lunedì 30 aprile 2012

Il cerchio magico di Tosi

Articolo di Paolo Biondani, pubblicato su l’Espresso il 3 maggio 2012
C’è il finanziatore dei furbetti romani che ha sempre votato Dc o Berlusconi e ora si scopre super-leghista per caso. C’è il facilitatore di centri commerciali e nuovi stadi, sfortunatamente indagato a Milano per una robusta tangente al partito lumbard. Ci sono tante aziende e aziendine che sognano un nuovo quinquennio di appalti e speculazioni urbanistiche. Ma sopra a tutti ci sono loro, i cavalieri mascherati delle grandi opere: colossi nazionali delle costruzioni lanciati alla conquista di affari miliardari, come la nuova autostrada cittadina, ma riparati dietro un incredibile anonimato legale.
Sono tanti gli imprenditori che fanno il tifo per la rielezione di Flavio Tosi. Ma dei più fortunati, gli elettori non conoscono neppure i nomi. Il voto a Verona è un test nazionale. Gli ultimi sondaggi assegnano al sindaco uscente una trionfale vittoria al primo turno, come cinque anni fa. Da allora Tosi ha imparato i segreti della politica. Esplosa la crisi, è stato tra i primi a prendere le distanze dal governo Berlusconi.
Quindi ha rotto con il “cerchio magico” di Bossi, forte dell’appoggio di Roberto Maroni. E con la sua popolarità ha spaccato il Pdl rivale, fermo sotto il 30 per cento. In una città da sempre di destra, dove il centrosinistra ha vinto una sola volta per debolezze altrui, Tosi ha cementato un patto con i potentati bancari ex dc, grazie ai fedelissimi avvocati Giovanni Maccagnani ed Enrico Toffali.
E ora, archiviati i comizi anti-immigrati, bombarda radio e tv locali con spot sulle grandi opere: “Traforo autostradale, urbanistica: costruiamo insieme la Verona del futuro”. Ma chi sono i big degli affari che sperano nel Tosi-bis?
Le tracce più vistose portano al maxi-traforo. Una nuova autostrada di città, appaltata a una cordata d’imprese capeggiata dal colosso Technital. L’altro socio forte è la veronese Mazzi Costruzioni, alleata con big locali come Soveco e Parolini spa. Il sistema del project financing fa della nuova autostrada un business finanziario da oltre 800 milioni: in pratica i privati anticipano i soldi, coperti da prestiti bancari, che si ripagano ampiamente con 45 anni di pedaggi. Le polemiche finora si sono concentrate sui danni ambientali e sul no di Tosi a un referendum popolare.
Quando “l’Espresso” gli ha fatto notare che proprio l’impresa Mazzi ha finanziato la sua precedente campagna elettorale, Tosi ha sorriso: “Ha versato solo diecimila euro, tutti dichiarati. È ridicolo pensare che una cifra del genere possa condizionare il Comune. Il traforo sarà il simbolo della mia amministrazione”.
Ma chi controlla le società che si preparano a festeggiare l’affarone? La Mazzi Costruzioni è il motore di un gruppo con decine di aziende, che porta il nome di una famiglia di imprenditori veronesi a cui Tosi è legato anche da frequentazioni private, mai rinnegate. Il problema è che in cima alla piramide c’è una capogruppo anonima, chiamata Adige Docks: tutte le azioni sono intestate alle fiduciarie Sirefid di Milano (99,54 per cento) e Ifi di Verona (0,64).
Le fiduciarie sono paraventi legali che servono solo a non far sapere chi sono i veri proprietari. E la Technital, l’altro colosso nel cuore di Tosi, a chi appartiene? Anche qui, mistero. L’intero capitale è intestato alle fiduciarie romane Finnat (20 per cento) e Simon (80). In attesa di scoprire se l’autostrada di Tosi sarà un capolavoro o un disastro ambientale, insomma, a Verona una cosa è certa: l’affare del secolo è in mano a una specie di Anonima Trafori.
Nel club di imprenditori che tifano Tosi non mancano sorprese ancora più imbarazzanti. Il sindaco di Verona è da sempre legatissimo all’Hellas, la squadra di calcio del mitico scudetto del 1985. L’attuale patron, Giovanni Martinelli, progetta di costruire un nuovo stadio con l’appoggio di Tosi e del suo braccio destro, l’assessore all’Urbanistica Vito Giacino.
Consulente dell’affare è un mediatore della Valpolicella, Francesco Monastero della Expandia srl, che ha lavorato molto per il gruppo Brendolan (supermercati Famila), soci dei Mazzi in un altro progetto urbanistico da 300 mila metri cubi già varato dalla giunta Tosi. Il nuovo stadio, con annessi negozi e ristoranti, dovrebbe sorgere su un’area industriale vincolata dal consorzio pubblico Zai, presieduto fino a pochi mesi dall’ex leghista Flavio Zuliani, che a “l’Espresso” dichiara: “Monastero venne a propormi il nuovo stadio nel gennaio 2011.
Quando gli dissi che lì non si poteva fare, perché l’area era vincolata, si meravigliò molto: mi disse che aveva già l’appoggio di Tosi e Giacino”. Ora proprio Monastero è indagato per corruzione dalla procura di Milano, che lo ha intercettato nell’ottobre 2011 mentre concordava, secondo l’accusa, una tangente da 800 mila euro destinata alla Lega: presunto beneficiario, Davide Boni, ex presidente del consiglio regionale.
Le mazzette leghiste, secondo il pm Alfredo Robledo, erano il prezzo politico per sbloccare un centro commerciale ad Albuzzate (Pavia). Scoppiato lo scandalo, la giunta Tosi ha annunciato che lo stadio si può fare, ma senza nuovi ipermercati. L’area prescelta però resta la stessa. E il presidente che si opponeva? “Mi hanno rimosso da tutte le cariche”, spiega Zuliani, che si sente tradito dal sindaco.
Un altro mistero porta il nome di Attilio Fanini, un finanziere della Valpolicella che è stato il più grande contribuente di Tosi: gli ha versato ben 60 mila euro, sul totale di 125 mila raccolti nella precedente campagna. Fanini non è indagato per tangenti. Suo malgrado, però, è citato più volte nell’ordinanza dei giudici di Monza che ha portato in carcere l’ex assessore lombardo Massimo Ponzoni.
