori di lavoro si sono inventati tutta una serie di escamotages per riuscire a non assumere il personale in forma stabile: licenziamenti a scadenza dei periodi massimi di rinnovo, riassunzioni sotto altro nome, da ultimo cambio del personale. E questo è stato fatto pure dalle aziende pubbliche: così in occasione della crisi si è potuto dire che non erano stati effettuati licenziamenti, perchè in effetti tecnicamente i precari non hanno bisogno di essere licenziati: basta non rinnovare più il contratto, e così ancor più riguardo a tutte le forme di lavoro falsamente autonomo o parasubordinato.
Ora, di fronte a una situazione di questo genere, è moralistico e sostanzialmente inutile prendersela coi datori di lavoro: non solo applicano la legge, ma quelli che volessero non approfittarne troverebbero maggiori difficoltà a reggere la concorrenza, già così spietata in un periodo di crisi globale.
Sono già vari anni che sono profondamente convinta che per il superamento dell’attuale dualismo nel mercato del lavoro sia necessaria una parziale revisione o riduzione del campo di applicazione dell’articolo diciotto, ma purtroppo questo è un tabù duro a morire nella sinistra. Appena si affaccia una proposta che lo nomina, questa viene immediatamente respinta, prima di una qualunque analisi nel merito complessivo del provvedimento, che viene tacciato di costituire un semplice pretesto per nascondere l’obiettivo prioritario se non esclusivo di abolire proprio l’articolo in questione per avere la libertà di licenziare.
I sindacati si arroccano nella difesa dell’esistente, rappresentando ormai sempre una fetta minore di lavoratori dipendenti, e rinunciano di fatto (se non a vuote parole) a rappresentare una fetta che ora è di circa cinque milioni di lavoratori (senza contare quelli in nero), ma che tende sempre più ad aumentare in proporzione (se non in termini numerici, vista la crisi).
I giovani e non solo loro, diciamo i non ancora anziani, per la maggior parte resta priva di ogni garanzia e anche di tutele per il proprio futuro lavorativo e pensionistico.
Come si può pensare che non assumano atteggiamenti e ideologie tese ad esaltare una competitività sfrenata, come si può pensare che vogliano ancora iscriversi a un sindacato o andare a votare un partito?
Molti riconoscono la necessità di permettere per legge alcune forme contrattuali meno rigide e pensano di riuscire a limitarle disincentivandole economicamente.
Sicuramente rendere più oneroso sia l’esborso economico verso il salario diretto che verso forme più idonee di tutela previdenziale potrebbe valere per alcune forme di contratti precari, soprattutto se a tempo determinato per motivi realmente temporanei, ma potrebbe scoraggiare regolarizzazioni di alcune forme di collaborazione che risulterebbero troppo antieconomiche, e ancor più nuove assunzioni di giovani. In genere le leggi prevedono proprio degli sgravi per i nuovi assunti, per favorire le assunzioni, e sarebbe difficile prevedere che il nuovo assunto, anche se dopo l’apprendistato, debba essere assunto a tempo indeterminato o costare abbastanza di più. Ma poi in che misura attuata attraverso quali calcoli del rapporto rischi-benefici potrebbe essere considerato più conveniente per il singolo imprenditore assumere a tempo indeterminato?
E poi la selva di tipologie di contratti (almeno 24), temo possa consentire una certa opacità. Anche il nero potrebbe essere più facilmente occultato.
Sono state avanzate più ipotesi per un superamento in positivo dell’attuale dualismo. In particolare dagli economisti e giuslavoristi Tito Boeri e Pietro Ichino. Le due proposte si ispirano a una filosofia comune, ma divergono in alcuni punti molto rilevanti.
Sostanzialmente mi sembra preferibile quella di Ichino, che mi sembra offrire molte maggiori garanzie.
