lunedì 6 giugno 2011

Pietro Ichino sulle relazioni industriali

Intervista a cura di Nando Santonastaso per il Mattino, 6 giugno 2011
Confindustria, attraverso il suo vicepresidente Bombassei, sembra aprire sulla possibilità per le imprese di sostituire il contratto nazionale con quello aziendale. E di affidare la materia comunque al legislatore. Che ne pensa?
Non è solo l’opinione del vice-presidente Bombassei: è anche quello che la presidente Marcegaglia ha proposto nella sua relazione del 31 maggio scorso all’Assemblea di Confindustria, citando l’esempio della Germania. Ed è quanto è previsto nel disegno di legge n. 1872, che ho presentato con altri 54 senatori nel 2009, assai prima della vertenza Fiat, proprio in considerazione del modello tedesco: il contratto collettivo nazionale continua ad applicarsi come rete di sicurezza generale, in tutti i casi – e in Italia sono la maggioranza – in cui manchi un contratto stipulato da una coalizione sindacale maggioritaria a un livello più vicino al luogo di lavoro.

La prima reazione della Cgil è stata negativa: significherebbe, ha detto la Camusso, rinunciare anche a Confindustria. E’ così?
Non direi proprio: così come il contratto collettivo nazionale conserverà la sua funzione insostituibile in tutti i casi dove la contrattazione decentrata non arriva, anche l’associazione nazionale degli imprenditori conserverà la sua funzione, in quanto soggetto stipulante di quel contratto. La Confindustria rischia di sparire, semmai, se non si compie questa riforma. Perché le imprese usciranno da Confindustria proprio per potersi svincolare dal contratto nazionale. Come minaccia di fare la Fiat. A quel punto sarebbe l’intero sistema nazionale delle relazioni industriali a venir meno.

Ma in questo modo non c’è il rischio di una rincorsa al ribasso, al di sotto dello standard minimo previsto dal contratto nazionale?
Rispetto alla complessa disciplina contenuta nel contratto nazionale, in materia di organizzazione del lavoro, inquadramento professionale, struttura delle retribuzioni, distribuzione dei tempi di lavoro, le nuove discipline contenute in un contratto aziendale possono portare a peggioramenti, ma anche a importanti miglioramenti: l’innovazione non si presenta mai, in fase iniziale, al livello di intero Paese, ma proprio al livello aziendale. Se per paura delle innovazioni cattive ci chiudiamo anche a quelle buone, il Paese resta fermo. Il sindacato deve saper operare come l’intelligenza collettiva che consente ai lavoratori in azienda di valutare il piano industriale innovativo. E se la valutazione è positiva, deve saperli guidare nella scommessa comune con l’imprenditore su quel piano.

Il 18 giugno si discute il ricorso Fiom contro la newco di Pomigliano: se passasse la linea del sindacato, vorrebbe dire che la strada del contratto aziendale – in questo caso della Fiat – dev’essere abbandonata?
No: quel procedimento non riguarda la questione del rapporto fra contratto aziendale e contratto nazionale. Riguarda invece la questione se tra la vecchia datrice di lavoro e la newco ci sia un “trasferimento d’azienda”, a norma del codice civile e del diritto europeo, oppure no. Se, come è ovviamente possibile, il giudice riterrà che ci sia “trasferimento d’azienda”, e che sia ancora applicabile il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici, potranno determinarsi alcune conseguenze rilevanti soltanto per il periodo residuo di vigenza di quel contratto, che se non sbaglio scade il 31 dicembre di quest’anno.

Anche sulla rappresentanza in fabbrica non sembrano esserci molti passi in avanti. Tra Confindustria e i sindacati, anche all’interno dei sindacati, la distanza appare ancora notevole. Come se ne esce?
Certo, l’ideale sarebbe che si riuscisse ad arrivare a un accordo interconfederale firmato da tutte le principali confederazioni sindacali e imprenditoriali. Questo, però, presupporrebbe l’accettazione almeno di una cornice di regole generali di democrazia sindacale e il conseguente riconoscimento reciproco tra le confederazioni maggiori; questa volontà di accordo, invece, sembra non esserci. È dunque indispensabile un intervento legislativo che detti quelle regole essenziali. Altrimenti la sola regola generale del nostro sistema delle relazioni industriali resta quella dell’unanimità: o si è tutti d’accordo, o l’innovazione resta fuori della porta. È la regola per la quale gli osservatori stranieri qualificano il nostro sistema delle relazioni industriali vischioso e inconcludente.

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