domenica 18 dicembre 2011

Pietro Ichino: articolo 18 e mercato del lavoro duale

Articolo di Stefano Feltri  pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 18 dicembre 2011
Il governo Monti presto costringerà il Pd a scegliere da che parte stare. Con chi vuole difendere le tutele esistenti - a cominciare dall`articolo 18 - o con chi le vuole ripensare per garantire più diritti a chi oggi è fuori dal sistema, come i giovani precari e le partite Iva. "Non credo alla licenziabilità che produce lavoro", ha detto ieri l`ex ministro del Welfare Cesare Damiano al Fatto. Gli risponde Pietro Ichino, senatore Pd, giuslavorista. Le sue posizioni sono state finora minoritarie nel Pd, ma ora sembrano coincidere con la linea del governo.
Professor Ichino, il premier Monti ha già detto che, chiusa la manovra, una delle priorità sarà la riforma del mercato del lavoro. Cosa si aspetta?
Convocherà partiti, sindacati, associazioni rappresentative di parti sociali interessate e dirà loro: "Dobbiamo adempiere entro maggio l`impegno con l`Unione europea: per i rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti, dobbiamo emanare una disciplina che sia applicabile davvero a tutti, per voltar pagina rispetto alla situazione attuale di apartheid fra protetti e non protetti". E dobbiamo farlo senza accollare, almeno per ora, maggiori costi allo Stato. Fermi questi punti, chiunque abbia buone idee sul come fare, le metta subito sul tavolo.
Cesare Damiano, sul Fatto di ieri, dice che queste sono sue posizioni personali e non del Pd.
Il discorso programmatico di Monti ha degli evidenti punti di contatto con il mio progetto Flexsecurity. E dal maggio 2010 il Pd ha preso le distanze da questo progetto. Ma quando, a gennaio, il governo indicherà quei punti fermi della riforma, il Pd non potrà esimersi dal dire come intende risolvere il problema.
Damiano l`ha detto: non è un problema di disciplina dei licenziamenti, ma solo un problema di costi. Occorre aumentare il costo del lavoro precario ed estendere a tutti gli ammortizzatori sociali.
Per gli ammortizzatori. sociali, occorre anche dire dove si reperiscono i fondi. Il mio progetto risolve questo problema a costo zero per lo Stato, utilizzando meglio una parte dei fondi che oggi vengono sperperati in cassa integrazione a zero ore e a fondo perduto, per estendere a tutti un trattamento speciale di disoccupazione; e chiedendo alle imprese di farsi carico di un trattamento complementare di disoccupazione per i lavoratori che licenziano.
Lei sostiene che riformare il lavoro implica comunque una revisione della normativa sui licenziamenti. Che nel dibattito pubblico diventa "cambiare l`articolo 18". Ma Damiano obietta: non si può abbassare le difese contro i licenziamenti in un momento di crisi come questo.
Il mio progetto non le abbassa affatto: non le tocca proprio. La riforma riguarda soltanto i nuovi rapporti che si costituiranno da qui in avanti. Per i quali non abbassa le difese, ma le rende più efficaci e soprattutto più adatte ad applicarsi davvero a tutti. E proprio in una situazione di gravissima incertezza, come questa, che le imprese sono più riluttanti ad assumere i lavoratori a tempo indeterminato e con vincoli forti al licenziamento. È proprio ora che una disciplina più flessibile è indispensabile per facilitare le assunzioni a tempo indeterminato.
Una delle perplessità sul suo progetto è che l`assicurazione per chi perde il lavoro sarebbe a carico dell`impresa. Con un aumento del costo del lavoro.
Non ci sarebbe un aumento del costo del lavoro. Oggi le imprese italiane, quando hanno necessità di sciogliere uno o più rapporti di lavoro per ragioni economiche od organizzative, affrontano un ritardo tra i due e i sei anni, a seconda delle dimensioni: un costo molto rilevante, anche se non è contabilizzato come tale. La proposta è questa: risparmiate quel costo e utilizzate una parte del risparmio per il trattamento complementare di disoccupazione a favore dei lavoratori licenziati. I costi di mercato della parte restante del trattamento, cioè dei servizi efficienti di outplacement e di riqualificazione mirata può essere coperta agevolmente dalle Regioni, attingendo anche ai contributi del Fondo Sociale Europeo.
Ma chi garantisce che le imprese non continuino ad assumere i nuovi dipendenti con la partita Iva, o con altri sotterfugi? 
Nel nuovo regime non occorreranno ispettori, avvocati e giudici per accertare il lavoro subordinato, come accade oggi. I dati rilevanti perché si applichi integralmente il nuovo diritto del lavoro emergeranno direttamente dai tabulati dell`Erario o dell`Inps: carattere continuativo del rapporto, monocommittenza, reddito medio-basso del lavoratore.
Il Pd rischia di spaccarsi sul lavoro? C`è chi parla di scissioni.
No. Accadrà soltanto che l`iniziativa decisa del governo su questo terreno costringerà il Pd a una nuova riflessione approfondita. Occorrerà chiedersi, per esempio, se sia davvero meglio il periodo di prova allungato a tre anni proposto da Damiano, oppure una regola che faccia crescere gradualmente l`indennizzo a favore per il lavoratore già dopo sei mesi di rapporto. Se sia meglio l`attuale situazione in cui l`articolo 18 si applica a meno di metà della forza-lavoro e l`altra metà è totalmente scoperta; oppure la mia riforma, che estende l`articolo 18 a tutti per la parte in cui esso serve davvero, cioè la repressione delle discriminazioni, e dà a tutti un protezione di livello scandinavo contro il licenziamento per motivi economici.
In caso il governo presenti una riforma ispirata al suo modello, su quali sponde può contare, tra Pd e Pdl?
Al Senato, una larga maggioranza del gruppo Pd sostiene il mio progetto. Tutte le componenti del Terzo polo lo hanno fatto proprio. E anche il Pdl è sostanzialmente disponibile. Già un anno fa il Senato si è pronunciato a larghissima maggioranza a favore di una mozione di Rutelli che impegnava il governo a varare una riforma modellata sul mio progetto. E anche alla Camera, credo che quando si entrerà nel merito della riforma si vedrà che le obiezioni "di sinistra" non riguardano, in realtà, questo progetto: si riferiscono a qualche cos`altro, che non è all`ordine del giorno.
La Cgil di Susanna Camusso potrebbe cercare una nuova grande battaglia per ritrovare un po` di compattezza.
Non lo credo proprio. Ce la vede, lei, la Cgil a fare le barricate contro una riforma che non tocca i lavoratori regolari stabili, e a tutti i new entrant offre un rapporto a tempo indeterminato, con articolo 18 contro le discriminazioni e una protezione di livello scandinavo su tutti gli altri fronti?

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sabato 17 dicembre 2011

Urbanistica: Verona e Firenze a confronto

Il Partito Democratico di Verona ha organizzato un incontro sul piano urbanistico di Verona e Firenze. Tale evento ha messo a confronto lo sviluppo urbanistico di Firenze e Verona.
L’incontro-confronto è stato possibile grazie alla partecipazione del presidente della commissione urbanistica del Comune di Firenze Mirko Dormentoni.
Il tema dell'incontro è stato lo sviluppo urbanistico delle città, mettendo a confronto quanto realizzato dall'amministrazione comunale di Firenze che ha programmato il suo piano urbanistico secondo il concetto dei "volumi zero" contrariamente al comune di Verona, il quale prevede una cementificazione degli spazi liberi ed uno sfruttamento del suolo molto sproporzionato rispetto alle esigenze della città. Infatti, Verona presenta una contraddizione tra l’incremento demografico della città molto contenuto e la possibilità di costruire  non allineata allo sviluppo della città del piano degli interventi. Risultato di tale contraddizione sono le migliaia di case sfitte.
“Volumi zero, ha spiegato Dormentoni, è un concetto molto attuale soprattutto all'estero ma in Italia presente solo in pochi casi. Esso presuppone un uso più attento del territorio. A Firenze, ad esempio, volumi zero significa che nessuna area vuota potrà essere trasformata in area edificabile, si punta invece al massimo recupero delle aree degradate o di vecchia edificazione. Il Piano strutturale di Firenze ha infatti stralciato 140.000 mq previsti dal vecchio PRG. Soprattutto, volumi zero significa "città nella città" ovvero città compatta e recupero dell'esistente. La riqualificazione di Firenze punta al miglioramento della qualità della vita e alla sostenibilità economica e culturale: una pianificazione urbanistica che legge le necessità di oggi ovvero, minore cementificazione e salvaguardia del verde”.
Si riportano i dati sulla situazione urbanistica di Firenze:
- Il piano strutturale di Firenze prevede superfici commerciali massime di 2.500 mq, pari a piccoli supermercati, molto lontane rispetti ai megacentri commerciali previsti a Verona
- ogni intervento di edilizia residenziale deve prevedere una quota di edilizia sociale non inferiore al 20% della superficie;
- laddove gli interventi di riqualificazione proposti su aree degradate non si integrino con l'ambiente urbano cresciuto attorno, l'area viene automaticamente ceduta a titolo gratuito al Comune che la trasforma a verde e che poi ricompensa il proprietario mediante perequazione con un'area più appropriata;
- per approvare il suo Piano strutturale, Firenze ha visto almeno 42 riunioni della commissione urbanistica e decine di assemblee sul territorio.
"Il confronto con Firenze avviene nei giorni in cui in commissione urbanistica del Comune di Verona si stanno esaminando le osservazioni al Piano del Sindaco che invece esprime un concetto opposto rispetto alla filosofia della pianificazione fiorentina, afferma Stefano Vallani, segretario cittadino Pd - questa amministrazione comunale ha stravolto il Pat eliminando la linea rossa che consentiva lo sviluppo della città compatta. Ha sviluppato un Piano degli interventi che invece di preservare la città andrà ad aggredire il territorio in tutte le circoscrizioni con concessioni ai privati al limite dell'immaginazione. Il tutto a svantaggio della vivibilità dei quartieri e della crescita sostenibile e responsabile della città. “Non esistono, conclude Vallani, più alibi per l'amministrazione ed emerge chiaramente, se ce ne fosse ancora bisogno di ricordarlo, come a Verona vince la logica degli affari di bottega anziché quella di guardare al futuro per consegnare al domani una città più vivibile e più qualificata".
Il piano degli interventi predisposto dalla Giunta Tosi, se realizzato, incide sulle caratteristiche di Verona che sono molto apprezzate dai cittadini e dai turisti. Sconvolgere la bellezza, la vivibilità e lo sviluppo moderato di Verona significa costruire un’altra città, sicuramente non gradevole ed oppressiva.