Ichino in sostanza propone di lasciare inalterati i contratti a tempo indeterminato attualmente vigenti, per non creare sconquasso nei lavoratori e tra i sindacati, e di formulare diversamente tutti i nuovi contratti.
Per prima cosa si definisce la nozione di lavoro dipendente in modo molto semplice, cosicché non ci sia bisogno di ispettori, avvocati e giudici per accertarne la sussistenza nel caso concreto: secondo la definizione proposta da Ichino, deve considerarsi dipendente il lavoratore che presti il proprio lavoro in modo continuativo, in condizione di monocommittenza (traendo cioè più di due terzi del proprio reddito di lavoro da un unico rapporto) e non superando il limite di retribuzione di 40.000 euro annui: tutti elementi, questi, che emergono direttamente dai tabulati dell’Inps o dell’Erario e non richiedono dunque – come invece le richiede la qualificazione della prestazione in termini di subordinazione o autonomia – complesse indagini e disquisizioni giuridiche per essere accertati. D’ora in poi, nel caso in cui il rapporto di lavoro rientri in questa nozione di “dipendenza”, sarà vietato ingaggiare il lavoratore nella forma del “collaboratore autonomo”, e tanto meno in quella del “lavoratore a partita Iva”: e tutti i lavoratori dipendenti devono essere inquadrati in un contratto di lavoro dipendente ordinario a tempo indeterminato (fatti salvi l’apprendistato e limitati casi specifici facilmente verificabili di contratto a termine, quali quelli dei lavoratori assunti per brevi periodi stagionali o in sostituzione temporanea di altri).
Tutti i lavoratori devono dunque essere assunti a tempo indeterminato (cioè senza necessità di vedersi rinnovato il contratto a ogni scadenza), e tutte le garanzie – ivi compresa quella contro le discriminazioni, per la quale si applicherà a tutti l’articolo 18, ma anche la tutela della malattia, i permessi e tutto il resto – devono partire da subito, ma nessuno deve essere inamovibile.
Solo per i primi sei mesi di prova è possibile essere licenziati senza un’indennità. In seguito scattano le garanzie che aumentano progressivamente. Il licenziamento deve essere considerato un’eccezione (e non la regola come in tutte le forme e tipologie dei contratti precari, al punto da non essere neanche considerato tale, ma divenire un’interruzione automatica cui può seguire eventualmente una riassunzione ma non è detto). Può essere attuato solo per motivi economici od organizzativi ed è del tutto escluso in forma o per motivi diversi, in qualsiasi modo arbitrari (in tal caso si applica a tutti l’articolo 18).
Si dice che il datore di lavoro potrebbe mascherare le reali motivazioni. Ma penso che occorra dare sostanzialmente fiducia alla magistratura del lavoro, che negli ultimi quarant’anni ha dato prova di affidabilità e sensibilità nella stragrande maggioranza dei casi, nella tutela dei lavoratori subordinati: in particolare, nell’applicazione dell’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, in materia di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro, ha dato prova di saper individuare le discriminazioni anche quando erano nascoste sotto i motivi più apparentemente neutri.
Quando poi malauguratamente dovesse avvenire il licenziamento il lavoratore dovrebbe essere risarcito con un’indennità pari a un mese di paga per ogni anno di anzianità lavorativa e inoltre l’azienda, se il rapporto di lavoro dura da almeno due anni, dovrebbe occuparsi di trovargli una ricollocazione esterna e a tal fine anche eventualmente di indurlo a frequentare corsi di formazione.
Più che di un obbligo si tratterebbe di una necessità per l’azienda di prendersi carico del lavoratore licenziato, in quanto tenuta a partecipare in quota crescente al trattamento speciale di disoccupazione, che dovrebbe corrispondere al 90% del salario per il primo anno, dell’80% nel secondo, del 70% nel terzo. Per il primo anno la quota a carico dell’impresa sarebbe solo del 10% (mentre il restante 8o% sarebbe a carico dell’Inps), per poi aumentare all’intero 80% nel secondo anno e 70% nel terzo: questo dovrebbe costituire un potente incentivo ad attivarsi nel primo anno per la ricollocazione effettiva del dipendente licenziato.
