articolo di Federico Testa pubblicato su Management delle utilities n. 1/2011
Di energia si parla molto, nel nostro Paese. Un po’ perché certamente è un tema importante ai fini della qualità della vita delle famiglie e della possibilità per le nostre imprese di essere competitive, “stare sul mercato”. Ma un po’ anche perché l’argomento è di quelli che “scalda”, si presta alla discussione –spesso accesa- tra opposte certezze assolute. E questo naturalmente comporta un rischio assai grave: che le ragioni di merito finiscano per essere “oscurate” dalla polemica, dalla strumentalità, dallo schieramento aprioristico finalizzato alla raccolta o al mantenimento del consenso, che si preferisca cioè la discussione sulle petizioni di principio, sui massimi sistemi, piuttosto che confrontarsi con le scelte concrete, con i loro vincoli e condizionamenti. Ed in questo la politica non fa certo eccezione….. Così, l'articolo 7 della legge n. 133 del 2008 prevedeva una delibera del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dello Sviluppo Economico, che definisse la “Strategia Energetica Nazionale”, in modo da indicare le priorità di breve e lungo periodo per il nostro Paese. Sono passati oramai molti mesi dalla scadenza del termine entro cui il citato documento doveva essere presentato, e non se ne ha notizia. Questo non significa che nulla sia stato fatto: dal nucleare, agli assetti del mercato del gas, al recente recepimento della direttiva quadro sulle fonti rinnovabili, sono molti i provvedimenti che si sono susseguiti, senza però che tutto ciò rendesse meno necessaria la definizione di una strategia che andasse al di là del modello di produzione di energia per il futuro (25% rinnovabili, 25% nucleare, 50% fossili), enunciato dall’ex ministro Scajola pochi giorni dopo l’insediamento del Governo Berlusconi. Ma è ipotizzabile pensare di delineare una strategia complessa come quella energetica sulla base di uno slogan, o non sarebbe stato meglio se la discussione sul merito dei provvedimenti specifici fosse avvenuta a valle di un approccio complessivo e articolato alle problematiche energetiche del nostro Paese? In sostanza: ha senso ragionare per spezzoni? Non sarebbe indispensabile costruire in primo luogo un quadro prospettico d’insieme, anche per dare a tutti (operatori, comunità interessate, cittadini) gli elementi di merito necessari per poter esprime le proprie valutazioni ragionate?
Con questo lavoro, senza alcuna pretesa di esaustività o completezza, si vuole provare a delineare schematicamente, in maniera quasi didascalica, senza riferimenti bibliografici o analisi quantitative di dettaglio (di qui la “leggerezza” di cui al titolo…) che potrebbero appesantire il testo e far di conseguenza perdere di vista il “filo logico”, una riflessione sulle scelte prospettiche -con riferimento prevalentemente alla produzione di elettricità- che il nostro Paese sarà chiamato ad affrontare, nella speranza che attraverso la discussione aperta e trasparente sia possibile superare steccati e approcci ideologici che -troppo spesso- finiscono per “congelare ogni scelta” nell’illusione che quella di non decidere non sia a sua volta una scelta, spesso la più sbagliata, e questo a maggior ragione quando si ha a che fare con settori –quali quello in esame- per loro natura capital intensive, per i quali l’incertezza degli scenari necessariamente significa taglio degli investimenti.
Una premessa necessaria: ma quale sarà la domanda negli anni a venire? Negli ultimi 2 anni, infatti, la domanda di energia elettrica, in Italia come nel resto d’Europa, ha subito una significativa riduzione, imputabile certamente in primo luogo alla crisi economica, ma riconducibile in parte anche alle politiche di efficienza e risparmio messe in atto dai Governi. In ragione di questo trend, tutti gli Istituti di ricerca hanno rivisto le previsioni di crescita della domanda, ridimensionandole: così, si prevede di ritornare ai consumi del 2007 non prima dei prossimi 4-6 anni, anche se evidentemente la speranza di un’accelerazione della ripresa economica porta con sé previsioni di crescita più elevate. A ciò si deve aggiungere il fatto che ulteriori aumenti della domanda possono essere generati dall’utilizzo dell’energia elettrica quale vettore energetico più flessibile (si pensi al tema raffreddamento-riscaldamento degli edifici attraverso pompe di calore e/o split elettrici) o dal perseguimento della mobilità elettrica come strada per diminuire l’inquinamento, soprattutto nei centri urbani.
