giovedì 13 ottobre 2011

La crescita che non c’è

Articolo di Roger Abravanel pubblicato su Corriere della Sera il 12 ottobre 2011
Finalmente la crescita è diventata un tema importante anche in Italia: si è capito che abbattere il debito con l'austerità fiscale non basta in un'economia in cui lavorano poche (sempre meno) persone perché la produttività è ferma da anni. Il governo prepara quindi l'ennesimo piano per la crescita, ma anche questo piano rischia di fare la fine dei precedenti: l'idea di tagliare le tasse è giusta, però le misure in discussione per finanziarla sono inadeguate o di difficile attuazione. Non è chiaro come la spending review abbasserà la spesa pubblica; la patrimoniale «mini» da pagare ogni anno per ridurre il debito (una specie di Ici) ha un impatto ridotto, mentre quella «maxi» da 300-400 miliardi da versare una tantum per ridurre il debito non si sa come farla (come si fa a tassare le prime case?). L'innalzamento dell'età pensionabile porterebbe indubbi vantaggi sulla spesa e sarebbe più facile da realizzare, ma il beneficio maggiore — fare lavorare più persone — non si coglie se non si fanno altre riforme, ad esempio quella sul mercato del lavoro (fortemente in discussione, come dimostra l'uscita di Fiat dalla Confindustria).
Anche la seconda leva, la riduzione dello Stato nell'economia attraverso il rilancio delle liberalizzazioni, le semplificazioni normative e il piano di privatizzazioni rischia di essere di difficile attuazione, come insegnano le esperienze passate. Le liberalizzazioni sono state sempre bloccate dalle numerose lobby e le semplificazioni hanno un impatto marginale. Riguardo poi alle privatizzazioni, alcuni beni dello Stato sono vendibili ma la cessione genererebbe costi e perdita di reddito (vedi aziende di Stato e immobili), altri sono oggetto di forti opposizioni. La realtà è che è pura utopia pensare di fare ripartire la crescita di un'economia ferma da 10 (20) anni con una «manovra» di politica economica. L'economia è fatta di imprese e la nostra è ferma per una ragione ben precisa: è composta solamente di piccole imprese che non riescono a crescere. Il nostro Paese non ha il monopolio delle piccole imprese (in Germania ce ne sono due milioni contro un milione e mezzo da noi), semplicemente da noi mancano le medie e le grandi.
Qual è il problema delle nostre piccole imprese che non crescono? Il gap di 50% di produttività che hanno accumulato in tutti questi anni per il loro basso tasso di innovazione e gli alti costi perché non hanno investito in capitale umano, tecnologia e marketing. I piccoli costruttori costruiscono immobili di cattiva qualità e brutti. I piccoli mobilieri non diventano Ikea. Gli alberghi famigliari non creano né Starwood né NH Hotels. I piccoli commercianti e ristoratori non creano formati innovativi, eccetera. Eppure in Italia queste piccole imprese che non crescono e non creano lavoro e Pil sono protette e spesso incentivate a restare piccole. Per esempio, l'articolo 18 consente di licenziare il personale solo se si hanno meno di 15 dipendenti e i professionisti (ingegneri, architetti e geometri) sono protetti dalla concorrenza dei grandi studi professionali dalla normativa che obbliga alla firma individuale dei progetti. Da sempre esiste purtroppo una cronica mancanza di cultura della crescita che perdona e privilegia il «piccolo», che si tratti di imprese o individui e famiglie da proteggere dal «big business». Il «sommerso» italiano è visto con simpatia e quindi lo Stato cerca di recuperare la gigantesca evasione combattendo i «grandi evasori» (chi evade più di 3 milioni l'anno secondo la recente definizione della Confindustria, ma sono poche centinaia di aziende) e i grandi «elusori» (le multinazionali).
Ma il grosso, purtroppo, è altrove: nelle centinaia di migliaia di piccole imprese (commercianti, artigiani, agenzie di viaggio, professionisti, medici, laboratori, ristoratori, albergatori) che sopravvivono solo perché evadono il fisco che le tollera proprio perché «se non evadono chiudono». Secondo i loro difensori, se queste imprese chiudono si perdono i consumi di chi ci lavora e quindi il Pil ne soffrirebbe; dimenticano che se l'attività delle imprese poco produttive che chiudono è assorbita da altre che vogliono crescere grazie alla produttività, il sistema economico complessivo ci guadagna. È proprio qui l'enorme barriera culturale: la crescita dell'economia italiana non «la fa il Paese tutto assieme»; migliaia di piccole imprese devono crescere, essere acquisite dalle grandi o chiudere, e i figli che lavorano nelle aziende dei padri debbono diventare impiegati di imprese più grandi o cambiare mestiere. Creare una cultura di crescita richiederà un enorme cambiamento di mentalità, politici coraggiosi e, comunque, molto tempo. Innanzitutto sono necessarie quelle meta-riforme che non necessitano di grandi cambiamenti culturali tipo una seria flexsecurity sul lavoro e una riforma robusta della giustizia civile che oggi ha i tempi di quella del Gabon. Ma poi sarà necessaria una trasformazione radicale del mondo delle nostre imprese grazie alla nascita di una nuova cultura basata sul rispetto delle regole. E per tutto ciò ci vorrà ben altro che l'ennesima affannata manovra di politica economica.

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