L’azienda dovrebbe attuare delle convenzioni private con le agenzie di formazione e ricollocamento. Se il lavoratore vuole beneficiare del trattamento economico, è tenuto a partecipare al programma di aggiornamento e ricollocazione. Ichino dice di essersi ispirato alle migliori esperienze di flexsecurity (flessibilità coniugata alla sicurezza), in particolare alla legislazione e alle pratiche vigenti in Danimarca. Solo dopo venti anni di rapporto di lavoro ininterrotto, torna ad applicarsi integralmente l’articolo 18.
Questa legge potrebbe essere applicata anche alle piccole aziende, con un contributo statale o regionale che copra il costo medio del contratto di ricollocazione dei lavoratori licenziati: in questo modo si supererebbe anche lo storico dualismo italiano fra grandi e piccole imprese.
La proposta di Tito Boeri, pur ispirata a una filosofia comune a quella di Ichino, si differenzia in alcuni punti di importanza tutt’altro che secondaria.
Per prima cosa il contratto unico non abolisce nessuno degli altri contratti di flessibilità (o meglio precarietà), ma li affianca. Anche in questo caso i contratti già in essere non vengono toccati. Il contratto unico di Boeri sostituisce solo per i nuovi assunti i contratti a tempo indeterminato.
Flessibilizza perciò per i primi tre anni i contratti a tempo indeterminato, senza incidere sul dualismo del mercato del lavoro.
Il periodo di prova, in cui è possibile il licenziamento svincolato da oneri, è di soli tre mesi. Per i successivi tre anni il trattamento economico successivo al licenziamento, sempre possibile per motivi organizzativi o economici, è doppio a quello previsto da Ichino, in quanto è pari a una mensilità per anno lavorato, ma non è previsto nessun altro onere aggiuntivo per il datore di lavoro, che non deve preoccuparsi del futuro del lavoratore a licenziamento avvenuto. Infatti il progetto non affronta il problema del sostegno economico e professionale al lavoratore che perde il posto. Sono solo auspicabili ammortizzatori sociali a carico dello Stato.
Dopo i tre anni il lavoratore a tempo determinato che non è stato licenziato automaticamente entra a beneficiare delle speciali tutele connesse all”articolo 18. Qui si può paventare il rischio che si determini lo stesso effetto-soglia che si sperimenta oggi con il termine di 36 mesi per il rinnovo dei contratti a termine: arrivato in prossimità del termine, il lavoratore viene lasciato a casa per evitare l’effetto della stabilizzazione da un giorno all’altro.
Alcuni esponenti del centrosinistra che respingono in toto il progetto di Ichino, sono tendenzialmente meno critici o addirittura benevoli verso la proposta Boeri. Il motivo principale è che dopo tre anni chi avesse la fortuna di riuscire ad essere assunto a tempo indeterminato ricadrebbe nell’articolo 18.
A mio avviso invece è ampiamente preferibile la proposta di Ichino. A parte le considerazioni sui diversi trattamenti economici conseguenti al licenziamento o al periodo successivo di disoccupazione, la proposta di Ichino ha il merito di prevedere il superamento di tutte le forme di precarietà previste in Italia dalle varie leggi succedutesi negli ultimi 15 anni, di cui la legge trenta è stata la punta massima e ha il coraggio di dire che solo con il superamento dell’articolo 18 (che verrebbe a valere solo quando dopo 20 anni il rapporto di lavoro fosse realmente consolidato) è possibile levare l’alibi della necessità di mantenere forme di precarietà contrattuale.