In questo quadro, è possibile ragionare di un percorso che si dia le seguenti principali linee di intervento (in ordine di priorità):
- efficienza energetica e risparmio: perseguire l’efficienza energetica comporta investimenti di entità ridotta e con caratteristiche di pervasività sul tessuto economico. Dagli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, dalle pompe di calore, dalla sostituzione dei motori elettrici tradizionali nell’industria, dall’utilizzo della domotica intelligente, dalla sostituzione delle lampade a bassa efficienza, è possibile ottenere significativi risultati, con periodi di ritorno degli investimenti brevi ed una significativa ricaduta sul nostro tessuto economico e produttivo, sia in termini di aumento di competitività conseguente ai minori costi, sia attraverso l’attivazione di un volano produttivo in settori nei quali l’Italia possiede le competenze tecnologiche per essere leader a livello mondiale. Indicazioni di dettaglio sull’argomento sono reperibili nei recenti studi promossi da Confindustria e Amici della terra. Quanto all’educazione al risparmio energetico, si tratta di un percorso più lungo, che richiede di intervenire sulle abitudini, i modelli di consumo, la mentalità dei cittadini, ma che risulta comunque essenziale al fine di affermare un nuovo modello di sviluppo, più in sintonia con l’ambiente. Un importante contributo al risparmio può altresì derivare dalla riqualificazione, recupero di efficienza e miglioramento tecnologico delle reti di trasporto e distribuzione. Anche in questo campo, le caratteristiche produttive del nostro Paese ben si attagliano a questa logica di sviluppo, basti pensare all’automotive e alla nostra leadership nelle auto di piccola cilindrata (che naturalmente meglio potrebbero essere ri-pensate in una prospettiva di mobilità sostenibile, con l’incremento della trazione elettrica in ambito urbano, peraltro perseguibile solo intervenendo sui processi di produzione del “carburante”, cioè l’elettricità, così da ottenere una produzione a costi compatibili e senza aumentare le emissioni). L’obiettivo da porsi in termini quantitativi è quello di riuscire, negli anni futuri, a fare in modo che efficienza e risparmio energetico consentano di limitare al massimo (possibilmente tenere piatta) la crescita della domanda di energia, pur in presenza di una crescita della domanda di servizi energetici;
- fonti rinnovabili: il nostro Paese in questo settore aveva accumulato un significativo ritardo nei confronti di altri paesi ugualmente sviluppati. In questo senso, è stato opportuno per alcuni versi “forzare” i processi di incentivazione al fine di recuperare il ritardo. Ora si impone una riflessione che, nel perseguimento dello sviluppo al massimo potenziale delle fonti rinnovabili nel nostro Paese, consenta anche:
- di ottenere una ricaduta significativa sul tessuto produttivo/industriale italiano. Ad oggi questo avviene in misura parziale ed insufficiente, vuoi perché nella filiera produttiva rilevano molto i differenziali di costo di produzione (fotovoltaico in Cina), vuoi perché il ritardo accumulato ha fatto sì che la leadership tecnologica venisse acquisita da altri Paesi (eolico in Germania). E’ quindi evidente come, pur nel doveroso tentativo di recupero di questi gap, probabilmente è illusorio pensare di poter raggiungere, in queste filiere oramai mature, risultati particolarmente significativi. Opportuno quindi concentrare gli sforzi sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico di tecnologie meno mature, rispetto alle quali tuttora conserviamo leadership e competenze di prima fila, quali ad esempio il solare a concentrazione e la produzione di biocarburanti di seconda generazione;
- di consentire l’incentivazione di impianti rinnovabili che abbiano una sostenibilità economica intrinseca di medio lungo periodo. Impianti eolici che “girano” 1400 ore all’anno si sostengono solo grazie a incentivi molto (troppo) generosi ed a meccanismi di rendita finanziaria che spesso portano con sé speculazioni, uso distorto del territorio, possibili ruoli non chiari della criminalità organizzata, anche a causa degli onerosi procedimenti autorizzativi. Ragionamenti analoghi possono farsi su impianti a terra nelle pianure, che spesso sottraggono per motivi speculativi risorse preziose all’agricoltura con effetti potenzialmente perversi sui prezzi degli alimentari.
- di collegare la diffusione delle fonti rinnovabili con lo sviluppo delle reti, sia in senso quantitativo (oggi ci sono zone del Paese dove la rete di trasmissione non è in grado di ricevere e smistare l’energia prodotta dagli impianti rinnovabili, che peraltro viene pagata lo stesso..) che in senso qualitativo: l’energia da fonti rinnovabili, tendenzialmente discontinua, va gestita da reti “intelligenti” (le cd smart grid). Favorire la diffusione di impianti di produzione molto piccoli (spesso derivante solo da facilitazioni autorizzative), oltre a non consentire di beneficiare delle economie di scala, comporta l’incremento dei costi di connessione alla rete e di gestione della rete stessa: è quindi importante trovare un punto di equilibrio economico tra tutte queste esigenze.
- di evitare ricadute troppo pesanti –conseguenti ai meccanismi di incentivazione- sulle bollette elettriche di famiglie e imprese. In questo senso non può non essere registrato il fatto che sempre più una delle variabili con cui ci si deve confrontare nel caso di crisi economiche e di processi di delocalizzazione è proprio quella del costo dell’energia. Le vicende Alcoa, distretto chimico di Terni, di Ferrara, di Brindisi e di Marghera, oltre ad una più generale pressione del tessuto produttivo, ci impongono di ragionare con attenzione su questo tema, pena il rischio di una progressiva de-industrializzazione del nostro Paese. In questo senso, non mancano le proposte: l’AEEG, ad esempio, da tempo propone di trasferire dalle bollette alla fiscalità generale il costo dell’incentivazione (che sempre AEEG prevede, a legislazione costante, aumenti a circa 3 miliardi di euro/anno nel 2010, a più di 5 miliardi di euro/anno nel 2015 e a circa 7 miliardi di euro/anno nel 2020 (di cui oltre 3,5 miliardi di euro per l’incentivazione di 10 TWh di energia elettrica da impianti fotovoltaici).
