lunedì 18 agosto 2014

Affrontare l’emergenza in Europa


Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 15 agosto 2014
L’Italia non è il solo Paese che sta attraversando una fase di contrazione: la crescita del Prodotto interno lordo nel secondo trimestre è risultata negativa anche in Francia e in Germania; il Pil dell’area dell’euro nel suo insieme - con una crescita dello 0,05 rispetto ai tre mesi precedenti - è praticamente piatto e stride con lo 0,97 degli Stati Uniti e lo 0,8 del Regno Unito. La doccia fredda di questo secondo trimestre era annunciata: è da marzo che i numeri della produzione industriale, le indagini sui sentimenti dei produttori e dei consumatori, i dati di import ed export danno segnali negativi. Dalla grande crisi, l’eurozona è uscita con una ripresa nel 2009-2010 per poi ripiombare in una seconda recessione nel terzo trimestre del 2011. Nonostante qualche segnale positivo nel 2013, da questa seconda recessione non ci siamo veramente mai ripresi: il Pil continua a oscillare intorno allo zero e l’occupazione è stagnante. Nonostante la recessione del 2008 abbia avuto caratteristiche simili a quella degli Stati Uniti - per tempi, durata, profondità - dal 2011 l’andamento ciclico dell’area euro è stato molto diverso. Questo scollamento è un fatto unico dal Dopoguerra. Ed è questo che deve farci riflettere, non solo il dato sul Pil del secondo trimestre.
La mancanza di riforme strutturali non può spiegare il fatto inedito e recente di uno scollamento dell’andamento ciclico tra noi e gli Stati Uniti, come non può spiegare la debolezza diffusa dell’Unione che tocca anche il Paese che ne è motore: la Germania. Questo non significa negare l’importanza delle riforme, ma suggerisce che un difetto su questo fronte non può essere la causa di tutti i nostri mali. La fondamentale differenza tra noi e gli Stati Uniti sta nelle politiche monetarie, fiscali e finanziarie messe in atto dal 2008 in poi. Le caratteristiche di quelle Usa sono state tre: tempestiva e massiccia espansione fiscale; tempestiva e massiccia politica di acquisto di titoli finanziari e pubblici da parte della Banca centrale (quantitative easing ); tempestiva azione di ricapitalizzazione delle banche. Al contrario, nella zona euro la risposta fiscale è stata nel suo insieme restrittiva: si è enfatizzato il problema del consolidamento del debito invece che concentrarsi sullo stimolo alla domanda. La politica monetaria, inizialmente tempestiva ed efficace per affrontare la crisi di liquidità delle banche, ha poi rallentato lo stimolo: da due anni il bilancio delle Banche centrali dell’euro-sistema è in contrazione e si esita a usare lo strumento del quantitative easing nonostante l’inflazione - il cui dato più recente è un tasso annuale dello 0,4% - sia in ribasso dal 2011. Il terzo elemento è il ritardo, sei anni dalla crisi per la precisione, con cui abbiamo affrontato il problema della ricapitalizzazione delle banche.
Il risultato è stato non solo la debolezza persistente dell’economia reale, ma, paradossalmente, un aumento del rapporto tra debito totale (privato e pubblico) e Pil invece della sua auspicata diminuzione. Ci sono molte ragioni che spiegano questa inerzia. Per la politica fiscale, il problema è la differenza del livello del debito pubblico tra diversi Paesi dell’Unione, differenza che preoccupa i Paesi creditori perché non vogliono esserne gli impliciti garanti. Una simile preoccupazione spiega anche l’avversione della Bce a politiche monetarie che possano suggerire un implicito finanziamento al debito pubblico di alcuni Paesi. Per l’azione di ricapitalizzazione delle banche, l’inerzia è spiegata da risorse nazionali limitate in una zona economica integrata in cui i bilanci delle banche sono tipicamente molto grandi rispetto a quelli dei Paesi in cui risiedono legalmente.
I problemi sono complessi e le preoccupazioni motivate. Ma è arrivato il momento per i governi dei Paesi dell’Unione e per le nostre istituzioni federali di dirsi che questa complessità non può più frenare un’azione coraggiosa e rapida che faccia ripartire l’economia. Il problema da affrontare non è quello della convivenza tra una Germania forte e una «periferia» europea debole, ma la debolezza dell’Unione nel suo insieme. Va dichiarata l’emergenza e va disegnato un piano di azione che coordini politiche monetarie e fiscali. Il percorso è difficile perché comporta il coordinamento tra un’autorità federale indipendente, la Bce, e diverse autorità nazionali di bilancio, i governi. Tutto questo in un contesto in cui il Trattato stabilisce regole per garantire la stabilità, ma non ne prevede per l’emergenza e per un’azione atipica di rilancio dell’economia. C’è dunque un vuoto che va colmato, con prudenza, ma anche coraggio.

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