Mentre la proposta di Boeri a mio parere non risolve il problema della precarietà non solo perché non elimina i contratti che la sanciscono, ma anche perché non incoraggia a sufficienza i datori di lavoro ad assumere a tempo indeterminato, riproponendo l’operatività dell’articolo 18 dopo tre anni di lavoro ininterrotto (quindi molti sarebbero indotti a licenziare alla scadenza dei tre anni).
Tuttavia le obiezioni che si rivolgono al professor Ichino sulla difficoltà a imporre o anche solo a immaginare un ruolo delle imprese italiane simile a quello delle aziende danesi mi sembrano assolutamente fondate. E non tanto perché i “padroni” italiani sarebbero per natura più cattivi, quanto per la mancanza di altrettante opportunità di lavoro e di agenzie formative e di collocamento in grado di svolgere lo stesso compito. Occorrerebbe perciò – così credo – prevedere un ampliamento e una generalizzazione degli ammortizzatori sociali già in essere sotto vario titolo con una partecipazione delle imprese da definire. Sarebbero poi principalmente gli enti locali a doversi occupare della formazione e dell’offerta di informazioni e collegamenti relative a nuove collocazioni lavorative, o in ultima istanza, per lavoratori relativamente più anziani e/o difficilmente ricollocabili, ipotizzare lavori socialmente utili eventualmente anche part-time in attesa del pensionamento. È ovvio che una riforma delle pensioni del tipo di quella varata ultimamente aggrava solo i problemi, per lavoratori giovani e anziani, ma questo è un altro discorso che ora non voglio affrontare.
Del resto la necessità di ammortizzatori sociali non è minore oggi, quando principalmente la parte meno difesa (gran parte dei giovani e meno giovani assunti in forma precaria e i dipendenti di piccole imprese) può perdere il lavoro senza alcun sostegno, proprio per questo mi sembra necessario proporre in positivo una riforma complessiva invece di subire provvedimenti parziali o ulteriori deroghe che minano solo a scardinare ogni residua coesione tra i lavoratori derivante da una comunanza di interessi, mettendoli oggettivamente in competizione tra loro.
Senza contare che, applicandosi questo nuovo contratto solo ai nuovi assunti, non si produrrebbe nessun pericolo attuale di licenziamenti, ma solo effetti positivi relativi alla trasformazione dei contratti precari in contratti molto più stabili e tutelati. Il sistema poi col tempo potrebbe trovare un giusto equilibrio, o, se necessario, indurre a immaginare qualche aggiustamento.
Ho cercato di esporre il motivo principale per cui una proposta che abbia un impianto simile a quella di Ichino mi sembra non da doversi accettare obtorto collo, ma proprio da auspicare e da promuovere.
Occorre rendere la generalità dei lavoratori uguali di fronte a un’unico tipo di contratto.
Altrimenti l’esercito precario di riserva si ingrosserà sempre più, i lavoratori saranno di fatto sempre più divisi. I “precari” continueranno ad essere ipersfruttati e su di loro i datori di lavoro non avranno nessun interesse a investire in formazione, per cui difficilmente si specializzeranno in modo da poter vendere meglio la propria forza-lavoro.
I lavoratori a tempo indeterminato che, anche senza essere licenziati, comunque usciranno dal mercato del lavoro andando in pensione, saranno sempre più sostituiti da altri assunti con contratto a tempo determinato magari spacciato per “progetto” o falsamente autonomo, e la quota di lavoratori garantiti si assottiglierà sempre più.
Si dice che col contratto unico si stabilirebbe un’uguaglianza al ribasso. Non mi sembra un’obiezione fondata, perché il superamento della precarietà e della mancanza di tutele legali e contributive per la maggioranza dei dipendenti (veri o camuffati come spesso oggi sono), dovrebbe essere l’obiettivo principale. E comunque il modello di disciplina del nuovo contratto di lavoro dipendente cui il progetto di Ichino si ispira è quello dei Paesi scandinavi, che costituiscono per questo aspetto la punta più avanzata a livello mondiale.