Quel politico del Pdl e il suo presunto complice Filippo Duzioni, un faccendiere che ha fatto i soldi con i centri commerciali, secondo l’accusa brigavano per aggiustare i piani urbanistici di vari comuni brianzoli. A Giussano, il paese simbolo del partito di Bossi, tre leghisti onesti erano contrari all’ennesimo shopping center. A quel punto Duzioni ha chiesto per email un intervento a Fanini. E il piano urbanistico è passato, ribloccandosi solo con gli arresti.
Alto, biondo, elegante, simpatico, Fanini non si sottrae alle domande de “l’Espresso”. Come ha fatto a piegare i leghisti di Giussano? “Duzioni mi scriveva solo per informarmi dei problemi della pratica urbanistica che dovevo finanziare. Ma io non ho fatto pressioni su nessun politico”. E perché ha finanziato Tosi? “Per non sembrare una pittima” (un tirchio), risponde Fanini in dialetto veneto: “Ho sempre votato Dc o Berlusconi, ma quando un mio amico fraterno, l’avvocato Enrico Toffali, mi ha chiesto di sostenere la sua candidatura con Tosi, non ho voluto deluderlo”.
E la giunta Tosi ha ricambiato? “No. Mai fatto affari a Verona”. Però con l’arrestato Duzioni ne ha fatti: com’è diventato suo cliente? “Me l’ha presentato Ponzoni, che avevo conosciuto come assessore all’Ambiente della Lombardia per una vicenda di cave a Mantova”. Almeno Ponzoni si è comportato bene? “Con me benissimo. Continuava a chiamare Formigoni, con cui dimostrava grande familiarità”.
Fanini detto “Attila” ha un solo problema giudiziario: è accusato a Roma di aver girato un milione a un banchiere per farne prestare 80 all’immobiliarista Danilo Coppola. “È una storia ormai prescritta, ma io punto a un’assoluzione piena”. I suoi agganci nelle banche e nella finanza romana la stanno almeno riparando dalla crisi? “Ero diventato il primo agente di Unicredit per il leasing immobiliare, ma adesso l’edilizia è un disastro. E purtroppo i miei clienti migliori, da Coppola a Vittorio Casale, sono finiti tutti in prigione”.

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domenica 29 aprile 2012

Verona sviluppo insostenibile con Tosi

Articolo di Matteo Dalai, candidato Pd in Consiglio della 3^ Circoscrizione
Apparentemente il tema è ostico e di difficile inquadramento, ma se andiamo sul concreto forse diventa molto più abbordabile.
Tutto parte da quelli che sembrano essere i valori fondanti della Lega, perché se qualcuno cita ancora “Dio-Patria-Famiglia”, per i leghisti il motto potrebbe essere così parafrasato ”Padania-Case-Automobili”.
Dico questo dopo aver visto all'opera quella filiera che per tanto tempo ci hanno descritto come risolutiva di tutti i problemi, ovvero la Lega a Roma, a Venezia e in tutti i comuni.
Per rilanciare lo stracotto modello di sviluppo del Nord Est, micro imprese articolate su villetta con laboratorio nel seminterrato, dove lavora tutta la famiglia, e nanetti in giardino, si è pensato di puntare sull'edilizia come possibile traino per tutta l'economia: si costruiscano case ovunque e comunque! Così lavoreranno muratori e falegnami, mobilieri e pavimentisti, nonché fonderie (tondino per CA) e cave, ecc.
A questo si aggiunga un importante apporto di opere di pubblica inutilità, da realizzare comunque in project financing, parola magica che significa che l'ente pubblico fa realizzare l'opera ad un privato, che farà pagare un ticket agli utenti, con piccola clausola che prevede che se il gestore non ci starà con il rapporto costi-ricavi, penserà l'ente pubblico a compensare i debiti; perciò pagheremo eventualmente due-tre volte, la prima con le tassazione generale (che dovrebbe garantire da sola i servizi pubblici), la seconda con il ticket, la terza con congrui contributi al privato che potrebbe andare in perdita.
Poi arriva il fronte automobile: tangenziali a pagamento, già pagate con le tasse, ma ora anche con il pedaggio, parcheggi ovunque, tutti rigorosamente a pagamento, nuove “bretelle” ecc. tutte a pagamento, così spremiamo bene gli automobilisti, che saranno costretti ad usufruire di queste infrastrutture in quanto non si darà esecuzione a nessun progetto di mobilità alternativa, anzi hanno già pesantemente ridimensionato quel poco che c'era.
Ritornando al fronte della Casa, si interviene dando licenza di costruire strutture residenziali e commerciali dove prima c'erano strutture produttive: chiude Cardi?  Bene al suo posto un nuovo miniquartiere, non ci sono più alcune concessionarie di auto in corso Milano (perchè spostatesi fuori città), allora facciamo delle belle palazzine al posto di quei brutti capannoni, e via così.

Da questo l'amministrazione Tosi-Giacino pensa di ricavare un bel gruzzoletto, derivante dagli oneri di urbanizzazione che chi costruirà dovrà pagare, così da compensare i tagli terribili che sono stati apportati al bilancio del Comune di Verona dal governo Berlusconi-Bossi.
Si cancelleranno le ultime aree verdi, avremo ancora più automobili in giro per la città, avremo meno servizi ed aria ancora più inquinata !
Se questo è il progetto che Tosi ha per Verona, forse sarebbe il caso di andare a nord, perchè da Trento fino ad Helsinki invece si chiudono i centri urbani al traffico privato, si potenzia la mobilità alternativa con tram, metropolitane, piste ciclabili urbane (quelle per andare al lavoro, per intenderci), si prevedono Piani Regolatori con NUOVI VOLUMI ZERO, perché si devono recuperare i vecchi edifici e solo se vi sono reali necessità si può costruire ex novo.
Tra l'altro sono vent’anni che Verona conta circa 250.000 abitanti e non siamo calati solo perché vi è stata una notevole immigrazione dall'estero. La città di Tosi dovrebbe avere altri 15-20 mila nuovi abitanti, per poter collocare tutte queste nuove abitazioni....che siano diventati di colpo favorevoli all'immigrazione ?!