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venerdì 16 dicembre 2011

Federico Testa: politica energetica nel nostro paese

intervista a Federico Testa* a cura di Antonino Leone in corso di pubblicazione su Sistemi e Impresa
Una premessa necessaria: ma quale sarà la domanda negli anni a venire?
Negli ultimi 2 anni, infatti, la domanda di energia elettrica, in Italia come nel resto d’Europa, ha subito una significativa riduzione, imputabile certamente in primo luogo alla crisi economica, ma riconducibile in parte anche alle politiche di efficienza e risparmio messe in atto dai Governi. In ragione di questo trend, tutti gli Istituti di ricerca hanno rivisto le previsioni di crescita della domanda, ridimensionandole: così, si prevede di ritornare ai consumi del 2007 non prima dei prossimi 4-6 anni, anche se evidentemente la speranza di un’accelerazione della ripresa economica porta con sé previsioni di crescita più elevate, pur in un quadro –relativamente ai Paesi OECD- di sostanziale costanza della domanda, a fronte invece di importanti trend di crescita relativi al resto del mondo (cfr all. 1 relativo alle tendenze della domanda globale di energia e all. 2 relativo ai diversi scenari di domanda elettrica nel nostro Paese). A ciò si deve aggiungere il fatto che ulteriori aumenti della domanda possono essere generati dall’utilizzo dell’energia elettrica quale vettore energetico più flessibile (si pensi al tema raffreddamento-riscaldamento degli edifici attraverso pompe di calore e/o split elettrici) o dal perseguimento della mobilità elettrica come strada per diminuire l’inquinamento, soprattutto nei centri urbani.
In questo quadro, quali dovrebbero essere le principali linee di intervento (in ordine di priorità)?
- efficienza energetica e risparmio: perseguire l’efficienza energetica comporta investimenti di entità ridotta e con caratteristiche di pervasività sul tessuto economico. Dagli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, dalle pompe di calore, dalla sostituzione dei motori elettrici tradizionali nell’industria, dall’utilizzo della domotica intelligente, dalla sostituzione delle lampade a bassa efficienza, è possibile ottenere significativi risultati, con periodi di ritorno degli investimenti brevi ed una significativa ricaduta sul nostro tessuto economico e produttivo, sia in termini di aumento di competitività conseguente ai minori costi, sia attraverso l’attivazione di un volano produttivo in settori nei quali l’Italia possiede le competenze tecnologiche per essere leader a livello mondiale. Indicazioni di dettaglio sull’argomento sono reperibili nei recenti studi promossi da Confindustria e Amici della terra. Quanto all’educazione al risparmio energetico, si tratta di un percorso più lungo, che richiede di intervenire sulle abitudini, i modelli di consumo, la mentalità dei cittadini, ma che risulta comunque essenziale al fine di affermare un nuovo modello di sviluppo, più in sintonia con l’ambiente. Un importante contributo al risparmio può altresì derivare dalla riqualificazione, recupero di efficienza e miglioramento tecnologico delle reti di trasporto e distribuzione. Anche in questo campo, le caratteristiche produttive del nostro Paese ben si attagliano a questa logica di sviluppo, basti pensare all’automotive e alla nostra leadership nelle auto di piccola cilindrata (che naturalmente meglio potrebbero essere ri-pensate in una prospettiva di mobilità sostenibile, con l’incremento della trazione elettrica in ambito urbano, peraltro perseguibile solo intervenendo sui processi di produzione del “carburante”, cioè l’elettricità, così da ottenere una produzione a costi compatibili e senza aumentare le emissioni). L’obiettivo da porsi in termini quantitativi è quello di riuscire, negli anni futuri, a fare in modo che efficienza e risparmio energetico consentano di limitare al massimo (possibilmente tenere piatta) la crescita della domanda di energia, pur in presenza di una crescita della domanda di servizi energetici;
- fonti rinnovabili: il nostro Paese in questo settore aveva accumulato un significativo ritardo nei confronti di altri paesi ugualmente sviluppati. In questo senso, è stato opportuno per alcuni versi “forzare” i processi di incentivazione al fine di recuperare il ritardo. Ora è importante procedere sulla linea di sviluppo delle fonti rinnovabili, “aggiustando il tiro” così da:
- ottenere una ricaduta significativa sul tessuto produttivo/industriale italiano. Ad oggi questo avviene in misura parziale ed insufficiente, vuoi perché nella filiera produttiva rilevano molto i differenziali di costo di produzione (fotovoltaico in Cina), vuoi perché il ritardo accumulato ha fatto sì che la leadership tecnologica venisse acquisita da altri Paesi (eolico in Germania). E’ quindi evidente come, pur nel doveroso tentativo di recupero di questi gap, probabilmente è illusorio pensare di poter raggiungere, in queste filiere oramai mature, risultati particolarmente significativi. Opportuno quindi concentrare gli sforzi sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico di tecnologie meno mature, rispetto alle quali tuttora conserviamo leadership e competenze di prima fila, quali ad esempio il solare a concentrazione e la produzione di biocarburanti di seconda generazione;
- costruire un “percorso di sviluppo” delle fonti rinnovabili che consenta di massimizzare l’utilità degli incentivi, cogliendo fino in fondo i benefici derivanti da curve di apprendimento estremamente significative; in altre parole, cercando di approfittare della diminuzione continua e veloce dei costi di produzione per unità di energia prodotta;
- consentire l’incentivazione di impianti che abbiano una sostenibilità economica intrinseca di medio lungo periodo. Impianti eolici che “girano” 1400 ore all’anno si sostengono solo grazie a incentivi molto (troppo) generosi ed a meccanismi di rendita finanziaria che spesso portano con sè speculazioni, uso distorto del territorio, possibili ruoli non chiari della criminalità organizzata, anche a causa degli onerosi procedimenti autorizzativi. Ragionamenti analoghi possono farsi su impianti a terra nelle pianure, che spesso sottraggono per motivi speculativi risorse preziose all’agricoltura con effetti potenzialmente perversi sui prezzi degli alimentari.
- favorire l’uso termico delle fonti rinnovabili, che può contribuire significativamente all’aumento dell’efficienza ed alla costruzione di una filiera energetica italiana;
- sviluppare l’uso diffuso delle biomasse. La disponibilità complessiva di biomasse in Italia potrebbe coprire fino al 14% della domanda energetica interna. L’attuale produzione di energia da biomasse in Italia è pari a quasi il 3% del consumo globale distribuito in energia elettrica, energia termica e in biocarburanti. Le stime del GSE prospettano la possibilità di raggiungere nel 2020 una produzione annua tre volte superiore.
- collegare la diffusione delle fonti rinnovabili con lo sviluppo delle reti, sia in senso quantitativo (oggi ci sono zone del Paese dove la rete di trasmissione non è in grado di ricevere e smistare l’energia prodotta dagli impianti rinnovabili, che peraltro viene pagata lo stesso..) che in senso qualitativo: l’energia da fonti rinnovabili, tendenzialmente discontinua, va gestita da reti “intelligenti” (le cd smart grid). Favorire la diffusione di impianti di produzione molto piccoli (spesso derivante solo da facilitazioni autorizzative), oltre a non consentire di beneficiare delle economie di scala, comporta l’incremento dei costi di connessione alla rete e di gestione della rete stessa: è quindi importante trovare un punto di equilibrio economico tra tutte queste esigenze.
- evitare ricadute troppo pesanti –conseguenti ai meccanismi di incentivazione- sulle bollette elettriche di famiglie e imprese. In questo senso non può non essere registrato il fatto che sempre più una delle variabili con cui ci si deve confrontare nel caso di crisi economiche e di processi di delocalizzazione è proprio quella del costo dell’energia. Le vicende Alcoa, distretto chimico di Terni, di Ferrara, di Brindisi e di Marghera, oltre ad una più generale pressione del tessuto produttivo, ci impongono di ragionare con attenzione su questo tema, pena il rischio di una progressiva de-industrializzazione del nostro Paese.
E quanto alle fonti “tradizionali”? Quanto sin qui visto consente di affermare come, dal punto di vista tecnologico ed economico, si debba ipotizzare, per un lungo periodo di tempo ancora, la necessità di utilizzare per una quota considerevole ed importante del nostro fabbisogno le medesime modalità di produzione dell’energia che ci hanno accompagnato negli ultimi decenni e che quindi, con tutti i miglioramenti ed aggiornamenti del caso, sono destinate a farlo nel prosieguo degli anni: gas, carbone, nucleare. Ognuna di queste fonti porta con sé vantaggi e svantaggi, in termini di costi di generazione, facilità di approvvigionamento della materia prima, condizionamenti socio-politici e quindi dipendenza dall’estero, flessibilità di utilizzo, ricadute ambientali in termini di produzione di CO2, di produzione di scorie, di inquinamento legato al trasporto della materia prima, di sicurezza della tecnologia in termini di possibili ricadute sulle popolazioni che vivono nei pressi degli impianti di produzione. Ma comunque, in assenza di “salti tecnologici”, auspicabili (e per i quali si deve chiedere con forza che la ricerca e l’innovazione siano adeguatamente sostenute) ma sin qui non prevedibili, con queste alternative ci dobbiamo confrontare per un periodo di tempo non breve: è quindi indispensabile “lavorare nel merito”, per enucleare costi e benefici, vantaggi e svantaggi, delle opzioni realisticamente disponibili, così da offrire al Paese una proposta seria e credibile, che non si fondi su presupposti ideologici e aprioristici, su ricette velleitarie quanto generiche, ma che cerchi invece di fare chiarezza dello “stato dell’arte”, così da fornire agli stakeholders la griglia per le decisioni. Di seguito, per ciascuna delle “fonti tradizionali” alcune delle variabili in gioco:
- nucleare: la prospettiva del ritorno all’uso di questa tecnologia nel nostro Paese era già di per sé resa estremamente difficile –al di là delle questioni di merito- dall’approccio scelto dal Governo. La teorizzazione dell’imposizione della scelta da parte del Governo centrale, il mancato coinvolgimento delle amministrazioni locali (cfr il contenzioso con le Regioni) e delle popolazioni, i ritardi nell’emanazione dei provvedimenti, i distinguo e gli opportunismi dei Governatori di centro destra (favorevoli in teoria, ma tutti contrari alla localizzazioni di centrali nei loro territori, con le motivazioni più fantasiose e prive di fondamento logico) le beghe di potere sulle nomine all’Agenzia della Sicurezza, il suo mancato finanziamento dopo mesi (facciamo le riunioni al bar, confessa il presidente) sono la dimostrazione di un approccio più legato alla retorica del “governo del fare” che alle scelte operative concrete, ed hanno reso non credibile questa prospettiva prima che l’incidente di Fukushima costringesse nei fatti il mondo intero a riconsiderare fin dalle basi il tema della sicurezza legata all’uso della tecnologia nucleare.
- gas: rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti (ulteriormente aumentato a seguito delle vicende del Nord Africa), alla scarsa diversificazione delle fonti, prezzi della materia prima legati a quelli del petrolio ed in tendenziale crescita (soprattutto se le scelte in tema di abbandono del nucleare finiranno per “assorbire” la crescita dell’offerta conseguente allo sviluppo dell’unconventional gas), necessità investimenti (nell’attuale situazione di mercato non sempre economicamente sostenibili) in infrastrutture di trasporto e trasformazione (così da poter sfruttare vantaggi del mercato spot), criticità dell'assetto di mercato interno (non pienamente concorrenziale, con il permanere di un ruolo preponderante dell’incumbent, anche in ragione del non risolto unbundling delle reti di trasporto, che si ripercuote necessariamente sulla produzione elettrica), elevata elasticità delle centrali a ciclo combinato, tecnologia matura rispetto alla quale esistono competenze nazionali, emissioni tra le più basse tra le fonti fossili, costo di produzione dell’energia nella fascia alta tra le fonti tradizionali;
- carbone: assenza di rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti, prezzi della materia prima bassi e non legati al petrolio, limitata elasticità di utilizzo, relativa diffusione di tecnologie per l’abbattimento delle polveri in fase di escavazione, trasporto, utilizzo, emissioni di CO2 elevate in assenza di CCS (carbon capture and storage, per la quale –al di là dei costi attualmente non ipotizzabili- potrebbero sussistere anche problemi di creazione del consenso locale) e quindi in prospettiva elevata incidenza dei crediti di emissione, costo di produzione dell’energia nella fascia bassa tra le fonti tradizionali (senza crediti di emissione)
Ma quindi cosa si può dire a proposito del costo di produzione? Da quanto sopra enunciato è evidente che si stanno confrontando metodologie/impianti di produzione tra loro estremamente diversi, per quanto riguarda la struttura degli investimenti e dei costi di esercizio, nonché la dipendenza/indipendenza da fattori esogeni al di fuori del controllo degli operatori. Di qui la difficoltà di formulare comparazioni di costo significative. Solo alcune brevi considerazioni:
- se il ruolo affidato allo Stato è solo quello di vigilare sul rispetto degli standard di sicurezza, qualità, rispetto dell’ambiente e sull’accantonamento di risorse idonee ai processi di gestione del fine vita degli impianti e delle scorie, in un regime di mercato concorrenziale ogni discussione sulla convenienza di una fonte rispetto all’altra è priva di fondamento economico. Saranno infatti gli operatori che, sulla base dei vincoli posti dallo Stato a tutela dell’interesse comune, e delle opportunità tecnologiche, sceglieranno la configurazione di produzione maggiormente efficiente;
- nel caso del nucleare, l’assoluta preponderanza degli aspetti finanziari fa sì che ogni incremento dei fattori di rischio (incertezza normativa, opportunismo dei decisori politici, difficoltà di creazione del consenso locale, prolungamento dei tempi di autorizzazione/costruzione, assenza di autorevolezza dell’Agenzia di Sicurezza) si tramuti immediatamente in aumento dei tassi di finanziamento, e quindi in maggior costo di produzione. In proposito, la scelta del Governo italiano di non puntare sulla costruzione di processi di coinvolgimento, quanto piuttosto su logiche autoritarie e centralistiche, già da prima della scelta di moratoria suscitava non pochi dubbi;
- nel caso del gas, in assenza di un disaccoppiamento reale e consolidato tra prezzi del gas e prezzi del petrolio, conseguente all’ulteriore sviluppo dell’estrazione di unconventional gas (che peraltro pare non essere del tutto esente da significative problematiche ambientali), il rischio che fattori non controllabili relativi sia alle dinamiche politiche di aree particolarmente esposte che all’incremento di domanda di Paesi emergenti, possano far ritornare il prezzo del petrolio e del gas su valori difficilmente compatibili con l’attuale modello di sviluppo economico, non è affatto trascurabile;
- non può infine essere dimenticata l’incidenza delle politiche a tutela dell’ambiente sulle scelte di produzione e sui relativi costi. Il carbone certamente non comporta rischi geopolitici, è disponibile in grandi quantità, costa poco, ma….. come si è visto presenta altri problemi (che si possono affrontare, ma che a loro volta comportano costi ulteriori e forse qualche possibile difficoltà di costruzione del consenso). In ogni caso se, come è auspicabile, proseguiranno gli sforzi comuni per diminuire le conseguenze ambientali della produzione di energia, quanto più elevato sarà il costo attribuito alle emissioni di CO2, tanto più si verrà di conseguenza a modificare la “griglia delle convenienze” degli operatori. E questo è un ulteriore elemento di incertezza.
Che ruolo giocano le reti di trasporto? se l’energia fosse prodotta lì dove viene utilizzata, non ci sarebbe evidentemente bisogno di reti di trasporto. Ma questo non avviene, per molte ragioni (tecniche, geografiche, storiche, legate ai processi economici e sociali di ciascun territorio). Allora lo sviluppo della rete può contribuire ad eliminare alla base eventuali rendite di posizione, mettendo in concorrenza tra loro impianti di territori diversi, mandando fuori mercato gli impianti più costosi ed obsoleti e consentendo così un costante miglioramento dell’efficienza del parco di generazione. Non diversamente nel caso del gas, là dove per esempio potrebbe essere inefficiente localizzare i rigassificatori al sud a fronte di consumi concentrati al nord (i produttori risparmiano un giorno di nave gasiera ma poi si dovrebbero raddoppiare la rete di trasporto e relativi contro flussi sud-nord). Poiché i costi relativi alla gestione di tutto questo, in ogni caso, li pagano due volte i consumatori, vuoi con le tariffe finalizzate allo sviluppo delle reti, vuoi con le bollette in ragione delle congestioni che si vengono a creare nelle divisioni/separazioni del mercato, è evidente l’interesse collettivo alla individuazione di un “punto di equilibrio” che minimizzi i costi sociali. Emerge quindi chiaramente che qualsiasi strategia di produzione energetica non può prescindere dall’affrontare contestualmente il nodo reti, in modo da far procedere in parallelo le due cose.
Ma è un sogno una politica energetica europea? E’ davvero impossibile pensare di costruire una politica energetica che superi il livello nazionale, per integrare i sistemi energetici continentali e per realizzare l’interconnessione dell’intero spazio mediterraneo (anche Nord Africa per intercettare gli impianti del progetto Desertec, se verrà effettivamente realizzato a costi competitivi)? Questo permetterebbe di effettuare una “divisione del lavoro” tra i vari Paesi, che valorizzi specificità, competenze, storie industriali, ad esempio concentrando l’eolico nel nord Europa, dove i venti sono forti e costanti, ed i fondali bassi per l’off-shore, utilizzando il carbone ed il nucleare tedesco, così come il nucleare francese, per fare la produzione di base (base load) per tutta l’Europa, ed i cicli combinati italiani per la modulazione dell’offerta. Quest’ipotesi, affascinante, ha però bisogno della costruzione di un sistema europeo che superi gli egoismi nazionali e la logica per cui ogni paese deve avere un suo campione nazionale, e di investimenti importantissimi nelle reti di trasmissione, nazionali e transnazionali, che superino i colli di bottiglia esistenti, che nascono dalla storia e dalle logiche nazionali, ma sono anche funzionali –dobbiamo saperlo- ad arbitraggi e rendite di posizione dei vari produttori (spesso proprio i “campioni nazionali”)
Per finire, quale deve essere l’assetto di mercato futuro? il rilancio delle politiche di liberalizzazione può offrire più di una leva per ridurre gli oneri sui prezzi dell'energia, direttamente riconducibili alla bassa concorrenzialità del mercato. Il peso che questi oneri determinano, in misura diretta e indiretta, è equiparabile al peso degli incentivi sulle rinnovabili (oneri di dispacciamento al Sud, transito gas, ecc). La soluzione dei sussidi agli energivori è sicuramente un modo per mettere a tacere il problema, mantenendo però tutte le inefficienze e le rendite di posizione e caricando ulteriormente gli oneri impropri per le famiglie e le piccole imprese. Le soluzioni tampone (tipo inteconnector e stoccaggi virtuali o tariffe speciali) sono talmente comode per tutti coloro che “hanno voce” (grandi produttori e grandi consumatori) che si finisce per dimenticare la strada maestra, che è quella di aprire davvero il mercato, rendendolo pienamente concorrenziale, ad iniziare dalla reale terzietà delle infrastrutture di trasporto. Questi sono, in maniera schematica ma con buona approssimazione, gli elementi di valutazione di base per la costruzione di un’organica strategia energetica per l’Italia: con questi ci si deve oggi confrontare nel concreto, senza vagheggiare soluzioni futuribili o salti tecnologici al momento non ipotizzabili, senza confondere legittime aspirazioni e realtà, “sporcandosi le mani” con la miglior “quadratura” possibile tra esigenze ambientali, ricerca della competitività del sistema-paese, rischio di deindustrializzazione, individuazione del corretto modello di sviluppo. E tutto ciò richiede capacità di decisione, assunzione di responsabilità, trasparenza dei processi, costruzione della condivisione, rigore nelle scelte e nei comportamenti.