L’obiettivo da porsi in termini quantitativi è quello di riuscire, negli anni futuri, a raggiungere attraverso le fonti rinnovabili, una quota sempre maggiore della produzione: la Germania, di recente, ha ipotizzato di arrivare al 60% della domanda nel 2050;
- fonti “tradizionali”: quanto sin qui visto consente di affermare come, dal punto di vista tecnologico ed economico, si debba ipotizzare, per un lungo periodo di tempo ancora, la necessità di utilizzare per una quota considerevole ed importante del nostro fabbisogno le medesime modalità di produzione dell’energia che ci hanno accompagnato negli ultimi decenni e che quindi, con tutti i miglioramenti ed aggiornamenti del caso, sono destinate a farlo nel prosieguo degli anni: gas, carbone, nucleare. Ognuna di queste fonti porta con sè vantaggi e svantaggi, in termini di costi di generazione, facilità di approvvigionamento della materia prima, condizionamenti socio-politici e quindi dipendenza dall’estero, flessibilità di utilizzo, ricadute ambientali in termini di produzione di CO2, di produzione di scorie, di inquinamento legato al trasporto della materia prima, di sicurezza della tecnologia in termini di possibili ricadute sulle popolazioni che vivono nei pressi degli impianti di produzione. Ma comunque, in assenza di “salti tecnologici”, auspicabili (e per i quali si deve chiedere con forza che la ricerca e l’innovazione siano adeguatamente sostenute) ma sin qui non prevedibili, con queste alternative ci dobbiamo confrontare per un periodo di tempo non breve: è quindi indispensabile “lavorare nel merito”, per enucleare costi e benefici, vantaggi e svantaggi, delle opzioni realisticamente disponibili, così da offrire al Paese una proposta seria e credibile, che non si fondi su presupposti ideologici e aprioristici, su ricette velleitarie quanto generiche, ma che cerchi invece di fare chiarezza dello “stato dell’arte”, così da fornire agli stakeholders la griglia per le decisioni. Di seguito, per ciascuna delle “fonti tradizionali” alcune delle variabili in gioco:
- gas: rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti, alla scarsa diversificazione delle fonti, prezzi della materia prima in parte legati a quelli del petrolio (ma sempre di meno in presenza di crescita mercato dell’unconventional gas), necessità investimenti (nell’attuale situazione di mercato non sempre economicamente sostenibili) in infrastrutture di trasporto e trasformazione (così da poter sfruttare vantaggi del mercato spot), criticità dell'assetto di mercato -non concorrenziale, con il permanere di un ruolo preponderante dell’incumbent, anche in ragione del non risolto unbundling delle reti di trasporto, che si ripercuote necessariamente sulla produzione elettrica, elevata elasticità delle centrali a ciclo combinato, tecnologia matura rispetto alla quale esistono competenze nazionali, emissioni tra le più basse tra le fonti fossili, costo di produzione dell’energia nella fascia alta tra le fonti tradizionali;
- carbone: assenza di rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti, prezzi della materia prima bassi e non legati al petrolio, limitata elasticità di utilizzo, relativa diffusione di tecnologie per l’abbattimento delle polveri in fase di escavazione, trasporto, utilizzo, emissioni di CO2 elevate in assenza di CCS (carbon capture and storage, per la quale –al di là dei costi attualmente non ipotizzabili- potrebbero sussistere anche problemi di creazione del consenso locale) e quindi in prospettiva elevata incidenza dei crediti di emissione, costo di produzione dell’energia nella fascia bassa tra le fonti tradizionali (senza crediti di emissione)
- nucleare: struttura dei costi particolare, con investimento iniziale estremamente rilevante e bassa incidenza dei costi di gestione (in particolare della materia prima), con conseguente limitata elasticità di utilizzo, rischio di “colonizzazione tecnologica” rispetto alla tecnologia sin qui scelta (EPR di Areva), esperienze attualmente non positive negli impianti in fase di costruzione in tema di costi e tempi (anche se è probabile il manifestarsi di learning curves per quanto riguarda le installazioni successive), assenza di emissioni di CO2, costo di produzione dell’energia nella fascia bassa tra le fonti tradizionali (a condizione che si minimizzino tempi di costruzione, incertezze e di conseguenza tassi di rischio), produzione di rifiuti ad alta attività (all’incirca 8 m3 all’anno per ciascuna centrale in grado di produrre 12 miliardi di KWh, ovvero intorno al 4 % del consumo nazionale di energia elettrica) per le quali allo stato attuale non esistono soluzioni tecnologiche diverse dallo stoccaggio in siti di profondità geologicamente stabili (anche se in futuro tali scorie potrebbero in gran parte costituire il “carburante” degli impianti di IVa generazione), possibili problemi di consenso locale nella fase di individuazione dei siti di localizzazione degli impianti di produzione e di stoccaggio delle scorie (in Italia su questo tema nulla è stato ancora fatto, nemmeno per quanto riguarda l’individuazione di depositi di superficie per le scorie sanitarie e per quelle delle centrali chiuse a seguito del referendum del 1987, che nel 2012 torneranno dall'Inghilterra e nel 2020 dalla Francia dove sono state ri-processate), relativa incertezza sui costi reali di decommissioning degli impianti a fine vita;
- ancora due parole a proposito del costo di produzione (che tanto appassiona, ultimamente…): da quanto sopra enunciato è evidente che si stanno confrontando metodologie/impianti di produzione tra loro estremamente diversi, per quanto riguarda la struttura degli investimenti e dei costi di esercizio, nonché la dipendenza/indipendenza da fattori esogeni al di fuori del controllo degli operatori. Di qui la difficoltà di formulare comparazioni di costo significative. Solo alcune brevi considerazioni:
- se il ruolo affidato allo Stato è solo quello di vigilare sul rispetto degli standard di sicurezza, qualità, rispetto dell’ambiente e sull’accantonamento di risorse idonee ai processi di gestione del fine vita degli impianti e delle scorie, in un regime di mercato concorrenziale ogni discussione sulla convenienza di una fonte rispetto all’altra è priva di fondamento economico. Saranno infatti gli operatori che, sulla base dei vincoli posti dallo Stato a tutela dell’interesse comune, e delle opportunità tecnologiche, sceglieranno la configurazione di produzione maggiormente efficiente;
- nel caso del nucleare, l’assoluta preponderanza degli aspetti finanziari fa sì che ogni incremento dei fattori di rischio (incertezza normativa, opportunismo dei decisori politici, difficoltà di creazione del consenso locale, prolungamento dei tempi di autorizzazione/costruzione, assenza di autorevolezza dell’Agenzia di Sicurezza) si tramuti immediatamente in aumento dei tassi di finanziamento, e quindi in maggior costo di produzione;
- nel caso del gas, in assenza di un disaccoppiamento reale e consolidato tra prezzi del gas e prezzi del petrolio, conseguente all’ulteriore sviluppo dell’estrazione di unconventional gas (che peraltro pare non essere del tutto esente da significative problematiche ambientali), il rischio che fattori non controllabili relativi sia alle dinamiche politiche di aree particolarmente esposte che all’incremento di domanda di Paesi emergenti, possano far ritornare il prezzo del petrolio e del gas su valori difficilmente compatibili con l’attuale modello di sviluppo economico, non è affatto trascurabile;
- non può infine essere dimenticata l’incidenza delle politiche a tutela dell’ambiente sulle scelte di produzione e sui relativi costi. Il carbone certamente non comporta rischi geopolitici, è disponibile in grandi quantità, costa poco, ma….. come si è visto presenta altri problemi (che si possono affrontare, ma che a loro volta comportano costi ulteriori e forse qualche possibile difficoltà di costruzione del consenso). In ogni caso se, come è auspicabile, proseguiranno gli sforzi comuni per diminuire le conseguenze ambientali della produzione di energia, quanto più elevato sarà il costo attribuito alle emissioni di CO2, tanto più si verrà di conseguenza a modificare la “griglia delle convenienze” degli operatori. E questo è un ulteriore elemento di incertezza.
- una domanda a proposito di concorrenza: se, com’è naturale nel medio-breve periodo, alle fonti rinnovabili deve essere garantito, attraverso forme di incentivazione, un certo prezzo che le renda economicamente sostenibili, e se chi si candida a fare il nucleare chiede una qualche forma di assicurazione sui quantitativi e/o sui prezzi di vendita dell’energia (e se questo soggetto, tra l’altro, è l’incumbent e quindi parte in una posizione “non di svantaggio” in termini di mix di produzione e, quindi, di modulazione), alla fine cosa rimane del mercato? In sostanza, non si dovrebbe innanzitutto avere chiaro ciò che queste scelte possono comportare per il funzionamento del mercato che, a fatica, è stato costruito in questi anni nel settore dell’energia elettrica, mercato che corre il rischio di essere pesantemente messo in discussione da un approccio che non consideri –magari per proporre idonee soluzioni- le difficoltà che possono nascere nel momento in cui si ipotizza che il 50% del mercato abbia prezzi che non si determinano nel mercato stesso, ma sono fissati dal potere politico. Sia chiaro: non è qui in discussione l’opportunità –condivisa- di riequilibrare e diversificare le nostre fonti di produzione, né è assurdo che si pensi ad un programma nucleare realizzato sotto la guida dello Stato, ma allora bisogna essere consapevoli delle sue conseguenze (da analizzare in profondità) e dichiararlo apertamente. Dire che “la costruzione e l’esercizio degli impianti nucleari sono considerate attività di preminente interesse statale” (come recita il “decreto siti”) può essere solo il primo passo: il nucleare farà eccezione o no allo schema di mercato secondo cui funziona oggi il settore elettrico?
- ma è un sogno una politica energetica europea? E’ davvero impossibile pensare di costruire una politica energetica che superi il livello nazionale, per integrare i sistemi energetici continentali e per realizzare l’interconnessione dell’intero spazio mediterraneo (anche Nord Africa per intercettare gli impianti del progetto Desertec, se verrà effettivamente realizzato a costi competitivi). Questo permetterebbe di effettuare una “divisione del lavoro” tra i vari Paesi, che valorizzi specificità, competenze, storie industriali, ad esempio concentrando l’eolico nel nord Europa, dove i venti sono forti e costanti, ed i fondali bassi per l’off-shore, utilizzando il carbone ed il nucleare tedesco, così come il nucleare francese, per fare la produzione di base (base load) per tutta l’Europa, ed i cicli combinati italiani per la modulazione dell’offerta. Quest’ipotesi, affascinante, ha però bisogno della costruzione di un sistema europeo che superi gli egoismi nazionali e la logica per cui ogni paese deve avere un suo campione nazionale, e di investimenti importantissimi nelle reti di trasmissione, nazionali e transnazionali, che superino i colli di bottiglia esistenti, che nascono dalla storia e dalle logiche nazionali, ma sono anche funzionali –dobbiamo saperlo- ad arbitraggi e rendite di posizione dei vari produttori (spesso proprio i “campioni nazionali”)
- e, per finire, il rilancio delle politiche di liberalizzazione può offrire più di una leva per ridurre gli oneri sui prezzi dell'energia, direttamente riconducibili alla bassa concorrenzialità
del mercato. Il peso che questi oneri determinano, in misura diretta e indiretta, è equiparabile al peso degli incentivi sulle rinnovabili (oneri di dispacciamento al Sud, transito gas, ecc). La soluzione dei sussidi agli energivori è sicuramente un modo per mettere a tacere il problema, mantenendo però tutte le inefficienze e le rendite di posizione e caricando ulteriormente gli oneri impropri per le famiglie e le piccole imprese. Le soluzioni tampone (tipo inteconnector virtuali o tariffe speciali) sono talmente comode per tutti coloro che “hanno voce” (grandi produttori e grandi consumatori) che si finisce per dimenticare la strada maestra, che è quella di aprire davvero il mercato, rendendolo pienamente concorrenziale.