Allora, cosa ci lascia un quinquennio di amministrazione leghista nella circoscrizione terza, Verona Ovest ?
Una spaventosa colata di cemento autorizzata con un Piano degli Interventi portato avanti in spregio di qualsiasi concertazione con la cittadinanza interessata, una deindustrializzazione pesante (Cardi già citata, Filiale Alstom alla Bassona, una decina di altre aziende, tutte chiuse, con lavoratori in mobilità, senza che il Comune abbia mosso un dito…), Corso Milano rifatto malamente, senza tener conto dei suggerimenti, in primis quelli del Gruppo Consigliare del PD in Circoscrizione e del Comitato per Corso Milano. Infatti gli interventi non hanno alleggerito il pesantissimo flusso di traffico, tant’è che l’inquinamento atmosferico è sempre stratosferico, e mancano le rotonde alla Croce Bianca e all’altro capo dove il corso interseca via Galliano e via Colombo; ma l’assessore Enrico so-tutto-io Corsi (le cose sbagliate hanno un nome ed un cognome, troppo facile dare sempre la responsabilità ad altri) ha detto che non servono!
Pensare che uno dei tanti spot che si sentono alla radio in questi giorni recita “con Tosi e la Lega stop al degrado ….”, cosa intendano non lo capisco proprio, ci vorranno anni e tanta fatica per rimediare, se vince Bertucco, altrimenti sarà un disastro completo!
Vien proprio da dire, alla maniera di Totò: Ma mi facciano il piacere ….!

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sabato 28 aprile 2012

Roberto Fasoli, lavoro e sindacato

Intervista a cura di Barbara Bertoncin in corso di pubblicazione su Una Città, aprile 2012 n. 193, www.unacitta.it
Roberto Fasoli, nella Cgil dal 1976, dal 1998 al 2006 è stato Segretario generale della Cgil di Verona. Oggi è Consigliere regionale veneto del Pd.
La chiave perduta
L’errore, grave, di pensare di poter uscire dalla crisi intervenendo solo sul fattore costo del lavoro; l’art. 18 e la riforma, le pensioni, le difficoltà del sindacato e quelle del Pd. La convinzione che non ci sono scorciatoie e che nessun tecnico potrà risolvere problemi che sono eminentemente politici. Intervista a Roberto Fasoli.
Tu sei piuttosto critico su come è stato impostato il dibattito attorno alla crisi e alle possibili vie d’uscita...
All’origine dei problemi in cui oggi ci troviamo non c’è la crisi finanziaria. Capisco di fare un’affermazione che può sembrare azzardata, ma all’origine c’è la crisi del lavoro e della distribuzione della ricchezza, che ha generato la crisi finanziaria, che a sua volta ha creato la crisi economica, che è diventata crisi sociale. In questo senso pensare di affrontare i problemi della crisi finanziaria dal versante della finanza mi fa pensare alla famosa barzelletta dell’ubriaco che cerca la chiave sotto il lampione: alcune persone si fermano ad aiutarlo, ma la chiave non si trova, fino a quando uno, stufo di cercare, gli chiede: “Ma dove l’hai persa?”. E l’ubriaco: “Laggiù in fondo, ma là è buio non si vede niente”. Ecco, io temo che la crisi in cui siamo sia questa: stiamo cercando nel posto sbagliato. Sarò più esplicito: se pensiamo che la soluzione sia la compressione dei diritti e la riduzione del peso del lavoro cerchiamo dalla parte sbagliata.
L’origine del problema sta nel fatto che con il tipo di globalizzazione e di pervasività delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione si è creato un divario a livello mondiale che, se è pur vero che ha elevato pezzi di mondo che prima erano totalmente esclusi dalla vita civile (qualche miliardo di persone che prima morivano letteralmente di fame hanno avuto di che mangiare), nell’Occidente, nel mondo sviluppato, questo ha provocato un ampliarsi di disuguaglianze assolutamente clamorose. Negli ultimi cento anni la ricchezza non è mai stata così polarizzata.
L’ho presa larga, per così dire, ma è fondamentale capire questo, perché se noi pensiamo di rilanciare la competitività con interventi tampone sulle questioni del mercato del lavoro o del costo del lavoro, continuando a illuderci di poter rincorrere le ragioni di scambio ultra favorevoli che esistono in altre parti del mondo, siamo destinati a fallire. Bisogna trovare modi diversi di uscire dalla crisi. Non che queste cose non siano importanti e necessarie, ma se pensiamo di affidare a queste l’uscita dalla crisi, cerchiamo la chiave nel posto sbagliato.
Io penso che per ritrovarla bisogna rimettere al centro il lavoro.
Tu sei molto scettico sull’attuale trattativa, che vede solo nella rigidità del mercato del lavoro le ragioni del mancato sviluppo del nostro paese. Puoi spiegare?

A sentire il dibattito in corso sembra che la crisi di investimenti nel nostro paese sia generata esclusivamente dall’assenza di normative certe sul mercato del lavoro.
Allora, bisogna chiarire intanto che quello è solo uno spicchio della realtà. Tanto più -e questo va detto con chiarezza- che se non c’è ripresa economica, rendere più flessibile il mercato del lavoro non serve a un bel niente, o a molto poco. E qui aggiungo che fino ad ora non vedo provvedimenti che facilitino lo sviluppo: non c’è niente sull’istruzione, sulla formazione, sull’innovazione, sulla ricerca, se non qualche balbettio, bisogna quindi innanzitutto costruire le condizioni per una ripresa dello sviluppo.
Detto questo, le ragioni del mancato sviluppo o del mancato afflusso di capitali stranieri, sono, ahimé, molto più complesse di come vengono raccontate da chi oggi vuol far credere che il problema sia legato -banalizzo- all’art. 18.
Cioè in questo paese la pubblica amministrazione funziona come sappiamo; c’è un sistema di legislazione, anche sul lavoro, lento e farraginoso, c’è un costo dell’energia elevato, c’è un sistema della politica che propriamente trasparente non si può definire, c’è un sistema dei trasporti inadeguato, c’è una diffusione delle reti immateriali che non è all’altezza degli altri paesi sviluppati, c’è un sistema di malavita organizzata che corrode la politica e la società e rende la vita difficile a quegli imprenditori (e sono tanti) che vorrebbero comportarsi onestamente, per non parlare di un sistema bancario totalmente ingessato, di un sistema dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione che ammazzerebbe un dinosauro.