* Federico Testa è docente di Economia e gestione dell’impresa presso l’Università di Verona, parlamentare del Partito Democratico e membro della commissione attività produttive.

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mercoledì 14 dicembre 2011

Guido Papalia e Guido Melis: corruzione e criminalità

L’incontro, organizzato dal Partito Democratico di Verona, è riuscito per la partecipazione attenta ed attiva dei cittadini veronesi. Gli argomenti molto impegnativi sono stati affrontati dai relatori con molta efficacia ed hanno suscitato l’interesse dei convenuti.
E’ intervenuto Vincenzo D’Arienzo, segretario del PD di Verona, che ha ringraziato i partecipanti ed ha sottolineato i pericoli di infiltrazione della criminalità organizzata a Verona a causa degli investimenti, di cui è interessato il territorio scaligero. Per tale motivo ha richiesto a tutta la classe politica molta attenzione ed ha proposto un accordo con le istituzioni al fine di respingere eventuali fenomeni criminali che potrebbero manifestarsi.
L’incontro è stato presieduto da Franco Bonfante, vice presidente del Consiglio Regionale Veneto, il quale ha ricordato i fenomeni criminali che hanno interessato la Provincia di Verona ed il disegno di legge per disciplinare i rapporti tra la Regione e le lobby, il quale è stato sabotato dall’attuale maggioranza di centro destra in Regione. Bonfante ha informato i presenti che il gruppo regionale del PD sta preparando un disegno di legge sulla prevenzione del crimine organizzato e mafioso.
Guido Melis, deputato del Pd della commissione Giustizia ma storico di professione, ha iniziato il suo intervento con una memoria d’altri tempi. Nel 1913 – ha detto – capitò ad Attilio Brunialti, eminente consigliere di Stato e amico di Giolitti, “uno di quegli incidenti che raramente si ripetono”: “gli fu intestata una casa senza che ne fosse a conoscenza”. L’episodio – ha spiegato Melis – si inquadrava nello scandalo del Palazzo di giustizia romano (il cosiddetto “palazzaccio”) e Brunialti era accusato di aver presieduto una commissione arbitrale favorendo l’impresa che poi gli avrebbe …intestato la casa. Scoppiato il caso, il presidente del Consiglio di Stato propose a Giolitti di mettere tutto a tacere in cambio delle dimissioni del Brunialti. Ma Giolitti rifiutò. Chiese e pretese la commissione di disciplina e l’allontanamento del reo dal Consiglio di Stato. Episodio istruttivo – ha sostenuto Melis - , che denota una sensibilità della politica verso la correttezza amministrativa che in tempi più recenti si è andata molto attenuando.
Secondo Melis al dilagare della corruzione concorrono alcuni fattori strutturali: in primo luogo la soppressione o quasi dei grandi corpi ispettivi dell’amministrazione, in grado in passato di intervenire istantaneamente senza attendere l’eventuale iniziativa di un giudice e la condanna penale; e in secondo luogo la fine dei corpi tecnici (a cominciare da quelli preposti alle opere pubbliche) che garantivano un tempo allo Stato di poter valutare minuto per munito la congruenza degli appalti e lo stato di avanzamento delle opere pubbliche. Melis ha molto insistito sul fatto che la lotta alla corruzione ha successo se si esprime con misure preventive , e non meramente repressive. Occorre innanzitutto ripristinare una opinione pubblica attenta, che davvero si indigni dinnanzi alla corruzione (il berlusconismo, in questo senso, ha fatto dei disastri, indebolendo molto queste autodifese del corpo sociale). Ma bisogna pure agire sul contesto generale nel quale la corruzione matura: la politica deve stare più distante dall’amministrazione, la pubblica amministrazione stessa dev’essere autorevole (reclutata per concorso, valutata secondo il merito), la dirigenza amministrativa deve avere una sua specifica capacità di resistere alle pressioni esterne degli interessi. Si tratta di lavorare con una legislazione adeguata ma soprattutto con una prassi costante, ricostruendo mattone dopo mattone l’edificio della credibilità dell’apparato pubblico. “La scure del magistrato è spesso indispensabile – ha concluso Melis -, ma non può sostituire il bisturi tempestivo della buona e corretta amministrazione, che interviene subito e elimina il fenomeno corruttivo al suo nascere”.
Guido Papalia, procuratore generale della Corte di Appello di Brescia, ha dichiarato che, come espressamente affermato in vari strumenti internazionali che sollecitano l'impegno di tutti gli Stati contro tale forma di criminalità, “la corruzione è una "piaga insidiosa" che, tra l'altro, minaccia la democrazia, cagiona gravi danni economici e aiuta lo sviluppo della criminalità organizzata. Questa mala pianta oggi è molto diffusa nel nostro paese e alligna anche a Verona e viene percepita come una "tassa" o un "pizzo" ingiusto e insopportabile dai cittadini”.
“Se all' epoca della c.d. "tangentopoli", ha spiegato Papalia, la corruzione era stata regolamentata e gestita direttamente dai partiti che amministravano la cosa pubblica e facevano parte con i propri rappresentanti legali dei c.d. "comitati d'affari", cittadini che imponevano le tangenti e le distribuivano tra le varie rappresentanze a seconda del peso politico di ciascun partito e, all'interno di ogni partito, a seconda del peso delle varie correnti, oggi tale attività criminale e opera di personaggi singoli che agiscono come "cani sciolti" che si fanno appoggiare da poteri occulti, preesistenti o appositamente creati (P3, P4, ecc.), e che, purtroppo, riescono ad acquisire molto potere e ad inquinare dall'interno i gangli più alti dell'apparato politico”.
“Se è certamente importante, continua Papalia, un intervento sul versante preventivo/amministrativo, secondo le linee tracciate dall'on. Melis, è altrettanto urgente e necessaria una riforma sul versante repressivo/penale. Come già accade in molti altri paese europei e come è espressamente raccomandato da molte convenzioni internazionali, deve essere prevista la punizione anche di chi funge da intermediario facendosi dare soldi o altri utilità per influire sul comportamento di un pubblico ufficiale (c.d. traffico di influenze) e di chi vende la propria funzione venendo, iscritto al cosiddetto "libro paga", in violazione del principio costituzionale secondo cui la pubblica funzione deve essere esercitata con disciplina e onore, indipendentemente dal compimento di un determinato atto di ufficio che, spesso, è difficilmente individuabile”.
“Altrettanto importante, conclude Guido Papalia, è una rivisitazione del reato di abuso di ufficio che consenta di intervenire più efficacemente in tutti i casi di conflitto di interessi che si verificano quando, come sempre più spesso accade, il pubblico amministratore è anche imprenditore o affarista, nonché una reintroduzione come fattispecie penale effettivamente sanzionata, del reato di falso in bilancio. Una particolare attenzione deve essere, poi, rivolta da chiunque ha responsabilità politico/amministrative ai tentativi di infiltrazione mafiosa nella gestione della cosa pubblica. Se fino a qualche anno fa l'intervento diretto della mafia nella gestione degli affari politico/amministrativi sembrava avvenire esclusivamente nelle regioni del sud dove la mafia e tradizionalmente ben radicata, oggi, come hanno dimostrato recenti indagini della magistratura sull'asse Milano Reggio Calabria, tale pericolo è presente anche in molte zone del nord Italia”.
“L’Italia pur rimanendo la settima potenza industriale nel mondo, afferma Antonino Leone (responsabile PA del PD di Verona), presenta fattori di debolezza strutturale misurati e valutati da organismi internazionali: alto livello di corruzione, alta opacità (bassa trasparenza), il ranking più basso per la competitività tra i paesi del G7. Inoltre, presenta alcuni fenomeni che sembrano incontrollabili: - l’evasione fiscale con un imponibile evaso ogni anno di circa 270 miliardi e un’imposta evasa di circa 125 miliardi; - l’economia criminale che fattura il 10% del Pil che ammonta a circa 100-135 miliardi con una imposta evasa di circa 63 miliardi”. “Fenomeni questi, continua Antonino Leone, che possono essere combattuti adeguatamente anche con uno scambio tra i cittadini e le istituzioni: - Meno privacy per i cittadini e più trasparenza per lo Stato; - Meno riservatezza da parte delle Istituzioni e più trasparenza a favore dei cittadini. Il primo punto consente allo Stato di utilizzare l’informazione analitica attraverso l’elaborazione di dati ed informazioni per contrastare l’evasione fiscale e l’economia criminale (flussi di pagamento, dichiarazione fiscale). Il secondo consente ai cittadini di controllare in modo costante l’operato degli amministratori e di partecipare con proposte ed interventi al fine di migliorare l’erogazione dei servizi, eliminare i costi inutili e gli sprechi che non ci possiamo più permettere (performance, indicatori) e recuperare il rapporto di fiducia con i cittadini. Occorre riorganizzare controlli mirati ed adeguati che, basandosi sulle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, consentano allo Stato di assumere decisioni ed intraprendere azioni efficaci e di creare capacità distintive per combattere il fenomeno della corruzione e della criminalità ed un vantaggio competitivo nei confronti della criminalità organizzata”.
“Il Partito Democratico di Verona, conclude Antonino Leone, è impegnato a rimuovere gli ostacoli di natura culturale e creare nuove prospettive affinché la cultura della franchezza, della sincerità e della trasparenza possa affermarsi nel sistema politico e nelle enti locali della Provincia”.
Dopo le relazioni introduttive sono stati numerosi gli interventi dei partecipanti che hanno posto dei quesiti e chiesto chiarimenti ai relatori, i quali hanno risposto con completezza e disponibilità. Sonia Todesco, dirigente della Cgil, ha sottolineato gli ostacoli insormontabili che si incontrano nel sistema pubblico nell’affrontare il problema della corruzione in particolar modo da parte dei dirigenti e Gabriella Dimitri, dirigente dell’Azienda Ospedaliera di Verona, ha espresso l’urgenza di ripristinare i concorsi pubblici e la valutazione delle competenze nel processo di selezione delle risorse umane nel settore della sanità.

