lunedì 14 gennaio 2013

Riforme: equità e austerità

Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 13 gennaio 2013
Due temi, connessi fra loro, sono centrali in questa fase della campagna elettorale: tasse e austerità. La discussione è caotica perché confonde un tema congiunturale (cioè se si debba aumentare il deficit pubblico per stimolare la domanda e aiutare così il Paese a uscire dalla recessione) con un problema strutturale: l'esigenza, cioè, di una riforma fiscale che, a deficit invariato, possa garantire un sistema al tempo stesso più equo e più favorevole al mondo produttivo.
Partiamo dal rilancio della domanda. Un aumento del deficit nel 2013 porterebbe il Paese a sforare il limite del 3% necessario a riportare il nostro debito su basi sostenibili, limite che i dati di aprile verosimilmente diranno essere stato raggiunto. È una strada percorribile, ma vanificherebbe i sacrifici dell'anno passato ed è assai rischiosa. Molti, incluse voci autorevoli del Fondo monetario internazionale, l'hanno indicata. Ma se l'Italia procedesse da sola, senza una rinegoziazione complessiva delle politiche europee, si ritroverebbe molto probabilmente con lo spread ai livelli di un anno fa e di fatto esclusa dall'accesso al mercato. D'altro canto, l'ipotesi di costruire alleanze con altri Paesi europei su una piattaforma antiausterità, in particolare con la Francia, che appariva già poco credibile prima delle elezioni francesi, è oggi del tutto irrealistica. Nell'Europa del 2013, come in quella del 1918, le regole le dettano i creditori. La ragione è ben sintetizzata dalla frase usata da Keynes a Bretton Woods nel 1946 per mettere in luce una fondamentale asimmetria tra Paesi debitori e creditori. «Il processo di aggiustamento ? disse Keynes ? è obbligatorio per il debitore, ma è volontario per il creditore. Se il creditore non sceglie di fare la sua parte, esso non paga alcun prezzo poiché, mentre le riserve di un Paese non possono scendere al di sotto dello zero, non c'è un tetto che ne determina il limite superiore».
Se un coordinamento a livello europeo che preveda l'espansione della domanda dei Paesi creditori e un allentamento del rigore per i Paesi debitori non è realistico e gli spazi di diminuzione della spesa pubblica, nel guado della più grave recessione del dopoguerra, sono limitati, l'austerità rimane l'unica via percorribile. Si potrà lavorare solo a una riforma fiscale a saldo invariato che comporti maggiore equità ed eserciti, al tempo stesso, maggiore stimolo per la crescita. Riforme radicali capaci di ridurre il carico fiscale complessivo, in questa fase, non sono semplicemente possibili.
La Francia è un caso istruttivo. Nella fase preelettorale crescita ed equità, similmente a quanto accade da noi, avevano avuto un ruolo centrale nel dibattito pubblico, ma ora, in fase postelettorale, Parigi deve misurarsi con la realizzazione delle riforme. Guardiamo oltre la tassa sui patrimoni dei super ricchi e non facciamoci distrarre troppo dalle cronache di monsieur Depardieu in fuga verso Mosca: il governo francese ha fatto altro. Nel novembre 2012 è stato varato il «Patto di Competitività» che comporta numeri molto più significativi di quelli che potrà generare la super Irpef per i miliardari. Il Patto prevede un taglio delle imposte sulle imprese per circa l'1% del Pil all'anno nel periodo 2014-2016, finanziato con 10 miliardi di risparmi sul lato della spesa, e con altri 10 miliardi generati dall'aumento dell'Iva. Non sto dicendo che l'Italia debba seguire la stessa via, anche perché un ulteriore aumento dell'Iva, con un'aliquota già al 21% (e che è previsto aumentare al 22% nel luglio 2013), è per noi impensabile.
Tuttavia il caso francese lascia spazio a due considerazioni interessanti nel quadro del dibattito italiano. Primo: il governo di Parigi, che a differenza nostra non ha raggiunto l'obiettivo del 3% di deficit, stringerà la cinghia nel 2013 proponendosi, con il Patto, di ridurre le tasse a partire solo dal 2014. E lo farà nel rispetto del saldo invariato poiché le misure, almeno sulla carta, sono neutrali dal punto di vista del bilancio. In altre parole, François Hollande non si lancia in politiche espansive della domanda, ma si piega alle esigenze dell'austerità. Secondo: le misure sgravano le imprese, ma pesano sui consumatori con effetti regressivi sulla distribuzione del reddito.
Questo è il punto politico. Se un governo socialista che ha posto tanta enfasi sull'equità prende questa strada significa che, al di là della retorica preelettorale, quando non si può far leva sulla domanda, si deve agire sul Pil dal lato dell'offerta alleggerendo la fiscalità sulle imprese per garantire loro nuova competitività. Anche per noi è una priorità, ma se vogliamo affrontarla dobbiamo anche dire come politiche del genere potranno essere finanziate mantenendo l'equità. Scenari, questi illustrati, che si misurano con orizzonti di breve o medio periodo. Il prossimo governo dovrebbe trovare la forza, il coraggio e l'ambizione di affrontare anche quelli del medio-lungo e andare oltre. Mi riferisco a una riforma radicale sia sul lato delle entrate sia su quello della spesa, riforma che dovrà essere illuminata da un'idea nuova del ruolo che spetta allo Stato nell'economia, del suo peso e della qualità dei servizi che può offrire.
Questa riflessione è particolarmente urgente in Italia, dove abbiamo uno Stato altamente indebitato e altamente inefficiente, ma lo è anche in Paesi apparentemente più robusti, come dimostra il dibattito in corso negli Stati Uniti. C'è solo da augurarsi che chi ci governerà nella prossima legislatura sia all'altezza di un compito che è passaggio ineludibile per un nuovo Patto con gli italiani.

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