articolo di Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera il 10 giugno 2010
Caro Direttore, il ministro dell’Economia ha ragione quando, nella sua intervista al Corriere del 1° giugno scorso, osserva che l’articolo 41 della Costituzione, in materia di libertà d’impresa, richiederebbe un po’ di restyling. Ma – mi sembra – egli sbaglia quando presenta questa riscrittura della norma come necessaria per l’eliminazione dei molti lacci e lacciuoli che frenano la nostra già troppo pigra economia: l’articolo 41 non impedisce affatto né gli interventi di liberalizzazione né quelli di semplificazione.
Una sua riscrittura parziale sarebbe opportuna per introdurre nella Carta un principio che fa già parte della nostra “costituzione materiale”, ma era stato sottovalutato dai padri costituenti: quello che viene comunemente indicato con l’espressione “antitrust” e che ha come corollari la tutela della libertà di concorrenza nei mercati e la necessità di scioglimento dei monopoli in tutti i casi in cui questo è materialmente possibile. L’intervento del legislatore costituzionale potrebbe anche essere l’occasione buona per togliere dall’articolo 41 quel tanto di dirigismo che si esprime nel terzo comma, dove si prevedono “programmi e controlli” necessari per “indirizzare a fini sociali” l’attività economica “pubblica e privata”. Questa disposizione – che pure nell’Assemblea costituente vide il convergere dei democristiani con i socialisti e i comunisti – negli ambienti del centro-destra è stata recentemente tacciata di “stalinismo”. Il suo difetto sta, più modestamente, nell’indicare la pratica della “programmazione economica” come costituzionalmente necessaria. Questo modo di intendere l’intervento dello Stato nell’economia, sperimentato nella seconda metà degli anni ’60 senza grande successo, poi di nuovo nella seconda metà dei ’70 con un clamoroso insuccesso, oggi gode di assai scarsa considerazione da parte di tutte le forze politiche del Paese rappresentate in Parlamento (tranne forse l’Italia dei Valori, di cui però non è chiaro l’orientamento in materia di politica economica). In riferimento all’attività imprenditoriale dei privati, l’intervento “programmatorio” dello Stato deve rimanere un’opzione possibile per il legislatore ordinario, ma non può evidentemente essere considerato come costituzionalmente necessario.
Mi sembra invece che Tremonti sbagli dove indica questa riforma costituzionale come passaggio necessario per l’opera di rimozione dei mille vincoli burocratici che limitano la libertà effettiva di impresa in Italia. Le cose non stanno proprio così: sul Sole 24 Ore di martedì Valerio Onida ricordava che in oltre mezzo secolo non è dato trovare una sola sentenza della Corte costituzionale che abbia censurato una legge di liberalizzazione dell’economia, mentre se ne trovano diverse che hanno censurato interventi legislativi in quanto irragionevolmente lesivi della libertà di impresa. Viceversa, presentando la riforma dell’articolo 41 come necessaria per l’opera di liberalizzazione e semplificazione il ministro dell’Economia accredita non solo l’idea che lacci e lacciuoli siano oggi imposti dalla Costituzione, ma anche che siano colpa della Costituzione i ritardi, le incertezze, le incapacità e persino i ritorni indietro nell’opera di rimozione di quegli ostacoli alla libertà di impresa, che caratterizzano la stagione politica attuale.
Rientrano in questo quadro anche le prese di posizione “anti-mercatiste” e l’apologia del posto fisso , che lo stesso ministro dell’Economia ci ha proposto fino a poche settimane or sono. Vi rientra la chiusura ermetica del ministro del Welfare nei confronti del progetto Semplificazione presentato dall’opposizione in materia di legislazione del lavoro nel novembre scorso; vi rientrano le marce indietro del Governo rispetto al principio di liberalizzazione sulle materie più varie, dalle libere professioni al commercio, dalle auto pubbliche al monopolio nel settore dell’approvvigionamento del gas. Tutta colpa dell’articolo 41 della Costituzione, ministro Tremonti?
Mi sembra invece che Tremonti sbagli dove indica questa riforma costituzionale come passaggio necessario per l’opera di rimozione dei mille vincoli burocratici che limitano la libertà effettiva di impresa in Italia. Le cose non stanno proprio così: sul Sole 24 Ore di martedì Valerio Onida ricordava che in oltre mezzo secolo non è dato trovare una sola sentenza della Corte costituzionale che abbia censurato una legge di liberalizzazione dell’economia, mentre se ne trovano diverse che hanno censurato interventi legislativi in quanto irragionevolmente lesivi della libertà di impresa. Viceversa, presentando la riforma dell’articolo 41 come necessaria per l’opera di liberalizzazione e semplificazione il ministro dell’Economia accredita non solo l’idea che lacci e lacciuoli siano oggi imposti dalla Costituzione, ma anche che siano colpa della Costituzione i ritardi, le incertezze, le incapacità e persino i ritorni indietro nell’opera di rimozione di quegli ostacoli alla libertà di impresa, che caratterizzano la stagione politica attuale.
Rientrano in questo quadro anche le prese di posizione “anti-mercatiste” e l’apologia del posto fisso , che lo stesso ministro dell’Economia ci ha proposto fino a poche settimane or sono. Vi rientra la chiusura ermetica del ministro del Welfare nei confronti del progetto Semplificazione presentato dall’opposizione in materia di legislazione del lavoro nel novembre scorso; vi rientrano le marce indietro del Governo rispetto al principio di liberalizzazione sulle materie più varie, dalle libere professioni al commercio, dalle auto pubbliche al monopolio nel settore dell’approvvigionamento del gas. Tutta colpa dell’articolo 41 della Costituzione, ministro Tremonti?
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