Articolo di Valerio Onida pubblicato su Il Sole 24 Ore 8 giugno 2010
Davvero è necessario modificare la Costituzione (in particolare l'articolo 41) per eliminare eccessi di regole e di burocrazia che ostacolano l'esercizio di attività imprenditoriali?
Certamente no: la Costituzione stabilisce solo dei principi generali, difficilmente contestabili. L'articolo 41, dopo avere affermato che «l'iniziativa economica privata è libera», aggiunge che «essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
Non dà quindi certo fondamento, e tanto meno impone, la fissazione di regole eccessive e inutili: o vogliamo affermare solennemente che l'iniziativa economica può svolgersi anche «in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana»?
Si dice: "utilità sociale" è un criterio troppo vago (in realtà significa semplicemente che ci possono essere - e ci sono - interessi collettivi, sociali, che legittimano limiti ai modi in cui l'iniziativa economica si può esercitare). Ma chi stabilisce quali sono questi interessi, e quali limitazioni essi giustificano? Non certo un qualsiasi burocrate, né una qualsiasi amministrazione pubblica abilitata a decidere in piena discrezionalità o peggio arbitrariamente: è la legge (o la normativa regolamentare applicativa della legge) che può imporre limitazioni in nome dell'utilità sociale, e così, per fare un solo esempio, può stabilire quali requisiti igienici, a tutela dei consumatori, deve possedere un ristorante o un bar.
L'articolo 41 continua infatti precisando che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». La legge non dovrebbe poter coordinare e indirizzare l'attività economica "a fini sociali", cioè in nome d'interessi generali valutati e apprezzati dal legislatore?
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con eccessi di regolazione che, in ipotesi, siano oggi rinvenibili nella legislazione. Se essi ci sono, si possono eliminare cambiando le leggi. Eliminazione dell'eccessiva molteplicità degli adempimenti, concentrazione delle competenze (sportelli unici), riduzione dei tempi, più ampio ricorso alle autocertificazioni, sostituzione di autorizzazioni preventive con controlli ex post (salvo, in questo caso, domandarsi se i controlli funzionano davvero: ma questo è un altro discorso) sono tutte linee d'indirizzo perfettamente compatibili col dettato costituzionale e del resto già da tempo proposte e avviate in taluni settori. La Costituzione non c'entra. Da discutere semmai sono solo i limiti sostanziali che si ritiene giusto o meno debbano presidiare certe iniziative economiche (per esempio a tutela della sicurezza dei lavoratori, o per combattere l'evasione fiscale). Ma questo è un discorso di merito, che va fatto caso per caso.
Non è mai accaduto - mai - nel nostro paese che la Corte costituzionale abbia dichiarato l'illegittimità costituzionale di una legge "liberalizzatrice" che rimuovesse impacci eccessivi e inutili allo svolgimento di attività economiche. Semmai gli ostacoli sono venuti, in sede politica, dalle resistenze degli apparati o dagli interessi colpiti. Al contrario, è avvenuto non di rado che la Corte abbia dichiarato l'illegittimità costituzionale di leggi che stabilivano limiti ritenuti ingiustificati o troppo discrezionali alla libertà d'iniziativa (dall'imponibile di mano d'opera in agricoltura negli anni 50 ai vincoli regionali per le agenzie di viaggio negli anni 90 e Duemila), difendendo dunque quest'ultima, in nome della Costituzione.
Non dimentichiamo infine che alcune regole, fra quelle che talvolta vengono indicate come responsabili di oneri eccessivi a carico delle imprese (per esempio quelle che fissano standard obbligatori per certi prodotti), sono stabilite da norme dell'Unione Europea e dunque, qualunque cosa dicesse la Costituzione italiana, resterebbero pienamente applicabili e vincolanti fino a quando non fosse il legislatore europeo a modificarle.
Tutto questo è perfettamente noto a imprenditori, parlamentari e ministri. Se ci si chiede allora quale possa essere il motivo reale della "trovata" sulla modifica dell'articolo 41 della Costituzione, si è costretti a concludere che si tratta di un semplice diversivo, che può avere solo altri scopi o altri effetti (sarebbe invece grave, se si volesse davvero smantellare ogni baluardo costituzionale a difesa dell'interesse collettivo).
Forse si cerca di spostare sul terreno costituzionale un dibattito su misure reali che la politica non riesce a precisare ragionevolmente e a realizzare (e sarebbe un nuovo contributo all'opera sciagurata, già a lungo svolta, di "denigrazione" della Carta fondamentale). Oppure può essere che si vogliano così giustificare provvedimenti che non sembra facile fondare su basi politico-legislative razionali. Per esempio le ventilate misure di "sospensione" per qualche anno di regole ritenute eccessive (ma se sono davvero eccessive, perché non abolirle o cambiarle, semplicemente? E se non lo sono, che senso avrebbe sospenderle?), nella solita logica della deroga e dell'emergenza; o misure "localizzate" come le zone "a burocrazia zero", previste dal'articolo 43 del decreto legge sulla manovra, in cui l'avvio di imprese dovrebbe essere autorizzato in unica istanza da un commissario del governo, sostituendo i provvedimenti di ogni altra autorità centrale, regionale o locale. Bell'esempio di "federalismo"! In realtà, ancora una volta, siamo alla logica delle procedure in deroga e dei commissariamenti (che qualche volta, è vero, possono servire, ma non possono diventare un "sistema").