Questi sono, in maniera schematica ma con buona approssimazione, gli elementi di valutazione di base per la costruzione di un’organica strategia energetica per l’Italia: con questi ci si deve oggi confrontare nel concreto, senza vagheggiare soluzioni futuribili o salti tecnologici al momento non ipotizzabili, senza confondere legittime aspirazioni e realtà, “sporcandosi le mani” con la miglior “quadratura” possibile tra esigenze ambientali, ricerca della competitività del sistema-paese, rischio di deindustrializzazione, individuazione del corretto modello di sviluppo. E tutto ciò richiede capacità di decisione, assunzione di responsabilità, trasparenza dei processi, costruzione della condivisione, rigore nelle scelte e nei comportamenti. E’questa la sfida a cui è chiamata la classe dirigente del nostro Paese, se tale vorrà dimostrare di essere.
Federico Testa è professore Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese, Università degli Studi di Verona, nonché componente Commissione Attività Produttive, Camera dei Deputati
Con questo lavoro, senza alcuna pretesa di esaustività o completezza, si vuole provare a delineare schematicamente, in maniera quasi didascalica, senza riferimenti bibliografici o analisi quantitative di dettaglio (di qui la “leggerezza” di cui al titolo…) che potrebbero appesantire il testo e far di conseguenza perdere di vista il “filo logico”, una riflessione sulle scelte prospettiche -con riferimento prevalentemente alla produzione di elettricità- che il nostro Paese sarà chiamato ad affrontare, nella speranza che attraverso la discussione aperta e trasparente sia possibile superare steccati e approcci ideologici che -troppo spesso- finiscono per “congelare ogni scelta” nell’illusione che quella di non decidere non sia a sua volta una scelta, spesso la più sbagliata, e questo a maggior ragione quando si ha a che fare con settori –quali quello in esame- per loro natura capital intensive, per i quali l’incertezza degli scenari necessariamente significa taglio degli investimenti.
Una premessa necessaria: ma quale sarà la domanda negli anni a venire? Negli ultimi 2 anni, infatti, la domanda di energia elettrica, in Italia come nel resto d’Europa, ha subito una significativa riduzione, imputabile certamente in primo luogo alla crisi economica, ma riconducibile in parte anche alle politiche di efficienza e risparmio messe in atto dai Governi. In ragione di questo trend, tutti gli Istituti di ricerca hanno rivisto le previsioni di crescita della domanda, ridimensionandole: così, si prevede di ritornare ai consumi del 2007 non prima dei prossimi 4-6 anni, anche se evidentemente la speranza di un’accelerazione della ripresa economica porta con sé previsioni di crescita più elevate. A ciò si deve aggiungere il fatto che ulteriori aumenti della domanda possono essere generati dall’utilizzo dell’energia elettrica quale vettore energetico più flessibile (si pensi al tema raffreddamento-riscaldamento degli edifici attraverso pompe di calore e/o split elettrici) o dal perseguimento della mobilità elettrica come strada per diminuire l’inquinamento, soprattutto nei centri urbani.
In questo quadro, è possibile ragionare di un percorso che si dia le seguenti principali linee di intervento (in ordine di priorità):
- efficienza energetica e risparmio: perseguire l’efficienza energetica comporta investimenti di entità ridotta e con caratteristiche di pervasività sul tessuto economico. Dagli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, dalle pompe di calore, dalla sostituzione dei motori elettrici tradizionali nell’industria, dall’utilizzo della domotica intelligente, dalla sostituzione delle lampade a bassa efficienza, è possibile ottenere significativi risultati, con periodi di ritorno degli investimenti brevi ed una significativa ricaduta sul nostro tessuto economico e produttivo, sia in termini di aumento di competitività conseguente ai minori costi, sia attraverso l’attivazione di un volano produttivo in settori nei quali l’Italia possiede le competenze tecnologiche per essere leader a livello mondiale. Indicazioni di dettaglio sull’argomento sono reperibili nei recenti studi promossi da Confindustria e Amici della terra. Quanto all’educazione al risparmio energetico, si tratta di un percorso più lungo, che richiede di intervenire sulle abitudini, i modelli di consumo, la mentalità dei cittadini, ma che risulta comunque essenziale al fine di affermare un nuovo modello di sviluppo, più in sintonia con l’ambiente. Un importante contributo al risparmio può altresì derivare dalla riqualificazione, recupero di efficienza e miglioramento tecnologico delle reti di trasporto e distribuzione. Anche in questo campo, le caratteristiche produttive del nostro Paese ben si attagliano a questa logica di sviluppo, basti pensare all’automotive e alla nostra leadership nelle auto di piccola cilindrata (che naturalmente meglio potrebbero essere ri-pensate in una prospettiva di mobilità sostenibile, con l’incremento della trazione elettrica in ambito urbano, peraltro perseguibile solo intervenendo sui processi di produzione del “carburante”, cioè l’elettricità, così da ottenere una produzione a costi compatibili e senza aumentare le emissioni). L’obiettivo da porsi in termini quantitativi è quello di riuscire, negli anni futuri, a fare in modo che efficienza e risparmio energetico consentano di limitare al massimo (possibilmente tenere piatta) la crescita della domanda di energia, pur in presenza di una crescita della domanda di servizi energetici;
- fonti rinnovabili: il nostro Paese in questo settore aveva accumulato un significativo ritardo nei confronti di altri paesi ugualmente sviluppati. In questo senso, è stato opportuno per alcuni versi “forzare” i processi di incentivazione al fine di recuperare il ritardo. Ora si impone una riflessione che, nel perseguimento dello sviluppo al massimo potenziale delle fonti rinnovabili nel nostro Paese, consenta anche:
- di ottenere una ricaduta significativa sul tessuto produttivo/industriale italiano. Ad oggi questo avviene in misura parziale ed insufficiente, vuoi perché nella filiera produttiva rilevano molto i differenziali di costo di produzione (fotovoltaico in Cina), vuoi perché il ritardo accumulato ha fatto sì che la leadership tecnologica venisse acquisita da altri Paesi (eolico in Germania). E’ quindi evidente come, pur nel doveroso tentativo di recupero di questi gap, probabilmente è illusorio pensare di poter raggiungere, in queste filiere oramai mature, risultati particolarmente significativi. Opportuno quindi concentrare gli sforzi sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico di tecnologie meno mature, rispetto alle quali tuttora conserviamo leadership e competenze di prima fila, quali ad esempio il solare a concentrazione e la produzione di biocarburanti di seconda generazione;
- di consentire l’incentivazione di impianti rinnovabili che abbiano una sostenibilità economica intrinseca di medio lungo periodo. Impianti eolici che “girano” 1400 ore all’anno si sostengono solo grazie a incentivi molto (troppo) generosi ed a meccanismi di rendita finanziaria che spesso portano con sé speculazioni, uso distorto del territorio, possibili ruoli non chiari della criminalità organizzata, anche a causa degli onerosi procedimenti autorizzativi. Ragionamenti analoghi possono farsi su impianti a terra nelle pianure, che spesso sottraggono per motivi speculativi risorse preziose all’agricoltura con effetti potenzialmente perversi sui prezzi degli alimentari.
- di collegare la diffusione delle fonti rinnovabili con lo sviluppo delle reti, sia in senso quantitativo (oggi ci sono zone del Paese dove la rete di trasmissione non è in grado di ricevere e smistare l’energia prodotta dagli impianti rinnovabili, che peraltro viene pagata lo stesso..) che in senso qualitativo: l’energia da fonti rinnovabili, tendenzialmente discontinua, va gestita da reti “intelligenti” (le cd smart grid). Favorire la diffusione di impianti di produzione molto piccoli (spesso derivante solo da facilitazioni autorizzative), oltre a non consentire di beneficiare delle economie di scala, comporta l’incremento dei costi di connessione alla rete e di gestione della rete stessa: è quindi importante trovare un punto di equilibrio economico tra tutte queste esigenze.
- di evitare ricadute troppo pesanti –conseguenti ai meccanismi di incentivazione- sulle bollette elettriche di famiglie e imprese. In questo senso non può non essere registrato il fatto che sempre più una delle variabili con cui ci si deve confrontare nel caso di crisi economiche e di processi di delocalizzazione è proprio quella del costo dell’energia. Le vicende Alcoa, distretto chimico di Terni, di Ferrara, di Brindisi e di Marghera, oltre ad una più generale pressione del tessuto produttivo, ci impongono di ragionare con attenzione su questo tema, pena il rischio di una progressiva de-industrializzazione del nostro Paese. In questo senso, non mancano le proposte: l’AEEG, ad esempio, da tempo propone di trasferire dalle bollette alla fiscalità generale il costo dell’incentivazione (che sempre AEEG prevede, a legislazione costante, aumenti a circa 3 miliardi di euro/anno nel 2010, a più di 5 miliardi di euro/anno nel 2015 e a circa 7 miliardi di euro/anno nel 2020 (di cui oltre 3,5 miliardi di euro per l’incentivazione di 10 TWh di energia elettrica da impianti fotovoltaici).
L’obiettivo da porsi in termini quantitativi è quello di riuscire, negli anni futuri, a raggiungere attraverso le fonti rinnovabili, una quota sempre maggiore della produzione: la Germania, di recente, ha ipotizzato di arrivare al 60% della domanda nel 2050;
- fonti “tradizionali”: quanto sin qui visto consente di affermare come, dal punto di vista tecnologico ed economico, si debba ipotizzare, per un lungo periodo di tempo ancora, la necessità di utilizzare per una quota considerevole ed importante del nostro fabbisogno le medesime modalità di produzione dell’energia che ci hanno accompagnato negli ultimi decenni e che quindi, con tutti i miglioramenti ed aggiornamenti del caso, sono destinate a farlo nel prosieguo degli anni: gas, carbone, nucleare. Ognuna di queste fonti porta con sè vantaggi e svantaggi, in termini di costi di generazione, facilità di approvvigionamento della materia prima, condizionamenti socio-politici e quindi dipendenza dall’estero, flessibilità di utilizzo, ricadute ambientali in termini di produzione di CO2, di produzione di scorie, di inquinamento legato al trasporto della materia prima, di sicurezza della tecnologia in termini di possibili ricadute sulle popolazioni che vivono nei pressi degli impianti di produzione. Ma comunque, in assenza di “salti tecnologici”, auspicabili (e per i quali si deve chiedere con forza che la ricerca e l’innovazione siano adeguatamente sostenute) ma sin qui non prevedibili, con queste alternative ci dobbiamo confrontare per un periodo di tempo non breve: è quindi indispensabile “lavorare nel merito”, per enucleare costi e benefici, vantaggi e svantaggi, delle opzioni realisticamente disponibili, così da offrire al Paese una proposta seria e credibile, che non si fondi su presupposti ideologici e aprioristici, su ricette velleitarie quanto generiche, ma che cerchi invece di fare chiarezza dello “stato dell’arte”, così da fornire agli stakeholders la griglia per le decisioni. Di seguito, per ciascuna delle “fonti tradizionali” alcune delle variabili in gioco:
- gas: rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti, alla scarsa diversificazione delle fonti, prezzi della materia prima in parte legati a quelli del petrolio (ma sempre di meno in presenza di crescita mercato dell’unconventional gas), necessità investimenti (nell’attuale situazione di mercato non sempre economicamente sostenibili) in infrastrutture di trasporto e trasformazione (così da poter sfruttare vantaggi del mercato spot), criticità dell'assetto di mercato -non concorrenziale, con il permanere di un ruolo preponderante dell’incumbent, anche in ragione del non risolto unbundling delle reti di trasporto, che si ripercuote necessariamente sulla produzione elettrica, elevata elasticità delle centrali a ciclo combinato, tecnologia matura rispetto alla quale esistono competenze nazionali, emissioni tra le più basse tra le fonti fossili, costo di produzione dell’energia nella fascia alta tra le fonti tradizionali;
- carbone: assenza di rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti, prezzi della materia prima bassi e non legati al petrolio, limitata elasticità di utilizzo, relativa diffusione di tecnologie per l’abbattimento delle polveri in fase di escavazione, trasporto, utilizzo, emissioni di CO2 elevate in assenza di CCS (carbon capture and storage, per la quale –al di là dei costi attualmente non ipotizzabili- potrebbero sussistere anche problemi di creazione del consenso locale) e quindi in prospettiva elevata incidenza dei crediti di emissione, costo di produzione dell’energia nella fascia bassa tra le fonti tradizionali (senza crediti di emissione)
- nucleare: struttura dei costi particolare, con investimento iniziale estremamente rilevante e bassa incidenza dei costi di gestione (in particolare della materia prima), con conseguente limitata elasticità di utilizzo, rischio di “colonizzazione tecnologica” rispetto alla tecnologia sin qui scelta (EPR di Areva), esperienze attualmente non positive negli impianti in fase di costruzione in tema di costi e tempi (anche se è probabile il manifestarsi di learning curves per quanto riguarda le installazioni successive), assenza di emissioni di CO2, costo di produzione dell’energia nella fascia bassa tra le fonti tradizionali (a condizione che si minimizzino tempi di costruzione, incertezze e di conseguenza tassi di rischio), produzione di rifiuti ad alta attività (all’incirca 8 m3 all’anno per ciascuna centrale in grado di produrre 12 miliardi di KWh, ovvero intorno al 4 % del consumo nazionale di energia elettrica) per le quali allo stato attuale non esistono soluzioni tecnologiche diverse dallo stoccaggio in siti di profondità geologicamente stabili (anche se in futuro tali scorie potrebbero in gran parte costituire il “carburante” degli impianti di IVa generazione), possibili problemi di consenso locale nella fase di individuazione dei siti di localizzazione degli impianti di produzione e di stoccaggio delle scorie (in Italia su questo tema nulla è stato ancora fatto, nemmeno per quanto riguarda l’individuazione di depositi di superficie per le scorie sanitarie e per quelle delle centrali chiuse a seguito del referendum del 1987, che nel 2012 torneranno dall'Inghilterra e nel 2020 dalla Francia dove sono state ri-processate), relativa incertezza sui costi reali di decommissioning degli impianti a fine vita;
- ancora due parole a proposito del costo di produzione (che tanto appassiona, ultimamente…): da quanto sopra enunciato è evidente che si stanno confrontando metodologie/impianti di produzione tra loro estremamente diversi, per quanto riguarda la struttura degli investimenti e dei costi di esercizio, nonché la dipendenza/indipendenza da fattori esogeni al di fuori del controllo degli operatori. Di qui la difficoltà di formulare comparazioni di costo significative. Solo alcune brevi considerazioni:
- se il ruolo affidato allo Stato è solo quello di vigilare sul rispetto degli standard di sicurezza, qualità, rispetto dell’ambiente e sull’accantonamento di risorse idonee ai processi di gestione del fine vita degli impianti e delle scorie, in un regime di mercato concorrenziale ogni discussione sulla convenienza di una fonte rispetto all’altra è priva di fondamento economico. Saranno infatti gli operatori che, sulla base dei vincoli posti dallo Stato a tutela dell’interesse comune, e delle opportunità tecnologiche, sceglieranno la configurazione di produzione maggiormente efficiente;
- nel caso del nucleare, l’assoluta preponderanza degli aspetti finanziari fa sì che ogni incremento dei fattori di rischio (incertezza normativa, opportunismo dei decisori politici, difficoltà di creazione del consenso locale, prolungamento dei tempi di autorizzazione/costruzione, assenza di autorevolezza dell’Agenzia di Sicurezza) si tramuti immediatamente in aumento dei tassi di finanziamento, e quindi in maggior costo di produzione;
- nel caso del gas, in assenza di un disaccoppiamento reale e consolidato tra prezzi del gas e prezzi del petrolio, conseguente all’ulteriore sviluppo dell’estrazione di unconventional gas (che peraltro pare non essere del tutto esente da significative problematiche ambientali), il rischio che fattori non controllabili relativi sia alle dinamiche politiche di aree particolarmente esposte che all’incremento di domanda di Paesi emergenti, possano far ritornare il prezzo del petrolio e del gas su valori difficilmente compatibili con l’attuale modello di sviluppo economico, non è affatto trascurabile;
- non può infine essere dimenticata l’incidenza delle politiche a tutela dell’ambiente sulle scelte di produzione e sui relativi costi. Il carbone certamente non comporta rischi geopolitici, è disponibile in grandi quantità, costa poco, ma….. come si è visto presenta altri problemi (che si possono affrontare, ma che a loro volta comportano costi ulteriori e forse qualche possibile difficoltà di costruzione del consenso). In ogni caso se, come è auspicabile, proseguiranno gli sforzi comuni per diminuire le conseguenze ambientali della produzione di energia, quanto più elevato sarà il costo attribuito alle emissioni di CO2, tanto più si verrà di conseguenza a modificare la “griglia delle convenienze” degli operatori. E questo è un ulteriore elemento di incertezza.