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venerdì 9 dicembre 2011

Intervista a Guido Melis: trasparenza, corruzione, criminalità

Guido Melis è deputato del Partito Democratico, membro della commissione giustizia, studioso e docente della Pubblica Amministrazione.
Lunedì 12 dicembre, alle ore 18,30, insieme a Guido Papalia, procuratore generale della Corte d’Appello di Brescia, interviene all’incontro sul tema "Trasparenza, competenze e legalità per contrastare corruzione, clientelismo e criminalità”. L’incontro, presieduto da Franco Bonfante, si terrà a Verona presso la sala Liston 12, piazza Bra 12.

E’ finita un’epoca ma rimangono gli effetti devastanti, causati da Silvio Berlusconi, dal suo gigantesco conflitto di interesse, dalle sue norme salva-corrotti, dagli atteggiamenti (parole ed opere) della sua classe dirigente. Come eliminare adesso i condizionamenti che ne derivano sulla società e intraprendere un cammino opposto, di solidarietà, trasparenza e onestà?
In effetti è probabilmente finito Berlusconi come leader, ma non hanno cessato di produrre i loro effetti tossici le macerie lasciate dal berlusconismo in quanto ideologia di massa. Capiremo col tempo quanto è cambiata, nell’Italia degli ultimi 20 anni, l’etica pubblica, come è stata modificata in peggio la soglia stessa della morale collettiva. Il berlusconismo, innestandosi in un’antica debolezza dell’Italia unita (poco senso dello Stato, familismo, persistenza delle reti clientelari), ha abbassato ancora di più le autodifese contro la corruzione, resi leciti comportamenti prima bene o male isolati dal giudizio dell’opinione pubblica, favorito il dilagare nel Paese non solo della grande ma anche della piccola corruzione. La stampa locale è fitta di esempi: il professore che vende gli esami magari per sesso, la segretaria di una scuola media che saccheggia la cassa scolastica credendo di farla franca, l’imprenditore che truffa il fisco e paga in nero i dipendenti, il politico locale che intasca la bustarella per il piccolo appalto, l’affittacamere che sfrutta gli immigrati, il ristoratore che offre la cena ai militi della guardia di finanza purché chiudano un occhio ... E’ un panorama desolante, ma ancora più desolante è che un tempo questi fatti generavano, venendo alla luce, la condanna della collettività, mentre oggi incontrano una specie di tolleranza, che qualche volta scade in comprensione e persino in complicità occulta. “Il mondo è dei furbi”, si dice. “Beato lui che c’è riuscito, magari potessi farlo anche io”. Nessuno pensa che ogni reato di questo tipo (perché si tratta di reati, penalmente rilevanti) danneggia in realtà la collettività stessa, e quindi grava sulle tasche di noi tutti.
Come se ne esce, Lei mi domanda. Rispondo: con un’azione, necessariamente lunga e faticosa, di ripristino della moralità pubblica. Che ha due componenti: una penale (i corrotti, a tutti i livelli, devono essere colpiti; il delitto non deve pagare); la seconda culturale, di dissuasione etica: e qui c’è moltissimo da lavorare. Bisogna innanzitutto bonificare la politica, che del fenomeno costituisce il campo principale. E lo si può fare attraverso l’azione virtuosa dei gruppi dirigenti, selezionandoli democraticamente e non più cooptandoli (legge elettorale nuova, dunque), e poi dotando i partiti e le associazioni di precisi codici etici. Il Pd fu il primo partito italiano a scrivere un suo codice etico. Non sempre è stato capace di applicarlo rigorosamente. Ma la strada è quella. Si deve e si può fare di più.
Inoltre si deve tenere il più possibile la politica lontana dagli affari: dunque incompatibilità di funzioni, rispetto delle clausole di ineleggibilità, una legislazione seria sul conflitto di interessi, più trasparenza nel finanziamento dei partiti, verifiche vere sui bilanci dei partiti ecc.
Quali sono le cause che hanno determinato il fallimento della riforma dell’amministrazione (riforma Brunetta)?
Potremmo chiederci anche, più in generale, come mai dopo oltre 30 anni di politiche pubbliche per la riforma amministrativa, siamo ancora quasi fermi al punto zero. Io ho seguito molto, da studioso delle istituzioni amministrative e politiche, questi tentativi di riforma. Cominciò Massimo Severo Giannini, nel 1979-80, da ministro di un governo Cossiga. Giannini era il più grande esperto del tema, non solo in Italia. Presentò un suo puntuale rapporto in Parlamento dove c’erano già tutte le linee base di una riforma efficace. Sperammo tutti che fosse arrivata la volta buona. Ma alla prima crisetta di governo Giannini fu scaricato e sostituito da un oscuro ministro democristiano, tale Darida. La riforma Giannini fu seppellita negli archivi.
Ci tentò di nuovo il primo allievo di Giannini, Sabino Cassese, nel 1993-94 (governo Ciampi). Fu molto concreto e produsse un programma molto interessante, basato sul principio che l’amministrazione non deve funzionare per i suoi dirigenti e dipendenti ma piuttosto per i cittadini. Anche in quel caso però, con le elezioni del 1994 e la vittoria di Berlusconi, la riforma scomparve nei cassetti.
Bassanini ha avuto il merito di riprenderne il filo nel 1996-2003. Ha molto legiferato, introducendo semplificazioni e riorganizzazioni certamente utili. Riprendendo la linea del 1993 (decreto legislativo sulla contrattualizzazione del pubblico impiego) ha cercato di assimilare i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici a quelli privati, con risultati per la verità contraddittori. In generale la struttura burocratica ha resistito all’innovazione, anche se certamente l’amministrazione ha cominciato a cambiare pelle. Però il cambiamento non ha avuto un segno univoco. E’ successo un po’ quello che nella storia amministrativa italiana è una costante: quando si introduce una novità, questa non si sostituisce all’assetto precedente ma va a convivervi, se possibile complicando il modello burocratico. Dopo Bassanini il vecchio schema burocratico centralista di derivazione ottocentesca (quello delle direzioni generali, per intenderci, ereditato da Cavour) è sopravvissuto, ma convivendo con forme organizzative e contrattuali nuove. Dal che un di più di complicazione. Si aggiunga che lo spoils system, cui Bassanini aveva dato una certa attuazione, ha ricevuto coi ministri di centrodestra suoi successori una intensificazione e un accrescimento tali da privare definitivamente la dirigenza amministrativa di quel poco di autonomia dalla politica che ancora conservava. E nella prossimità troppo accentuata tra amministrazione e politica si annida sempre il germe della corruzione.
La riforma Brunetta è stato un’incompiuta. Molte promesse mirabolanti all’inizio, pochi fatti, anzi quasi nessuno, alla fine. Certi suoi atteggiamenti aggressivi gli hanno reso ancora più difficile il lavoro. Perché una riforma amministrativa – ecco il punto – non può venire da fuori, frutto di un’élite estranea all’amministrazione ma deve coinvolgere gli oltre 3 milioni di donne e uomini che negli uffici ci vivono e ci lavorano. Deve convincerli e conquistarli. E che non è affatto detto che non possano essere loro la punta di diamante della riforma, se ne saranno convinti.
Vede, l’amministrazione non è un optional. Non esiste Stato moderno senza un saldo apparato amministrativo. Ma come distribuire sul territorio questo apparato, a quali livelli e enti pubblici attribuirne la responsabilità, come farlo lavorare, con che metodi, obiettivi, criteri di valutazione, retribuzioni, questo è tutta materia da discutere. E’ molto importante – credo – che ciascuno faccia la sua parte. Nel mio sistema ideale politica e amministrazione collaborano. La politica stabilisce obiettivi e scenari generali, mettendo a disposizione le risorse. L’amministrazione, dotata di una sua reale autonomia e responsabilità, garantisce i risultati. Per far funzionare questo sistema ideale ci vogliono però due condizioni: una politica capace di capire i problemi dell’amministrazione (mentre spesso i ministri non sanno cosa è l’amministrazione) e una amministrazione realmente indipendente (quindi prima di tutto fuori dallo spoils system) capace di tradurre in attività amministrativa gli obiettivi della politica.
L’Italia, oltre alla crisi economica che speriamo possa essere superata dall’impegno del governo Monti, presenta un tasso allarmante di corruzione. Come affrontare questo problema?
Sì, siamo al top delle classifiche mondiali dei paesi corrotti, o giù di lì. Con effetti gravissimi sulla stessa economia, perché la corruzione scoraggia gli investitori. La prima cosa da fare è eliminare quello che è l’ambiente della corruzione amministrativa, e cioè la lentezza e macchinosità delle procedure, la poca trasparenza dell’amministrazione, il dominio incontrollato delle burocrazie abituate a ragionare sulla carta. La corruzione prospera se l’azione amministrativa è lenta, farraginosa, priva di principi certi e conosciuti. Se io, funzionario, blocco tutte le pratiche poi posso dire a te, imprenditore che stai sulle spese, “se mi paghi metto la tua pratica in cima alla pila da esaminare”. Quindi dobbiamo imporre verifiche di tempi e costi, standard medi, ispezioni, monitoraggio dell’attività degli uffici, specie di quelli a contatto con i grandi interessi. La seconda cosa da fare è ripristinare le ispezioni. Questa è una lunga storia, che affonda negli anni della prima Repubblica. Noi avevamo, sia pure non tanto come la Francia, dei corpi ispettivi adeguati, capaci di intervenire tempestivamente, prima del giudice penale e talvolta anche in sostituzione dell’inchiesta giudiziaria, al primo sentore di corruzione. Ebbene, dagli anni Settanta in poi, li abbiamo sistematicamente demoliti. Oggi li troviamo talvolta sulla carta, ma la loro composizione non è adeguata, perché i loro funzionari sono prevalentemente dei laureati in giurisprudenza, abituati a un controllo formale sull’applicazione delle norme, mentre dovremmo dotarci di esperti nelle materie sulle quali insiste concretamente l’attività amministrativa.
E questo è il corollario che ne deriva: ci sono troppi avvocati, nei nostri uffici pubblici, e troppo pochi ingegneri, tecnici, aziendalisti, economisti, esperti del mercato ecc. Persino le amministrazioni tecniche di una volta, come erano i lavori pubblici, sono piene di laureati in legge. Sicché se io, Stato, devo controllare un grande appalto su un’opera mi manca la competenza per poter entrare nel merito del capitolato e mi devo affidare a una expertise esterna non sempre efficace (mentre i grandi appaltatori sono dotati del fior fiore dei tecnici del loro settore e sono in grado di darmi scacco matto).
Ci vuole insomma più competenza tecnica specifica, più esperti a difesa dello Stato. E poi, naturalmente, più attenzione e coraggio nel colpire i corrotti. L’idea balzana che per allontanare un impiegato infedele dal suo posto occorra una sentenza del giudice penale, magari di terzo grado, mi pare inaccettabile. Si prenda l’amministrazione le sue responsabilità, faccia la sua brava inchiesta e poi proceda, coi mezzi che ha, senza attendere il giudice. E i sindacati evitino di difendere (come talvolta hanno fatto) oltre la stessa decenza il dipendente infedele.
Alcuni studiosi sottolineano il rischio di penetrazione dell’economia criminale, la quale rappresenta oggi l’unica organizzazione illegale che detiene liquidità. L’attuale Governo come può affrontare questa emergenza?
Esistono leggi, anche recenti, sul contrasto alla grande criminalità in campo economico. Vanno applicate con rigore. Ma soprattutto va perfezionata la rete degli avvisatori, cioè quell’azione – già oggi in atto – per segnalare tempestivamente la penetrazione criminale e contrastarla sul nascere. Più che leggi nuove, mi pare occorra molta buona amministrazione. E risorse adeguate. Uno dei punti critici del precedente governo è stato che, nella politica dei tagli lineari, si è lasciata la polizia senza benzina per le macchine e con organici incompleti.
La trasparenza è indicata come fattore indispensabile per contrastare le organizzazioni che basano il loro successo sulle bugie (esempio il crollo dei mercati finanziari). Quando è importante questo fattore e come può incidere sulla gestione delle organizzazioni e della pubblica amministrazione in particolare?
La trasparenza amministrativa è la condizione fondamentale perché i cittadini possano controllare l’amministrazione, e dunque, democraticamente, la stessa attività del governo. Dalle mie parti, in Sardegna, c’è un detto popolare che suona più o meno così: “la casa della giustizia deve essere di vetro”. Se la casa della giustizia non è di vetro, se il cittadino non vede da fuori cosa vi accade dentro, allora si sentirà lontano e magari sarà portato a cercare altrove le sue risposte alla domanda di giustizia. La stessa metafora potremmo impiegarla per l’amministrazione. Grazie specialmente all’azione di Bassanini molto si è fatto su questo terreno (il responsabile del procedimento, ad esempio, è stata una buona riforma), ma non abbastanza. Naturalmente una amministrazione più trasparente è anche più responsabile di quello che fa (quindi non può essere etero-diretta dalla politica sin nei minimi movimenti) ed è autoconsapevole del suo ruolo.
Profitto di questa ultima battuta per introdurre un cenno alla dirigenza: noi abbiamo avuto in Italia, dal 1972 in poi quando fu istituita la dirigenza, un eccesso di dirigenti, con effetti perversi sull’esercizio stesso della funzione (come nell’esercito dei ragazzi della via Pal, un romanzo che leggevamo da ragazzini: tutti generali, un solo soldato semplice). Dobbiamo restituire alla dirigenza prestigio, autonomia dalla politica, responsabilità. Ciò vale per i ministeri ma anche per le regioni e gli enti locali in genere. Una buona dirigenza amministrativa, autonoma dalla politica, competente e preparata, capace di assumersi le sue responsabilità è la condizione fondamentale senza la quale non c’è riforma amministrativa che tenga.