In ogni caso la Costituzione non c'entra. È cosa troppo seria perché si possa consentire di coinvolgerla e strumentalizzarla a beneficio di scelte o di non scelte politiche.
L'articolo 41 continua infatti precisando che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». La legge non dovrebbe poter coordinare e indirizzare l'attività economica "a fini sociali", cioè in nome d'interessi generali valutati e apprezzati dal legislatore?
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con eccessi di regolazione che, in ipotesi, siano oggi rinvenibili nella legislazione. Se essi ci sono, si possono eliminare cambiando le leggi. Eliminazione dell'eccessiva molteplicità degli adempimenti, concentrazione delle competenze (sportelli unici), riduzione dei tempi, più ampio ricorso alle autocertificazioni, sostituzione di autorizzazioni preventive con controlli ex post (salvo, in questo caso, domandarsi se i controlli funzionano davvero: ma questo è un altro discorso) sono tutte linee d'indirizzo perfettamente compatibili col dettato costituzionale e del resto già da tempo proposte e avviate in taluni settori. La Costituzione non c'entra. Da discutere semmai sono solo i limiti sostanziali che si ritiene giusto o meno debbano presidiare certe iniziative economiche (per esempio a tutela della sicurezza dei lavoratori, o per combattere l'evasione fiscale). Ma questo è un discorso di merito, che va fatto caso per caso.
Non è mai accaduto - mai - nel nostro paese che la Corte costituzionale abbia dichiarato l'illegittimità costituzionale di una legge "liberalizzatrice" che rimuovesse impacci eccessivi e inutili allo svolgimento di attività economiche. Semmai gli ostacoli sono venuti, in sede politica, dalle resistenze degli apparati o dagli interessi colpiti. Al contrario, è avvenuto non di rado che la Corte abbia dichiarato l'illegittimità costituzionale di leggi che stabilivano limiti ritenuti ingiustificati o troppo discrezionali alla libertà d'iniziativa (dall'imponibile di mano d'opera in agricoltura negli anni 50 ai vincoli regionali per le agenzie di viaggio negli anni 90 e Duemila), difendendo dunque quest'ultima, in nome della Costituzione.
Non dimentichiamo infine che alcune regole, fra quelle che talvolta vengono indicate come responsabili di oneri eccessivi a carico delle imprese (per esempio quelle che fissano standard obbligatori per certi prodotti), sono stabilite da norme dell'Unione Europea e dunque, qualunque cosa dicesse la Costituzione italiana, resterebbero pienamente applicabili e vincolanti fino a quando non fosse il legislatore europeo a modificarle.
Tutto questo è perfettamente noto a imprenditori, parlamentari e ministri. Se ci si chiede allora quale possa essere il motivo reale della "trovata" sulla modifica dell'articolo 41 della Costituzione, si è costretti a concludere che si tratta di un semplice diversivo, che può avere solo altri scopi o altri effetti (sarebbe invece grave, se si volesse davvero smantellare ogni baluardo costituzionale a difesa dell'interesse collettivo).
Forse si cerca di spostare sul terreno costituzionale un dibattito su misure reali che la politica non riesce a precisare ragionevolmente e a realizzare (e sarebbe un nuovo contributo all'opera sciagurata, già a lungo svolta, di "denigrazione" della Carta fondamentale). Oppure può essere che si vogliano così giustificare provvedimenti che non sembra facile fondare su basi politico-legislative razionali. Per esempio le ventilate misure di "sospensione" per qualche anno di regole ritenute eccessive (ma se sono davvero eccessive, perché non abolirle o cambiarle, semplicemente? E se non lo sono, che senso avrebbe sospenderle?), nella solita logica della deroga e dell'emergenza; o misure "localizzate" come le zone "a burocrazia zero", previste dal'articolo 43 del decreto legge sulla manovra, in cui l'avvio di imprese dovrebbe essere autorizzato in unica istanza da un commissario del governo, sostituendo i provvedimenti di ogni altra autorità centrale, regionale o locale. Bell'esempio di "federalismo"! In realtà, ancora una volta, siamo alla logica delle procedure in deroga e dei commissariamenti (che qualche volta, è vero, possono servire, ma non possono diventare un "sistema").
In ogni caso la Costituzione non c'entra. È cosa troppo seria perché si possa consentire di coinvolgerla e strumentalizzarla a beneficio di scelte o di non scelte politiche.
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