giovedì 30 giugno 2011

Dario Di Vico sull’accordo tra Confindustria e Sindacati

articolo di Dario Di Vico pubblicato sul Corriere della Sera il 29 giugno 2011
Persino l'onorevole Giuliano Cazzola (Pdl), mai tenero con la Cgil, ha nei giorni scorsi reso omaggio preventivo al coraggio politico dimostrato da Susanna Camusso, che infischiandosene delle critiche della Fiom alla fine di un impegnativo negoziato ha sottoscritto un accordo unitario sulla rappresentanza. La Camusso — le va riconosciuto — si è mossa con intelligenza e tempismo rimettendo così la Cgil al centro della scena ed evitando un ulteriore (e forse decisivo) scivolamento verso il bipolarismo sindacale. Con Cisl e Uil che marciano ormai in tandem la Cgil rischia ad ogni occasione di rimanere isolata e prima di rompere la pur fragile unità d'azione ci deve pensare diverse volte. L'ultimo accordo unitario delle tre confederazioni risaliva al 2007 quando con Romano Prodi a palazzo Chigi fu sottoscritto un accordo per il welfare. Da allora è vero che le categorie hanno continuato a firmare accordi a tre ma la riforma della contrattazione (2009) è stata sottoscritta con la Confindustria solo da Cisl-Uil e gli ultimi contratti nazionali del commercio, del pubblico impiego e dei metalmeccanici hanno seguito lo stesso copione. L'operazione «rientro» non sarebbe riuscita se la Camusso non avesse trovato la sponda di Emma Marcegaglia, desiderosa di riconquistare quello spazio che l'iniziativa tambureggiante di Sergio Marchionne le aveva oggettivamente limitato.
Non si può dire che la Marcegaglia sia vittima del complesso «senza la Cgil non si può» (nel 2009 per l'appunto firmò un accordo separato), però è evidente che, per sensibilità culturale e per storia dell'azienda di famiglia, la presidente è più portata a cercare le intese a tre. In questo caso l'asse Marcegaglia-Camusso ha saputo comunque evitare la trappola della mediazione al ribasso e ha costruito un'intesa dotata di un sua identità. L'accordo sottoscritto ieri miscela, infatti, le differenti tradizioni sindacali, quella più votata a sostenere il peso degli iscritti e quella che, anche nel momento della scelta delle rappresentanze, guarda alla platea dei non iscritti. E chiaro che fuori dall'ambito sindacale le miscele possono sembrare delle contorsioni così come la discussione su Rsu e Rsa rischia di apparire bizantina, ma se si vogliono raggiungere obiettivi di coesione lessico e storia del sindacalismo italiano vanno rispettati. Anche in tema di contrattazione l'intesa di ieri non chiude al ribasso bensì sostiene l'idea dell'adattabilità degli strumenti negoziali (ad esempio l'orario di lavoro) e quindi evita che i lavoratori percepiscano le deroghe solo come dei peggioramenti della loro condizione. E non invece come un (necessario) raccordo tra cambiamenti del mercato, modifiche dell'organizzazione produttiva ed erogazione della prestazione lavorativa. Perché in fondo la motivazione più calda che ci porta ad applaudire l'accordo interconfederale di ieri sta proprio nel miglioramento delle connessioni tra economia e lavoro. Il sindacato di Roma deve rimettersi in sintonia con le novità che stanno intervenendo sui luoghi di lavoro e che stentano a imporsi nell'agenda delle confederazioni. In questi mesi si sta producendo sul territorio una ricca contrattazione articolata che interessa sia le grandi che le medie aziende. Accordi come quelli raggiunti di recente nel gruppo Eni, alla Barilla e alla Luxottica meritano di essere studiati per le buone pratiche che rappresentano, delineano infatti un nuovo tipo di concertazione che non paralizza le decisioni dell'azienda bensì pone le condizioni per creare un consenso di medio periodo, una visione condivisa degli obiettivi dei rispettivi gruppi. Come già il Corriere ha avuto modo di segnalare altrettanto importanti sono le novità che si stanno delineando, ad esempio in Lombardia, in aziende di dimensioni minori. Si affermano soluzioni innovative di welfare aziendale e si negoziano senza remore clausole anti-assenteismo e di aumento della produttività. Come mai la contrattazione in periferia evolve con maggiore rapidità? Forse perché sul territorio ci sono sindacalisti più ferrati e meno condizionati dalle scelte politiche e/o di bandiera? Anche per questi motivi ma non solo. La causa prima risiede nei profondi mutamenti che stanno interessando l'orientamento degli operai. Cambia la contrattazione, dunque, perché muta «il sottostante». Una recente indagine commissionata dal Pd alla Swg (e in verità poco valorizzata dal committente) testimonia come si sia prodotta una drastica deideologizazione del mondo del lavoro e sia nata una prossimità tra azienda e lavoratore che non può più essere ignorata. Gli operai sono soddisfatti del proprio lavoro molto più di quanto si racconti e pensano che di fronte alla Grande Crisi le aziende si sono mosse meglio dei sindacati. Vogliamo parlarne apertamente o lasciamo che di questa indagine si discuta solo a microfoni spenti? Ha fatto bene, dunque, la Camusso a togliersi dall'angolo. Ma se si vuole costruire una diversa stagione sindacale è solo la prima mossa.

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