Purtroppo si ingannano i giovani col miraggio del traguardo del posto tutelato dall’articolo 18, che prima o poi potrebbero avere. Così nel frattempo restano sprovvisti di qualunque diritto e protezione, nella giungla (o se si preferisce nel far west) della contrattualità “creativa” ( perversa un po’ come la finanza creativa).
Parlare a questo punto di lottare contro la precarietà resta un discorso velleitario, se non si hanno in mente e non si portano avanti progetti credibili che affrontino risolvendoli altrimenti i problemi che hanno portato (fungendo anche in qualche modo da pretesto ma non esclusivamente) ad autorizzarla per legge.
L’articolo 18, all’interno dello Statuto dei lavoratori, è nato nel ’70 per impedire essenzialmente forme di discriminazione individuali verso i lavoratori di una parte politica o che più si erano distinti nella promozione o nell’appoggio alle lotte in fabbrica, in un periodo di sostanziale espansione economica, in cui i motivi per licenziare non erano in genere economici.
Si dice che adesso, anche permanendo l’articolo 18, resterebbe sempre possibile il licenziamento per motivi economici, e che quello organizzativo è definito in modo troppo generico e pertanto potrebbe nascondere motivi arbitrari o discriminatori. Se così fosse, la proposta di Ichino non toglierebbe niente rispetto alla situazione attuale, bensì porterebbe soltanto maggiori tutele per chi oggi è escluso dall’area di applicazione dello Statuto dei lavoratori.
Ma in realtà non è così. Di fatto il motivo economico mi sembra però non possa essere invocato con qualche possibilità di superare la verifica giudiziale, salvo il caso di grave crisi aziendale, chiusura di interi reparti o settori in provata crisi. Mentre un’azienda che debba restare nel mercato e perciò fare i conti con la concorrenza, dovrebbe poter decidere, in caso di necessità, anche di ridurre di qualche numero i propri dipendenti e di riorganizzare diversamente il lavoro, o eventualmente di sostituire alcuni dipendenti con altri più idonei o diversamente qualificati, anche prima che i bilanci vadano in rosso.
I motivi discriminatori vanno poi sempre sanzionati da un giudice, i motivi arbitrari cosa significano? Sarebbero quelli dettati da un capriccio del datore di lavoro? O vanno ricompresi nei motivi discriminatori o vanno opportunamente scoraggiati per il loro costo economico. D’altra parte la convenienza di licenziare un lavoratore con anzianità di servizio a favore di un nuovo assunto sarebbe molto minore qualora la tipologia contrattuale fosse unitaria.
Quando un dipendente ricorre a un giudice, e questo ne ordina la reintegrazione dopo anni (e non la semplice riassunzione) con tutti gli oneri inerenti a carico del datore di lavoro, la ripresa del rapporto di lavoro difficilmente sarà soddisfacente per lo stesso dipendente, che potrebbe rientrare in un ambiente ostile, e costituirà un onere spesso pesante per il datore di lavoro.
Si dice che la vigenza dell’articolo 18, lungi dal proporre eccessivi ricorsi al giudice, fungerebbe oggi da deterrente al ricorso ai licenziamenti troppo facili. Il termine “licenziamenti facili” però non mi sembra adatto ad esplicarne i vari motivi reali. Fatta salva un’opportuna dose di deterrenza generica al licenziamento, data dal suo onere economico come prima indicato, ci sono casi in cui la convenienza o la necessità per il datore di lavoro di licenziare permane. A questo punto potrebbe avvenire un braccio di forza tra il “padrone” e il dipendente, senza esclusioni di colpi. Non di rado il primo è in grado di attuare un vero e proprio mobbing a danno del secondo, tali da indurlo a dimettersi, con pesantissime ripercussioni psicologiche ed esistenziali oltre che economiche e ancor più di queste ultime che peraltro sarebbero gravi e senza tutele.