A me sembra che siano questi i fattori.
Insomma, raccontare la storia che il problema è la presunta rigidità del mercato del lavoro significa raccontare balle. In Veneto ogni anno ci sono 50.000 licenziamenti. Il Veneto, che è una delle regioni più ricche d’Italia e d’Europa, ha un dinamismo formidabile e, nonostante i pesanti contraccolpi della crisi, ha un mercato del lavoro flessibile quanto quello degli Stati Uniti.
Allora, ripeto, questo tema va affrontato, ma sapendo che è un tasto della tastiera. Non è che suonando solo il tasto della flessibilità in uscita si favorisce la ripresa economica.
E poi questo tema andava affrontato senza caricarlo di significati di altra natura. A meno che il disegno non sia un altro, ma allora bisogna dichiararlo. Cioè se il disegno è mostrare che il sindacato non è utile allo sviluppo, è un fastidio, come ha sempre detto il centrodestra; se il disegno è mettere ai margini la politica, le organizzazioni sociali e far credere che solo i tecnici possono dare una risposta ai problemi, vuol dire leggere la situazione di cui parlavo prima come un incidente contingente in un percorso.
Io penso esattamente l’opposto: serve invece un sovrappiù di politica. Solo che serve una politica diversa da questa, con personaggi nuovi, competenti, non compromessi. Quindi l’impasse in cui siamo è che il problema sarebbe politico prima che tecnico, ma siccome la politica è incapace di risposte, i tecnici diventano l’unica salvezza. Ora è pur vero che Monti ci ha liberato di un governo inefficiente e perfino imbarazzante e ha restituito un decoro alle istituzioni e una certa credibilità a livello internazionale al nostro Paese. Insomma, un intervento andava fatto, ma la soluzione a regime non può essere di tipo tecnico, ma di tipo politico perché richiede una visione del paese che vogliamo.
Anche quest’ossessione quotidiana di compiacere i mercati altrimenti lo spread sale, sembra ignorare il fatto che la coesione sociale e l’equità sono variabili di tipo economico, non solo morale, perché parliamo di una diversa modalità della distribuzione della ricchezza.
Quello che sta succedendo è che una politica incapace di rinnovamento, autoperpetuantesi nei suoi riti e nei suoi gruppi dirigenti, ha delegato ai cosiddetti tecnici la soluzione dei problemi politici. Questo è il paradosso in cui ci troviamo.
Nell’opinione pubblica sta passando l’idea che la politica sia incapace e che quindi si possa fare senza. Intendiamoci: era urgente e forse inevitabile affidarsi a un governo di unità nazionale. Ma faccio osservare la profonda differenza che c’è tra la grosse koalition tedesca e il governo dei tecnici. Là avevamo al governo la Merkel con i socialdemocratici. Qua abbiamo un governo senza politici. Se ci pensiamo, è una cosa pazzesca. Può esistere una situazione in cui i partiti restano sullo sfondo o addirittura -come qualcuno si augura- scompaiono? Esiste una democrazia senza i partiti? Alla fine l’idea che passa è che la democrazia abbia fallito. Ma questa è una discussione serissima. La democrazia rappresentativa oggi è adatta a governare il mondo globalizzato? Non è una domanda peregrina. Ma l’alternativa qual è? Il sovrano illuminato, un governo di tecnici nominato da partiti che stanno sullo sfondo sbeffeggiati dai tecnici che loro stessi hanno messo lì?
Io dico che non ci sarà alternativa se la politica non torna ad essere protagonista.
Non esiste paese al mondo in cui, scomparendo i partiti, resti salda la democrazia. Questo è oggi il problema che abbiamo di fronte.
In questo senso vedo la trattativa sul lavoro, così come la vicenda delle pensioni e delle liberalizzazioni, inserita in un contesto di crisi economica, ma anche di crisi dei sistemi democratici in Occidente.
Uno dei temi cruciali è come contemperare la flessibilità necessaria alle aziende per competere con le garanzie da assicurare ai lavoratori.
Nel nostro paese la prima forma di organizzazione della flessibilità è stata il Pacchetto Treu che ha introdotto il lavoro interinale e alcune norme che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro. Anche qui una premessa che non è nominalistica. Flessibilità non è sinonimo di precarietà. La flessibilità significa semplicemente non rigidità, ma ci può essere una flessibilità assolutamente tutelata. La flessibilità di per sé è una “parola valigia”, come dice Gallino, con tanti significati, ma nell’inconscio generale è diventata sinonimo di precarietà.
Precarietà cosa vuol dire? Vuol dire non avere certezze, non avere tutele, non avere quelle garanzie né quella stabilità necessaria a costruire un progetto di vita. Ecco, se tu alla flessibilità togli le tutele, resta la precarietà. Perché la flessibilità è diventata precarietà? Questa è la prima domanda a cui trovare risposta.
Che cosa ha ispirato questa logica? L’idea che la soluzione più semplice per uscire dalla crisi fosse intervenire sul fattore costo del lavoro. Una follia pura perché il lavoro si sposta naturalmente dove costa di meno, soprattutto il lavoro manifatturiero. Cioè mentre, per dirla con una battuta, è dispendioso andare a tagliarsi i capelli in Cina, produrre una nave di bulloni, di scarpe, di cd, può essere assolutamente competitivo. Ora, l’Italia non è un paese morto, è un paese che ha una sua vivacità, ma se tu la usi per competere con i paesi emergenti sul piano del costo del lavoro, alla fine la mortifichi.
Una certa flessibilità era necessaria al post-fordismo, ma il passaggio dalla flessibilità alla precarietà ha aperto un abisso. Perché sul settore più debole, che è il lavoro, hai scaricato per intero le ragioni di scambio dell’economia italiana. Non hai ammodernato il sistema dal punto di vista finanziario, amministrativo, funzionale ecc. e hai praticamente scelto di competere su due fattori di tutela del lavoro, quelli diretti, il salario, e quelli indiretti, le protezioni sociali, sia in termini di pensione che in termini di welfare.