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martedì 6 dicembre 2011

Guido Papalia e Guido Melis a Verona

Il Partito Democratico di Verona ha organizzato un incontro sul seguente tema:

Trasparenza, competenze e legalità per contrastare  corruzione, clientelismo e criminalità

L’incontro si svolgerà il giorno 12 dicembre 2011, alle ore 18,30, presso la Sala Liston 12, Piazza Bra 12 – Verona

L’incontro è cosi articolato:
Saluti di Vincenzo D’Arienzo, segretario PD di Verona
Presiede l’incontro Franco Bonfante, vice presidente del Consiglio Regionale Veneto

Interventi di :
- Guido Melis, parlamentare PD e membro della commissione giustizia
- Guido Papalia, procuratore generale della Corte d’Appello di Brescia
- Antonino Leone, responsabile PA del PD di Verona

L’Italia oltre alla grave crisi economica, la quale si spera venga superata dall’impegno del Governo Monti dopo la pessima esperienza del Governo Berlusconi, presenta un alto tasso di corruzione.
La classifica dell'organizzazione Transparency International che ha presentato a Berlino il CPI 2011, corruption perception index annuale, ci pone al 69esimo posto su 182 paesi, quartultimi in Europa, davanti solo a Grecia, Romania e Bulgaria. Risultato molto negativo ed invariato rispetto all'anno scorso. Una macchia che pesa anche sull'euro, sottolinea Transparency, che ci considera accoppiati alla Grecia, in pessima posizione. E indica al tempo stesso come la corruzione stia aggravando la crisi del debito in Europa.
L’alto tasso di corruzione indica che in Italia vi è una bassa trasparenza che non aiuta certamente gli investimenti esteri nel paese e non facilita il rapporto tra le PA ed i cittadini.
Un fenomeno molto pericoloso è rappresentato dalla economia criminale che penetra nel sistema economico ed istituzionale e rappresenta l’unica organizzazione in questo momento di crisi a possedere notevole liquidità finanziaria.
Per gli argomenti che verranno trattati e per la qualità dei relatori si ritiene l’incontro molto interessante ed utile per capire alcuni fenomeni negativi che esistono nel nostro paese.