In altri casi il datore di lavoro meno cinicamente spregiudicato può preferire un accordo economico, magari anche oneroso e sottobanco, la cui entità può derivare dalla resistenza al braccio di ferro dei due avversari. Non di rado ci potrebbe essere un mix di bastone e carota (trattamento simile a un mobbing difficilmente provabile insieme a un qualche genere di promessa di risarcimento in denaro), il tutto con l’obiettivo di riuscire a piegare la resistenza psicologica del lavoratore per imporre condizioni meno svantaggiose all’azienda.
In altri casi il datore di lavoro può rinunciare e cercare di far pagare il costo maggiore che gli deriva dal non potere licenziare e/o sostituire uno o più dipendenti in altro modo.
Di certo non sarà più invogliato ad assumere lavoratori a tempo indeterminato e opterà in seguito ad assumere nei modi più precari che le leggi gli consentono (e oggi lo fanno alla grande).
Tutto questo senza considerare le piccole aziende che ho completamente tralasciato di considerare fin qui. Se si può ipotizzare un licenziamento in qualche modo arbitrario, è più probabile che avvenga in una di queste (che in Italia costituiscono il 95%, anche se l’attuale crisi temo le stia riducendo rapidamente). È in queste infatti che il “padrone” conosce uno a uno i suoi dipendenti, e potrebbe più facilmente venirsi a istituire un feeling negativo al di là delle reali necessità aziendali. Inoltre i sindacati sono in queste molto meno presenti. Eppure nelle piccole aziende i lavoratori non sono tutelati per legge dall’articolo 18 e possono essere tranquillamente licenziati con un onere economico relativamente basso.
Si dice peraltro che non c’è la prova provata che le scarse dimensioni della quasi generalità delle aziende italiane derivi anche dalla necessità di evitare di incappare nell’articolo 18. Eppure qualche relazione sarebbe facilmente ipotizzabile, in quanto solo in Italia si verificano i due fenomeni, e perché si è verificato che, a parte le microimprese stabili, quelle in espansione spesso si sono fermate senza superarlo al limite dei 14-15 addetti. Altre volte prima di superarlo si sono scisse in più aziende, superando con vari e generalmente facili escamotages perfettamente legali i controlli previsti al riguardo. Altre volte aziende piccole e grandi hanno delegato ad altre microimprese attraverso esternalizzazioni o subappalti parte del lavoro. Anche volendo escludere che l’articolo 18 possa essere l’esclusiva causa di tutto questo, di sicuro ne costituisce un incentivo da non sottovalutare.
D’altra parte, tra piccole imprese e lavoratori precari e atipici, l’articolo 18 ormai si applica a sempre meno lavoratori, e in genere a quelli che meno ne avrebbero bisogno.
Si creerebbe più lavoro con l’istituzione di un contratto unico, tendenzialmente a tempo indeterminato per i nuovi assunti, che preveda al suo interno il superamento di ogni altra forma contrattuale precaria e vincolisticamente a tempo indeterminato?
Dato per scontato che il problema della creazione di nuovi posti di lavoro (preceduta dal mantenimento di quelli già in essere) è subordinato a una profonda trasformazione (se non di un vero e proprio capovolgimento) delle politiche nazionali ed europee a cui nella situazione odierna sono totalmente subordinate, per cui oggi nessuna legge di riforma sarebbe di per sé in grado di creare nuova occupazione, è certo che, secondariamente all’obiettivo primario di estendere e uniformare le tutele e i trattamenti salariali e pensionistici per tutti, anche gli investitori sarebbero incoraggiati, soprattutto quelli più seri che preferiscono avere a che fare con regole meno numerose e confuse ma più certe ed omogenee, anche se non sono gratis, e non cercano soltanto di approfittare di scappatoie ed escamotages per non rispettare diritti ed esigenze dei lavoratori, evitando i costi della loro tutela per poter così concorrere in condizioni di sleale vantaggio nel mercato globale.

1 commento:

Michelangelo Di Stefano ha detto...

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