Siamo arrivati al punto in cui la flessibilità in entrata è ingovernabile: le stesse imprese non sanno nemmeno più quanti sono gli istituti a cui possono attingere. Oggi si arriva a un posto di lavoro stabile nei pressi dell’età pensionabile. Quello che abbiamo prodotto in questa situazione è qualcosa di mostruosamente pericoloso perché la precarizzazione dei rapporti di lavoro conduce alla precarizzazione della vita sociale.
In questo contesto francamente non vedo la ragione per cui licenziare migliori la condizione di chi ancora deve essere assunto. Umberto Romagnoli, uno dei padri del diritto del lavoro italiano, con un’efficace battuta ha detto che questo approccio è come quello di chi pensa di far crescere i capelli a un calvo radendo a zero uno che i capelli li ha.
È pur vero che noi dobbiamo andare verso un’universalizzazione e rimodulazione dei diritti affinché non ci siano i protetti e i non protetti. Però anche qui attenzione... Cioè adesso chiamiamo “ipergarantiti” gli operai che prendono 1300 euro al mese e che hanno la cassa integrazione che li porta a guadagnarne 800; così “iperprotetti”, che se vengono licenziati si trovano senza lavoro e con la pensione che è stata spostata più avanti di tutti gli altri paesi europei. Dipingere queste persone come colpevoli del mancato ingresso dei ragazzi giovani nel mercato del lavoro non è solo stupido, è anche di una crudeltà assoluta.
L’idea che sul mercato del lavoro bisogna intervenire è assolutamente fondata. Occorre rendere vantaggioso il tempo indeterminato incentivando le imprese a stabilizzare e inserendo precocemente i ragazzi nel mondo del lavoro. Questo però comporta anche accorciare percorsi scolastici che sono molto, troppo, lunghi, con grandi dispersioni anche di energie. La cosa è molto più seria delle banalità che vengono raccontate da certi apprendisti stregoni. Senza contare che per universalizzare gli strumenti di protezione bisogna metterci dei soldi; per fissare un salario minimo per legge sotto il quale non si può andare, per evitare che uno che venga licenziato si butti nel canale, il paese deve spostare ricchezza dai profitti al lavoro. Io questa politica non la vedo.
La stessa trattativa su lavoro, pur avendo delle parti sicuramente positive, nell’impianto continua a non cogliere il problema di fondo e cioè che bisogna tornare a investire nel lavoro.
Tu hai trascorso gran parte della tua vita nel sindacato. Alcuni lo ritengono un soggetto non più all’altezza del compito che dovrebbe assolvere...
Sono stato segretario generale della Cgil per due mandati dal ‘98 al 2006; in precedenza, dal 1985 ho fatto parte della segreteria confederale. Tutta la mia vita è stata spesa prevalentemente nel sindacato: mi sono laureato nel 1975 e ho cominciato subito a occuparmi di sindacato scuola e per oltre vent’anni ho fatto il sindacalista a tempo pieno.
Per me è stata anche una grande scuola. A differenza di altri che hanno fatto solo politica, io penso che aver fatto il sindacalista mi abbia offerto delle possibilità straordinarie, perché mi ha obbligato a coltivare la relazione e a pensare quindi che le persone che hai di fronte sono sempre tuoi interlocutori, mai tuoi nemici, al massimo tuoi avversari politici. Quando invece ho cominciato a far politica, in alcuni, ho trovato una dose di cinismo per me incomprensibile; modificare di giorno in giorno i propri comportamenti in funzione dell’utile immediato è qualcosa di proibito nel sindacato, perché non ti viene perdonato.
Per venire alla domanda, penso che sia un soggetto che ha bisogno di un profondissimo aggiornamento, ma da qui a pensare che sia un intoppo per lo sviluppo passa un abisso di barbarie.
Quando ero segretario generale della Cgil ho avuto modo di esprimere critiche anche radicali, ma le critiche si fanno quando si ha a cuore un soggetto, una realtà. Io penso che il sindacato sia talmente importante che è giusto anche criticarlo radicalmente, però sapendo da che parte si sta e dove si vuole andare.
L’impressione purtroppo è invece che qualcuno voglia dimostrare al paese che si può farne a meno, che sia una palla al piede, qualcosa che divide, che difende qualcuno e abbandona gli altri. Conosco le difficoltà del sindacato ad affrontare questi temi, che tra l’altro sono stati caricati di simbologie pesanti. Pensiamo alla manifestazione al Circo Massimo sull’art. 18, poi segnata dalle vicende del terrorismo, dalla criminalizzazione di Cofferati e della Cgil.
Io ero segretario della Cgil quando c’è stata la vicenda d’art. 18. Ho detto subito che occorreva distinguere tra diritti e tutele. Non essere licenziati senza giusta causa è un diritto. Il reintegro è una tutela. Se io dipingo l’art. 18 come un baluardo della civiltà del lavoro, ne viene per converso che tutti i paesi che non hanno l’art. 18 sono barbari. Questa forzatura polemica concettualmente è stato un errore clamoroso che ha dato strumenti in mano agli avversari. Tu devi dire che il sistema di tutela dell’art. 18 inibisce la possibilità di liberarsi dei lavoratori fastidiosi e, come in tutti paesi, può essere anche modulato in modo diverso. Per esempio, io credo che il sindacato possa estendere l’utilizzo del risarcimento assegnando la decisione al giudice e trovando parametri equi, perché poi se andiamo a vedere, i reintegri effettivi sono pochissimi.
Se si fosse affrontata la questione volendo trovare un accordo, lo si trovava. La Cgil, che poteva avere delle difficoltà interne -so per esperienza che qualcuno non vuole che nemmeno si nomini l’art. 18- avrebbe fatto come fece Bruno Trentin nel 1993, trovando un’intesa, perché si trattava di uscire da un’impasse. Il fatto è che allora Trentin dall’altra parte aveva qualcuno che l’accordo lo voleva fare.
Bruno Trentin ebbe anche il coraggio di fare scelte impopolari. Cosa dovrebbe fare oggi il sindacato?