- una domanda a proposito di concorrenza: se, com’è naturale nel medio-breve periodo, alle fonti rinnovabili deve essere garantito, attraverso forme di incentivazione, un certo prezzo che le renda economicamente sostenibili, e se chi si candida a fare il nucleare chiede una qualche forma di assicurazione sui quantitativi e/o sui prezzi di vendita dell’energia (e se questo soggetto, tra l’altro, è l’incumbent e quindi parte in una posizione “non di svantaggio” in termini di mix di produzione e, quindi, di modulazione), alla fine cosa rimane del mercato? In sostanza, non si dovrebbe innanzitutto avere chiaro ciò che queste scelte possono comportare per il funzionamento del mercato che, a fatica, è stato costruito in questi anni nel settore dell’energia elettrica, mercato che corre il rischio di essere pesantemente messo in discussione da un approccio che non consideri –magari per proporre idonee soluzioni- le difficoltà che possono nascere nel momento in cui si ipotizza che il 50% del mercato abbia prezzi che non si determinano nel mercato stesso, ma sono fissati dal potere politico. Sia chiaro: non è qui in discussione l’opportunità –condivisa- di riequilibrare e diversificare le nostre fonti di produzione, né è assurdo che si pensi ad un programma nucleare realizzato sotto la guida dello Stato, ma allora bisogna essere consapevoli delle sue conseguenze (da analizzare in profondità) e dichiararlo apertamente. Dire che “la costruzione e l’esercizio degli impianti nucleari sono considerate attività di preminente interesse statale” (come recita il “decreto siti”) può essere solo il primo passo: il nucleare farà eccezione o no allo schema di mercato secondo cui funziona oggi il settore elettrico?
- ma è un sogno una politica energetica europea? E’ davvero impossibile pensare di costruire una politica energetica che superi il livello nazionale, per integrare i sistemi energetici continentali e per realizzare l’interconnessione dell’intero spazio mediterraneo (anche Nord Africa per intercettare gli impianti del progetto Desertec, se verrà effettivamente realizzato a costi competitivi). Questo permetterebbe di effettuare una “divisione del lavoro” tra i vari Paesi, che valorizzi specificità, competenze, storie industriali, ad esempio concentrando l’eolico nel nord Europa, dove i venti sono forti e costanti, ed i fondali bassi per l’off-shore, utilizzando il carbone ed il nucleare tedesco, così come il nucleare francese, per fare la produzione di base (base load) per tutta l’Europa, ed i cicli combinati italiani per la modulazione dell’offerta. Quest’ipotesi, affascinante, ha però bisogno della costruzione di un sistema europeo che superi gli egoismi nazionali e la logica per cui ogni paese deve avere un suo campione nazionale, e di investimenti importantissimi nelle reti di trasmissione, nazionali e transnazionali, che superino i colli di bottiglia esistenti, che nascono dalla storia e dalle logiche nazionali, ma sono anche funzionali –dobbiamo saperlo- ad arbitraggi e rendite di posizione dei vari produttori (spesso proprio i “campioni nazionali”)
- e, per finire, il rilancio delle politiche di liberalizzazione può offrire più di una leva per ridurre gli oneri sui prezzi dell'energia, direttamente riconducibili alla bassa concorrenzialità
del mercato. Il peso che questi oneri determinano, in misura diretta e indiretta, è equiparabile al peso degli incentivi sulle rinnovabili (oneri di dispacciamento al Sud, transito gas, ecc). La soluzione dei sussidi agli energivori è sicuramente un modo per mettere a tacere il problema, mantenendo però tutte le inefficienze e le rendite di posizione e caricando ulteriormente gli oneri impropri per le famiglie e le piccole imprese. Le soluzioni tampone (tipo inteconnector virtuali o tariffe speciali) sono talmente comode per tutti coloro che “hanno voce” (grandi produttori e grandi consumatori) che si finisce per dimenticare la strada maestra, che è quella di aprire davvero il mercato, rendendolo pienamente concorrenziale.
Questi sono, in maniera schematica ma con buona approssimazione, gli elementi di valutazione di base per la costruzione di un’organica strategia energetica per l’Italia: con questi ci si deve oggi confrontare nel concreto, senza vagheggiare soluzioni futuribili o salti tecnologici al momento non ipotizzabili, senza confondere legittime aspirazioni e realtà, “sporcandosi le mani” con la miglior “quadratura” possibile tra esigenze ambientali, ricerca della competitività del sistema-paese, rischio di deindustrializzazione, individuazione del corretto modello di sviluppo. E tutto ciò richiede capacità di decisione, assunzione di responsabilità, trasparenza dei processi, costruzione della condivisione, rigore nelle scelte e nei comportamenti. E’questa la sfida a cui è chiamata la classe dirigente del nostro Paese, se tale vorrà dimostrare di essere.
Federico Testa è professore Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese, Università degli Studi di Verona, nonché componente Commissione Attività Produttive, Camera dei Deputati
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