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sabato 3 dicembre 2011

Pietro Ichino: Lavoro, Cgil e Pd

Intervista a cura di Maurizio Tortorella, pubblicata da Panorama il 1° dicembre 2011
Professore, nel suo ultimo libro «Inchiesta sul lavoro» lei si sottopone alle domande di un immaginario ispettore che la interroga su una «denuncia» collettiva presentata contro di lei dall’interno del Partito democratico. È una finzione letteraria… che, a ben vedere, assomiglia molto alla realtà di questi giorni. Lei soffre, di questa sua «diversità» nel centrosinistra?
Se ne soffrissi, avrei smesso di farne parte già da molto tempo. L’intellettuale, lo studioso, l’opinionista che fa politica è sempre un “diverso” rispetto al politico di professione.
Perché?
Perché il politico di professione deve cercare il consenso immediato dell’opinione pubblica, mentre il compito dello studioso impegnato in politica è di guardare un po’ più lontano, cercare di costruire un ponte fra il consenso di oggi e quello di domani.
Negli ultimi tre anni, in effetti, lei ha ricevuto critiche fortissime dalla sua stessa parte politica: c’è chi le ha contestato addirittura il diritto politico di restare dentro al Pd, per le sue idee. Come risponde a questo tipo di contestazioni?
È stato così anche negli anni ’70 quando sostenevo che occorreva riconoscere e regolare il part-time; o all’inizio degli anni ’80 quando sostenevo la necessità di abolire il monopolio statale dei servizi di collocamento; o quando ho scritto il libro “A che cosa serve il sindacato”, nel 2005, sostenendo che occorre consentire alla contrattazione aziendale di derogare al contratto collettivo nazionale. Su tutti questi punti, nel giro di cinque o dieci anni, la sinistra politica e sindacale ha finito col far proprie le mie idee. Oggi il pomo della discordia è il progetto flexsecurity; e qui i tempi di maturazione sono stati molto più brevi: sono bastati due anni.
Sarà, ma di recente il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, ha contestato alla radice questo suo progetto di riforma del diritto del lavoro: il 28 ottobre l’ha bollato come espressione di «un’ideologia fallita» e di «miopi interessi materiali». Come ha preso quella messa all’indice?
Ci ho ritrovato pari pari i toni dell’ispettore che conduce l’inchiesta nel mio libro. A Fassina, comunque, ho chiesto di passare dagli anatemi al merito del progetto: di dire, cioè, che cosa secondo lui è sbagliato, in concreto, e come va corretto.
Lui sostiene che il progetto flexsecurity è appoggiato soltanto dal due per cento del Pd.
Non mi è chiaro da dove nasca questo dato. Deve essere comunque un due per cento potentissimo, visto che è riuscito a prendersi la maggioranza dell’intero gruppo dei senatori democratici, tra i quali due vicepresidenti del Senato, poi i leader delle due grandi minoranze del partito,Walter Veltroni e Ignazio Marino, il vicepresidente del partito Ivan Scalfarotto, l’intera associazione Liberal Pd presieduta da Enzo Bianco. Quel due per cento riesce persino a infiltrarsi tra le file della maggioranza contagiandone esponenti di primo piano come Enrico Letta, Massimo D’Alema e Giuliano Amato.
Quel «niet» di Fassina sembrava quasi una messa all’indice: un’iniziativa d’altri tempi. Il lessico stesso faceva pensare ad altri processi ideologici. Non si è sentito un po’ sul banco degli imputati? No: ho letto piuttosto in quelle dichiarazioni la preoccupazione del responsabile dell’Economia del Pd per lo squilibrio tra l’attenzione che tutte le forze politiche, i giornali, le radio e le tv stanno dedicando al mio progetto di riforma, e il silenzio che circonda la proposta ufficiale del Pd. Il fatto è che nessuno ha davvero capito quale sia oggi questa proposta, per voltar pagina rispetto al regime attuale di apartheid fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro.
La proposta ufficiale del Pd è di aumentare i contributi previdenziali sulle paghe dei lavoratori atipici, in modo che il lavoro precario costi di più. Ma questa proposta è stata già attuata con la legge di stabilità del settembre scorso. Non credo che Fassina possa sostenere che con questo il problema sia stato definitivamente risolto.
Ora Fassina è sotto scacco, per la richiesta di dimissioni presentata contro di lui da Enzo Bianco e dai «liberal» del Pd. Lei però se n’è dissociato: forse è in cerca di una tregua con l’anima più intransigente del Pd? Ho criticato chi ha voluto personalizzare lo scontro nei miei confronti: ora non ho certo intenzione di fare altrettanto io verso altri. Quel che chiedo è solo che chi mi contesta legga i contenuti del mio progetto ed entri nel merito della questione: dica, cioè, dove esso va corretto e come.
Al Senato, nel marzo 2009, il suo progetto di legge per la «Flexsecurity» fu sottoscritto da più di 50 altri senatori del Pd, alcuni dei quali molto noti. Eppure lei solo si espone in questa battaglia, scomoda e pericolosa. Non le pesa, questa solitudine? Non è così. Quando, il 10 novembre dell’anno scorso, Francesco Rutelli presentò al Senato una mozione che impegnava il Governo a varare una riforma del Codice del lavoro ispirata al mio disegno di legge, quasi tutto il Gruppo Pd la ha votata, insieme al Terzo Polo e a quasi tutto il Pdl. E, nonostante i malumori di qualche dirigente centrale, tutto il Pd ha votato con grande convinzione la fiducia al Governo Monti, che pone questa riforma tra le più rilevanti del suo programma, senza una parola di dissenso in proposito nel dibattito in Parlamento. E questa scelta ha fatto crescere di due punti il consenso al Pd nell’opinione pubblica. Raramente mi sono sentito in sintonia con il mio partito come in questa scelta difficile e coraggiosa. Forse a temere di restar solo oggi è qualcun altro.
La metta come vuole, ma dalla presentazione del progetto al Senato sono passati più di due anni, nei quali lei ha continuato a scrivere e a spiegare, ma il suo partito è rimasto contrario. Perché parte della sinistra, e grandissima parte della Cgil, non riescono a vedere la positività contenuta nella sua idea di riforma? Questa parte della sinistra politica e sindacale che resta contraria, è bloccata dalla paura del “piano inclinato”. Dicono: “se si incomincia a modificare lo Statuto dei lavoratori si sa dove si incomincia ma non dove si va a finire. Se lo tocchiamo noi lo possono toccare anche gli altri. Meglio che non lo tocchi nessuno”. Non si rendono conto che l’argomento del “piano inclinato” è sempre stato l’argomento principe, il cavallo di battaglia di tutti i conservatorismi.
Certo, alla sua popolarità a sinistra non ha giovato la posizione che prese l’anno scorso sul piano della Fiat per Pomigliano: lei osò contraddire la Fiom, che gridava alla Costituzione violata. Dissero che era un servo di Marchionne. Nel suo libro, oggi, scrive che la Fiom “usò tecniche mediatiche della Terza Internazionale comunista”. Che fa, raddoppia? Non ha paura di nuovi ostracismi? La Fiom aveva bisogno di troncare il dibattito sul merito di quel piano industriale. Per questo denunciò una “violazione della legge e della Costituzione”, che in realtà non c’erano affatto. C’era solo la violazione del tabù dell’inderogabilità del contratto collettivo nazionale. Ma che quel tabù dovesse essere abbattuto lo avevo già sostenuto e argomentato nel libro del 2005 “A che cosa serve il sindacato”. La mia presa di posizione, nella vicenda Fiat, era solo lo sviluppo coerente delle tesi sostenute in quel libro. Del resto, la stessa Cgil alla fine ha dovuto darmi ragione.
Quando mai?
Quando ha firmato l’accordo interconfederale del 28 giugno scorso, che sancisce appunto una ampia derogabilità del contratto nazionale da parte del contratto aziendale. La Fiom non è d’accordo; ma ora la Cgil ha accettato questo principio. E anche, sia pure in ritardo, la segreteria del Pd.
Che cosa pensa dell’uscita della Fiat di Marchionne da Confindustria? Il principio del pluralismo sindacale vale sia sul versante dei lavoratori, sia su quello degli imprenditori. Non mi sembra, dunque, che si debba menare scandalo per il fatto che una grande impresa rifiuti di farsi rappresentare dalla Confindustria. E può essere utile anche ai lavoratori che modelli diversi di relazioni industriali si confrontino e competano nel nostro Paese: perché questo può porre in evidenza difetti e incrostazioni del vecchio sistema predominante, che finiscono coll’avere effetti depressivi sul trattamento degli stessi lavoratori.
Ma Marchionne ha anche disdettato tutti gli accordi e contratti collettivi fin qui in vigore.
Lo ha fatto per poter dare al Gruppo Fiat un suo contratto nazionale. Anche di questo non mi sembra proprio il caso di scandalizzarsi: quando i produttori di spazzole e pennelli, che danno lavoro a poche centinaia di lavoratori, hanno deciso di staccarsi dal contratto dei tessili per darsi un contratto su misura per loro, hanno ben potuto farlo, aggiungendo un contratto nazionale agli altri 400 già esistenti in Italia. Perché non potrebbe farlo anche un gruppo imprenditoriale che in Italia dà lavoro a 70.000 persone, se la maggioranza di queste è d’accordo, per allineare la loro organizzazione del lavoro a quella di altre centinaia di migliaia cui lo stesso gruppo dà lavoro in molti altri Paesi, in ogni parte del mondo?
Perché in Italia è tanto pericoloso indicare strade di riforma nel settore del mercato del lavoro? Perché la dialettica politica in Italia nella seconda metà del secolo scorso ha avuto un’evoluzione diversa, e per molti aspetti deteriore, rispetto ad altri Paesi, come la Germania o la Spagna.
Quale assurda legge non scritta impedisce, soprattutto agli uomini della sinistra, di sfiorare certi fili? Non è una legge. È il tasso di faziosità del sistema politico, che da noi è molto più alto che altrove. Ed è quello che induce anche gli uomini della destra ad affrontare questi temi preferibilmente in modo provocatorio, sperando sotto sotto che la reazione pavloviana della sinistra sbarri loro la strada.
Lei ha mai avuto paura per la sua vita?
Sì, dopo l’assassinio di Massimo D’Antona, fino a quello di Marco Biagi, quando è stato attivato per me il dispositivo di protezione. In quel periodo gli assassini erano ancora in circolazione e mi capitava di sognare l’aggressione, oppure, uscendo di casa, di pensare che quello poteva essere il luogo dove mi avrebbero trovato steso a terra, il giorno dell’attentato.
Tempo fa alcuni dirigenti della Cgil di Ferrara hanno restituito la tessera per protestare contro la Provincia, governata dal Pd, che l’aveva invitata come relatore a un convegno sul lavoro. Queste manifestazioni d’intolleranza non rischiano di essere il viatico per altri tipi di violenza?
Non esageriamo! È davvero sbagliato pensare che ci sia un collegamento tra questa sinistra un po’ invecchiata e il terrorismo. Del resto, non vedo segni di un ritorno di attualità della lotta politica armata.
Però lei è ancora sotto scorta, a quasi dieci anni dall’assassinio di Marco Biagi. Ora che i nuovi brigatisti sono stati arrestati, ho chiesto più volte di esserne esentato, ma gli analisti della Digos ritengono ancora prudente mantenere il dispositivo
Quanto le pesa questa condizione?
È un sacrificio della mia libertà. Ma fa parte di un servizio civile che mi tocca: non ho diritto a sottrarmi. Ai nostri padri e nonni è stato chiesto di rischiare la vita in guerre che non valeva la pena di combattere; molto meglio rischiarla in questa battaglia per il progresso civile del Paese. E non mi considero sfortunato: dalla vita ho avuto comunque dieci volte di più di quello che riceve una persona normalmente fortunata.
Quanto ha giocato, contro di lei, la notizia che nell’aprile 2008 Silvio Berlusconi le aveva proposto il ministero del Lavoro e, dopo il suo rifiuto, la presidenza della commissione Lavoro al Senato?
Non credo che abbia giocato contro di me. Né nel Pd, né nel centrodestra. Forse, invece, ha giocato a favore. Perché è stata un’occasione per mostrare che non combatto la mia battaglia per ottenere poltrone o prestigio personale.
Allora nel Pd ci fu chi la sospettò di «intelligenza col nemico», e ne parla anche nel suo libro: ma l’accusa era davvero infondata? No, era fondatissima. Ho sempre coltivato rapporti di dialogo intenso con le persone della parte avversa. Si impara sempre molto di più in questo modo, che parlando soltanto con chi sta dalla nostra parte.
Aveva avuto qualche contatto con Berlusconi prima di quella proposta? No, non ci eravamo mai incontrati né parlati.
Comunque, a partire dal 2008, dev’essere difficile reggere a quel tipo di accusa…
Guardi che quell’accusa dà un’immagine caricaturale dei rapporti interni al Pd. Nella realtà tutti i dirigenti del Pd, anche quelli che non condividono le mie idee e proposte, mi rispettano e hanno con me un rapporto cordialissimo. E ogni settimana ricevo una dozzina di inviti a incontri pubblici promossi dalle federazioni o i circoli Pd di tutt’Italia.
È peggio vivere sottoposti a quel tipo di sospetto, oppure essere additato per «nemico del popolo» e «assassino», come nel giugno 2010 gridavano dalla gabbia del tribunale di Milano gli ultimi brigatisti, dopo la condanna d’appello? Forse non mi sono spiegato bene. Tutti i dirigenti del Pd, nessuno escluso, hanno solidarizzato sinceramente con me quando è accaduto quell’episodio durante il processo ai brigatisti.
Il suo essere controcorrente dura almeno da una trentina d’anni. Lei entrò per la prima volta in Parlamento nel 1979, col Pci. Nel 1983 non fu ricandidato proprio per le sue idee, eppure restò nel partito. Perché?
Dica pure quarant’anni: ho incominciato a lavorare nella Cgil nel 1969. Certo, nella Cgil dei Lama e dei Trentin ero già un po’ controcorrente su alcuni temi, ma in quei primi dieci anni le cose sono filate tutto sommato in modo molto liscio. Sia allora, sia dopo, quello che mi ha legato al movimento sindacale, al mondo del lavoro, sono le tantissime persone che ho conosciuto nelle assemblee di fabbrica, nei circoli, negli stand delle feste, nelle camere del lavoro. È a loro che sento di dover restituire il moltissimo che ho ricevuto in sorte, per il fatto di aver potuto studiare lungo tutta la vita. E mi sembra che il modo migliore in cui posso farlo è contribuire alla crescita di una cultura del lavoro e industriale moderna, in un Paese per questo aspetto molto arretrato.
Non ha mai lasciato nemmeno la tessera Cgil, di cui è stato dirigente sindacale fino al 1979: eppure anche la Cgil ha manifestato dissensi anche aspri nei suoi confronti. Come mai? Per una ragione affettiva: è stata la mia casa negli anni forse più belli della mia vita. Poi, perché ho conservato tanti amici nella Cgil. E nella Cgil ci sono tantissime persone che la pensano come me. In realtà, la base della Cgil è molto meno diversa da quella della Cisl e della Uil di quanto non si pensi. E oggi anche la base della Cgil è schierata in larga maggioranza a sostegno del Governo Monti.
Quali sono secondo lei i tre punti irrinunciabili dai quali dovrebbe partire oggi l’attività del governo Monti per riformare il mercato del lavoro? Quelli che ha indicato lo stesso premier nel discorso programmatico del 17 settembre al Senato: consolidare la riforma delle relazioni industriali portata dall’accordo interconfederale del 28 giugno, con un netto spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso le aziende, un nuovo diritto del lavoro semplice e universale per tutti i nuovi contratti di lavoro nel segno della flexsecurity, l’eliminazione di sprechi e rendite nel settore pubblico.
Che cosa pensa di Susanna Camusso? Nel suo libro non si sbilancia sul segretario della Cgil. Ma lei invece ha molto criticato le sue idee, tacciandola di “avventurismo”. Non si riferiva a me quando ha parlato di “avventurismo”. Comunque Susanna deve guidare una grande organizzazione complessa; e io ho molto rispetto per quel mestiere difficilissimo. In generale, non mi scandalizzo affatto per il fatto che i dirigenti politici e sindacali debbano prendere le distanze da quel che dico o propongo: loro devono tener conto dei problemi del consenso immediato, mentre il mio compito è capire che cosa accadrà domani. Sono due mestieri diversi, che richiedono sovente comportamenti diversi. L’importante è capire che sono entrambi indispensabili.
Ma davvero il mestiere del sindacalista comporta di assumere posizioni così radicalmente conservatrici? Non pensa che la Cgil dovrebbe differenziare di più la sua linea dalla Fiom? Questo lo penso anch’io da molto tempo. Ma il vero problema non è la lentezza della Cgil in questa evoluzione: il problema è il potere di veto che a questa Cgil è stato riconosciuto di fatto nel nostro sistema. Ora, finalmente, con l’accordo interconfederale del 28 giugno e la regola di democrazia sindacale che esso ha introdotto, si sono poste le basi per superare quel diritto di veto.
Insomma, lei non ha mai avuto la tentazione di «cambiare casacca»?
Non l’ho mai avuta, quella tentazione, perché ho sempre avuto la percezione che, sia pure un po’ in ritardo, le mie idee avrebbero finito comunque per essere metabolizzate e fatte proprie dal mio partito e dal mio sindacato. Effettivamente ho sempre avuto ragione: è sempre andata così. La buona politica è fatta di coerenza e di pazienza. Andrà così anche questa volta, con il progetto flexsecurity; e questa volta le cose stanno evolvendo più in fretta che in passato.
Che cosa pensa di Nicola Rossi, il consigliere economico di Massimo D’Alema che non trovando spazio nel Pd oggi è diventato consulente economico di Luca Cordero di Montezemolo? Capisco la sua scelta. Penso, però, che le idee per le quali si batte la fondazione di Montezemolo “Italia Futura”, quelle appunto di Nicola Rossi, di Irene Tinagli, di Michele Ainis, abbiano pieno diritto di cittadinanza dentro il Pd. E, finché questo sarà possibile mi batterò perché esse diventino parte integrante e centrale nel programma stesso del Pd.
È evidente, comunque, che lei difficilmente sarà ministro del lavoro, in un governo di destra come in uno di sinistra. Lo sa, vero? Tanto lo so, che ho intitolato il primo capitolo di quest’ultimo libro “Come non diventare ministro del Lavoro e vivere felici”.