Penso a una cosa che, temo, non si farà. Su questa vicenda, piuttosto di cadere nel trabocchetto (che oltre all’isolamento della Cgil prevedeva anche la spaccatura del Pd) la Cgil dovrebbe fare -uso un’espressione di Vittorio Foa - la “mossa del cavallo”. La mossa del cavallo in questo caso vuol dire isolare dall’accordo quello che non va bene, dichiararlo, dopodiché chiedere di andare avanti e che la discussione avvenga tutta in Parlamento. Mettendo in chiaro che comunque la Cgil non si sarebbe tolta dal tavolo. Questo atteggiamento serve per mettere nelle peste chi vuole gettare l’amo per creare la divisione. Anche perché in questo provvedimento restano due punti che produrranno grossi problemi. Uno è il rapporto lavoratori pubblici-privati: se si fa un intervento di questa natura non si può escludere il pubblico. L’altra cosa che rischia di scoppiare tra le mani è che non ci sono i soldi per le tutele garantite.
In conclusione, se si dovesse ripresentare una situazione di impasse, credo che servirebbe una mossa di sfida al governo: “Noi non siamo d’accordo su queste cose, prevediamo che succederà questo, ve ne prendete la responsabilità”.
Tu denunci gli effetti devastanti che rischia di produrre il mix tra riforma del lavoro e riforma previdenziale.
Tutta questa vicenda della riforma del mercato del lavoro si aggancia ai non risolti problemi di riforma previdenziale, perché la riforma è stata fatta col machete e ha lasciato sul campo morti e feriti. Ora, se intervieni col machete, poi non puoi lamentarti se gli schizzi di sangue rovinano le pareti della “bella politica”. Ora, a parte il paragone truce, le cose fatte sulle pensioni sono complicate: io non ho nessun problema sul contributivo pro-rata, e neanche sull’unificazione degli istituti previdenziali, però, invece di introdurre la flessibilità in uscita (incentivando la permanenza e disincentivando l’uscita anticipata), si sono tolte di mezzo le pensioni di anzianità dalla sera alla mattina col risultato che qualcuno che aveva la quota per uscire s’è trovato a dover aspettare quattro-cinque anni in più. Questa è una cosa inaudita che ha creato delle situazioni disperate.
Adesso ci sono gli “esodati”, ai quali era stato assicurato un collegamento con la pensione, che si trovano invece a non avere né la pensione né il lavoro. Poi ci sono i precoci. Ma sappiamo di cosa parliamo? Io vengo fermato per la strada da persone che mi dicono: “Roberto, ho 56 anni, ho cominciato a lavorare dopo le medie, ho sempre lavorato, ho 39 anni di contributi e adesso mi hanno licenziato, cosa faccio?”. Le stesse imprese che tuonano a favore dei diritti dei lavoratori giovani e si lamentano che si abbandona il lavoro da “troppo giovani”, a questi lavoratori spiegano che sono troppo vecchi per essere assunti.
C’è il problema delle partite Iva, quelli che hanno la gestione separata. Questi pagano una “paccata” di contributi, dopodiché si dice loro: “Fatevi la pensione integrativa”. Ma con quali soldi dopo che hanno dato circa il 27% all’Inps e hanno pagato il commercialista? Abbiamo infine tutta la partita di quelli che non raggiungono il minimo. Ma, scusa, se la pensione è contributiva e io ho pagato per cinque anni, mi darai l’assegno corrispondente senza che io debba aspettare di arrivare a 70 anni per veder riconosciuto il mio diritto. E questi sono solo alcuni esempi.
A tutte queste cose un governo degno di questo nome deve dare una risposta. Nessuno vuol tornare alle pensioni baby, però, ad esempio, perché non si è chiesto un contributo di solidarietà ai cinquecentomila pensionati baby? So che molti assegni sono bassi, però anche un piccolo contributo sarebbe stato importante, proprio per dare il segno. Noi siamo passati da un eccesso all’altro.
Stiamo costruendo una generazione di poveri. In questo senso i temi del lavoro e della pensione non possono essere disgiunti. In un momento di crisi, con tassi di disoccupazione inediti, il combinato disposto è un disastro in termini di coesione sociale.
Si dice: avremmo potuto finire come la Grecia, che è diventata il babau. Ho capito; era un problema reale, però se vuoi essere serio dovevi intervenire anche sulle grandi ricchezze. Non puoi avere un occhio di riguardo per quelli che s’incazzano, come è avvenuto  per le liberalizzazioni, ed avere la mano pesante su quelli che hanno accettato la riforma delle pensioni con tre ore di sciopero, pur avendo molto da ridire. In questo paese sembra che alcuni abbiano il diritto di protestare e di ottenere e altri debbano solo subire.
Qualcuno denuncia che si vogliono scaricare sul lavoro anche quelli che forse sono più propriamente oneri sociali. 
Io penso che l’impresa non possa diventare assistente sociale; l’impresa deve per definizione produrre profitto, ma ha anche una responsabilità sociale. Non posso licenziare uno solo perché è vecchio e mi costa di più e sostituirlo con un ragazzo all’insegna del modello americano “hire and fire”.
Se la riforma fosse rimasta quella della prima proposta del governo, pagando un’indennità, l’imprenditore poteva liberarsi di un lavoratore di 56 anni che magari, avendo iniziato a lavorare dopo le scuole media, aveva 40 anni di contributi, per cui gliene mancavano oltre 2 per arrivare a quei 42 e rotti necessari per andare in pensione anticipata e una decina per andare in pensione di vecchiaia.
Bene, questo Stato mi deve dire come lo accompagno alla pensione o come l’impiego, perché altrimenti questa è la strada verso la disperazione.
Allora, se vogliamo parlare di cose serie, a me sembra siano questi i problemi.
Io voglio sapere cosa facciamo di questa gente che, tra l’altro, non essendo molto scolarizzata, fa fatica anche a riconvertirsi. Anche certe stupidaggini sulla formazione sono vergognose. Non puoi riproporre a un lavoratore che ha fatto le medie quarant’anni fa, la formazione col modello frontale dell’aula. Bisogna essere seri: forse in qualche caso bisogna evitare la formazione e offrire invece sistemi di accompagnamento alla pensione. Non voglio essere frainteso: io sono favorevolissimo alla formazione, purché si inserisca in un percorso congruo. Io ho visto lavoratori piangere per compilare le caselline della domanda di mobilità perché erano anni che non scrivevano più.
Allora, per concludere, nella mia visione della politica, queste persone non possono essere abbandonate a se stesse. Se invece si pensa che siano dei pesi che possono essere tranquillamente eliminati, e che questo è un incidente di percorso del mercato che si autoregola... beh, non commento.
Dopodiché il problema esiste; solo un cretino può negare il fatto che mentre prima la pensione veniva goduta mediamente per circa dieci-quindici anni, adesso viene goduta per circa venti-trenta; nessuno può negare che la demografia ci impone certe modifiche, ma da questo a farne derivare soluzioni automatiche, beh c’è di mezzo appunto la politica.
Tu eri favorevole a una soglia d’uscita mobile...
Ai tempi della riforma Dini si era parlato di una soglia 57-62 anni: se andavi via prima venivi penalizzato, se aspettavi eri incentivato.
Se io a sessant’anni voglio andare in pensione perché ho un genitore ammalato e sono disposto a rimetterci una percentuale perché una badante mi costa mille euro al mese più i contributi o perché preferisco assisterlo personalmente oppure semplicemente perché mi sono rotto di lavorare; oppure faccio un lavoro che mi gratifica, sto bene, e voglio lavorare fino a 67 anni aumentando così la mia contribuzione, perché non posso farlo? Uno mi deve spiegare perché non si può fare. Contro la soglia rigida hanno tuonato tutti quando la propose Maroni e adesso stanno tutti zitti.
Bisognerebbe consentire ai lavoratori e alle lavoratrici di poter fare anche una valutazione  soggettiva. Non c’è niente di sbagliato nell’accettare un’autoriduzione della pensione a fronte del fatto che io posso per esempio assistere una persona o semplicemente farmi i fatti miei. 
Ma nello spostamento in avanti c’è un altro problema, che non riguarda solo gli edili o i minatori. Chiedo: a 65 anni chi è che corre dietro a trenta bambini in una scuola dell’infanzia, chi alza dal letto un infermo in traumatologia?
Che poi capisci cosa vuol dire per un bambino di tre anni avere un insegnante di scuola del’infanzia che ne ha 65? Quando io andavo a scuola, i miei insegnanti erano poco più vecchi di me. Quando insegnavo nel biennio delle scuole superiori, fino al 2010, potevo quasi essere il nonno di quei ragazzi. C’è anche un problema di immaginario relazionale. Perché non parliamo di queste cose?
Torniamo alla riforma sul lavoro. Il “Wall Street Journal” tempo fa ha scritto che in Italia un imprenditore non può licenziare un incompetente. Questo è un problema?
Premesso che il datore di lavoro ha tanti modi per tenere sotto osservazione una persona (periodo di prova, apprendistato, tempo determinato, ecc.), tieni conto che se un dipendente si rivela inadatto o non rispetta le normative, ci sono tutte le sanzioni previste dai contratti e dopo un tot di sanzioni il licenziamento in genere non viene osteggiato dal giudice.
Alcuni lamentano che il tribunale del lavoro tende a dare sempre ragione al lavoratore. Ora, i giudici come tutti gli arbitri possono anche sbagliare, però vorrei precisare una questione su cui non siamo mai stati sufficientemente chiari. Il diritto del lavoro è un diritto disuguale, non è il diritto privato dove i due contraenti sono pari nel giudizio. Il diritto del lavoro è una parte del diritto nella quale si pensa che esista una parte più debole dell’altra. Può piacere o meno ma è così. Questo non significa che ogni lavoratore sia innocente e che il datore di lavoro non possa avere buonissime ragioni per liberarsi di lui. Ma quanti sono questi casi?
Non dimentichiamo che il lavoratore può essere lasciato a casa con provvedimenti di licenziamento collettivo. Chiaro che se parliamo di una piccola ditta dove ci sono due dipendenti e uno non fa palesemente nulla, questa diventa una ragione seria, ma in questo caso il licenziamento è possibile e la legge non prevede alcun reintegro. Non c’è illogicità nella soglia dei 15 dipendenti.
Ma soprattutto, se chiediamo all’imprenditore di mettere in fila le ragioni della competitività, questa c’è, ma è una delle ultime.
Sul tema dell’estensione degli ammortizzatori sociali e della cosiddetta “flexysecurity”, quali sono le difficoltà?
Quando si parla del modello danese bisogna tener conto intanto che la popolazione danese è   l’equivalente di una regione come il Veneto, e poi che lavorano tutti.
Qui mancano, a mio avviso, due elementi fondamentali: i soldi per pagare gli ammortizzatori sociali e i servizi di politica attiva per il lavoro. I vecchi uffici del lavoro -quando va bene- sono diventati delle forme di registrazione statistica dei movimenti sul mercato del lavoro. Parlare di servizi per il lavoro efficienti significa mettere assieme pubblico e privato -con una regia pubblica- allestendo un sistema in grado di accompagnare la persona ad un altro lavoro. Ichino  nel suo ultimo libro si immagina che il datore di lavoro si accolli una tassa per accompagnare il lavoratore. Vorrei conoscerli questi imprenditori. Purtroppo siamo lontani dall’idea di guidare insieme la ricollocazione. Quando mi è capitato di fare gli accordi per introdurre la responsabilità sulla mobilità del lavoratore, le poche volte che si è riusciti, c’era da morire perché l’imprenditore si voleva solo liberare del problema.
La ricollocazione del lavoratore attraverso le politiche attive del lavoro è una delle cose più difficili nel nostro paese. Io sono entrato in alcuni servizi per l’impiego all’estero e sono rimasto esterrefatto. Intanto erano locali belli e accoglienti, forniti di computer, dove potevi sederti a chiacchierare, ma soprattutto avevi la sensazione di essere una persona in momentanea difficoltà in un luogo in cui qualcuno ti dava ascolto, consigli e suggerimenti. Qui ci sono sempre i corridoi della vecchia pubblica amministrazione con gli uffici in cui ti aggiri sentendoti un rompiballe.
E poi c’è appunto il problema dei soldi. Già ora il tema degli ammortizzatori s’è dilatato nel tempo e non è chiaro se le risorse a disposizione basteranno per estenderlo veramente a tutte le tipologie. D’altra parte anche sulle politiche attive per l’impiego io non so per esempio le regioni dove troveranno i soldi. Faccio osservare che in due anni il Veneto ha perso un miliardo di euro di trasferimenti. Allora, bisogna mantenere la sanità, i trasporti, il sociale, c’è il patto di stabilità che t’impedisce di spendere i soldi anche dove li hai... Insomma fare politiche attive per l’impiego senza soldi è difficile!