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venerdì 2 dicembre 2011

Michele Bertucco, una candidatura forte e significativa

 

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giovedì 1 dicembre 2011

Isola della Scala: opacità alta su Ospedale e Bilanci dell’Ente Fiera

A Isola della Scala stiamo assistendo a al lento, silenzioso, progressivo svuotamento dell’Ospedale: si parla già di chiusura entro dicembre 2011 di molti reparti che verranno trasferiti a Villafranca o Bussolengo, e di conseguenza  anche il pronto Soccorso è destinato a chiudere.  Anche il servizio prelievi del laboratorio analisi è spesso chiuso senza preavviso e al distretto  la disponibilità degli specialisti è sempre più ridotta.
Cosa sta succedendo? Possibile che chiudano l’Ospedale e il distretto senza che i cittadini vengano avvisati? E il personale che lavora lì senza risparmiarsi nell’illusione di sopperire alle carenze della struttura, non ha forse diritto di sapere cosa lo aspetta? Ci troveremo da un giorno all’altro con un cartello con scritto “CHIUSO“ davanti al Pronto Soccorso?  
Non possiamo certo dire che siamo sorpresi , perché da anni viviamo con la minaccia di chiusura: siamo consapevoli  che non si può tenere aperto un buon ospedale per acuti in ogni paese  e che la politica sanitaria veneta prevede tagli al pubblico e finanziamenti ai privati.  Ma per anni  siamo stati illusi dalla  possibilità di concessioni straordinarie a Isola, conquistate grazie a politici locali che ancora oggi si pongono in competizione con gli ospedali dei comuni vicini invece che lavorare a un progetto innovativo di sanità sul territorio. Però Il risultato è che adesso viene confermato il potenziamento dell’ospedale di Villafranca.
Credo sia normale che i cittadini abbiano fiducia nei politici che hanno eletto: quello che non si può accettare è l’utilizzo dei bisogni della gente per fini elettoralistici e la mancanza di trasparenza.
Perché i nostri amministratori non ci hanno mai spiegato quale fosse la reale prospettiva della sanità del nostro territorio? Perché il sindaco -che è il responsabile della salute pubblica - non vuole convocare una bella assemblea pubblica in cui ci dice quello che sta succedendo e chiede agli isolani di cosa hanno bisogno? Probabilmente avrebbe delle sorprese, perché la gente ha buon senso e al sistema sanitario non chiede l’impossibile, ma di essere curata quando perde la salute.
Il sindaco Miozzi non ha parlato del futuro dell’ospedale e del distretto né in consiglio comunale, né con i capogruppo, né con i cittadini. Perché non vuole far partecipare la popolazione alle soluzioni da proporre?
Sono tante le cose che a Isola non si devono sapere: noi del gruppo consiliare Isola Nostra Bene Comune assieme al gruppo Isola5 Stelle abbiamo presentato - con garbo - molte proposte al fine di promuovere la trasparenza e la partecipazione, perché ci fidiamo della gente, e crediamo che queste siano condizioni fondamentali per il nuovo patto sociale tra cittadini e il Comune. Le nostre proposte sono tutte inascoltate.
Abbiamo chiesto di poter riprendere il Consiglio Comunale con web-cam in modo che anche da casa si possa seguire il Consiglio Comunale, ma sembra che questo necessiti di un regolamento ad hoc anche se le riunioni sono pubbliche. Non è mai stata convocata la conferenza dei capogruppo e nemmeno 3 delle4 commissioni consiliari. Da giugno non vengono fatti i bandi per la selezione dei candidati non politici da nominare negli enti comunali. Abbiamo chiesto che venga fatta una assemblea sulla sanità e l’ospedale ma anche questa si farà quando le decisioni saranno già prese.
Ma oltre all’Ospedale c’è un altro grande mistero: l’Ente Fiera Isola della Scala srl. Abbiamo chiesto di vedere il regolamento di utilizzo del Palariso da parte di cittadini e associazioni, ma sembra che questo ancora non sia stato approvato nonostante venga concesso a partiti e associazioni non isolane. Il nostro Comune ha concesso per 25 anni tutta l’area fieristica e il Palariso all’Ente Fiera e ancora non c’è un regolamento per l’utilizzo! Abbiamo chiesto di sapere quando sarà pronto il parco del Tartaro e quando il Palariso potrà ospitare concerti, fiere e spettacoli, ma anche questo non si sa. Abbiamo chiesto 2 volte che vengano pubblicati sul sito dell’Ente Fiera i regolamenti e i BILANCI a norma di legge, ma anche questo non è stato fatto. L’Ente Fiera gestisce entrate per più di 3 milioni di euro senza dare nemmeno un euro al nostro Comune, e i Bilanci non sono pubblicati sul sito come dovrebbe a norma di legge! Come possiamo accettare di non sapere?
Anche quest’anno forse assieme agli auguri di Natale riceveremo un giornalino patinato con l’elenco delle cose fatte dall’amministrazione: ma questa non è informazione, è propaganda. Noi invece vogliamo conoscere, perché “quello che non conosciamo non ci appartiene”.
Chiara Chiappa Capogruppo consiliare Isola Nostra bene Comune

Si informa che martedì 6 dicembre, alle ore 20,30, presso la sala Civica in via Cavour, si terrà un’assemblea pubblica sull’Ospedale di Isola della Scala, organizzata dal gruppo consiliare Isola nostra il bene comune e dal circolo PD

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