Dicevi che la politica dovrebbe accompagnare una riflessione sindacale che sia all’altezza dei tempi, non enfatizzarne i limiti.
Essendo uno che conosce e ha a cuore la storia del sindacato, non mi sfuggono le difficoltà che trova nel mercato del lavoro attivo e in particolare nella manifattura che è letteralmente crollata come percentuale di occupati e di conseguenza di organizzati.
So che questo è il problema. Ma chiedo: data la situazione, devo puntare ad allargare la capacità di sentirsi parte di un soggetto collettivo anche a quei lavoratori che fanno lavori precari, saltuari, che restano ai margini o devo ambire a distruggere quest’organizzazione e puntare  solo sulla trattativa individuale? Se vogliamo che i lavoratori tornino a essere singoli negoziatori dei loro destini senza alcuna rete di collegamento, bene, questa è la strada.
Oggi il sindacato è in grave difficoltà e un soggetto in queste condizioni cerca in primo luogo di sopravvivere, non è che ha il tempo e il modo di pensare a cosa potrebbe fare nella vita. Io però penso che sia compito della politica accompagnarlo in questo difficile passaggio. Anche perché lo stesso problema ce l’hanno le imprese. Non è che la rappresentatività dell’impresa sia maggiore di quella del sindacato o la loro frammentazione sia minore o meno preoccupante. È compito della politica dare voce ai corpi intermedi perché significa assegnare ai lavoratori l’idea di essere soggetti che hanno, oltre che un destino individuale, anche una storia collettiva.
Sembra che tu veda un rischio molto serio, quasi mortale, per il sindacato.
Assolutamente sì. Il fatto che il sindacato non sia stato coinvolto da Tangentopoli o dalla crisi della politica non l’ha messo al riparo. In fondo il sindacato, con alcune modernizzazioni minime, è quello del secolo scorso. Ha le categorie, la confederazione, le strutture territoriali, ha un’organizzazione e un modello che è legato a quel tipo di produzione.
Qui si riaprirebbe una discussione enorme, ma è chiaro che il sindacato oggi deve spostare il terreno di iniziativa dalla contrattazione nazionale -che deve rimanere- alla contrattazione locale, territoriale; affiancare ai sistemi di tutela contrattuale (i contratti) i sistemi di tutela individuale (i servizi). È in corso un cambiamento epocale segnato dalla polverizzazione dei rapporti di lavoro, dall’esternalizzazione. Non siamo più nell’epoca della sindacalizzazione della grande fabbrica e la sindacalizzazione dell’azienda medio-piccola, dove il lavoratore dipendente è simbiotico con il datore di lavoro, è una missione quasi impossibile.
Il tipo di protezione sociale deve dunque cambiare. Il rapporto con il datore di lavoro, da esclusivamente conflittuale, deve diventare anche collaborativo. Qui si apre tutto il terreno dei cosiddetti enti bilaterali e quant’altro.
Questo è un problema che riguarda anche la politica oppure no? In fondo oggi cosa dovrebbe fare uno del sindacato se non proteggere i suoi iscritti? Se tu fossi socia del circolo del tennis e arrivasse uno che sfascia le racchette, beh, la prima cosa che faresti è di metterle nell’armadietto! O no?
Le associazioni sono il sale di una democrazia, che non può vivere solo dei partiti o della rappresentanza parlamentare. Deve vivere anche di corpi intermedi. Se i corpi intermedi non esistono, se i partiti spariscono avremo un sistema di carattere plebiscitario.
Anche il Pd è in un momento di difficoltà...
Il Pd non è nato per collaborare a questo tipo di disegno, è nato come un partito che intendeva dare una lettura diversa -di cui c’è improcrastinabile necessità- della situazione italiana. Dall’assassinio di Moro in avanti non c’è più stata una lettura di sintesi della storia del paese. E non è sicuramente il governo tecnico che può supplire la mancata lettura politica dei processi. Bisogna ripartire da lì. Il Partito democratico è nato con un grande progetto. Se il problema era salvare i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita a me non interessa. La speranza che aveva acceso soprattutto con Prodi... Capisci il paradosso? I politici hanno “ammazzato” Prodi perché non era organico al sistema dei partiti, per trovarsi Passera, Fornero e Monti a fare il lavoro che doveva essere fatto da un personaggio che abbiamo espunto dalla politica perché non era espressione dei partiti. Bel risultato!
Quella di Prodi, per me, rimane l’intuizione geniale: il Partito democratico come luogo, non della saldatura dell’esistente, ma dell’incrocio, della contaminazione di culture che comunque hanno fatto la storia di questo paese.
Il pensiero socialista, con tutte le contraddizioni, è qualcosa di molto più significativo della degenerazione a cui è arrivato negli anni peggiori, ha una storia centenaria che è finita in tragedia. Il problema del socialismo italiano non può essere ridotto a una vicenda giudiziaria, penale. Mi spiego? Ecco, il Partito democratico era nato per questo. Non a caso s’erano avvicinati milioni di persone. Se torna ad essere un partito come gli altri, legato a gruppi di potere, non interessa a nessuno.
Se il Partito democratico vuole avere un futuro, deve battere un colpo su questi temi, che non sono solo la difesa del lavoro o la protezione della Cgil (come qualcuno volgarmente dice), ma sono il tentativo di dare una lettura diversa, alternativa, alla vicenda italiana e alla vicenda occidentale, e di ridare forza a una democrazia che è entrata letteralmente in crisi.
Ma, attenzione, la soluzione non può essere quella di ripristinare lo status quo ante.
Una delle ragioni per cui abbiamo perso nel passato è che dentro questa alleanza c’era un pezzo di sinistra che non ha mai voluto fare i conti con questi cambiamenti. La politica non deve limitarsi a fare da eco, a enfatizzare il malcontento, deve trovare soluzioni.
Se oggi critico il mio partito è perché lo vedo insufficientemente speso sull’idea di ricercare questa alternativa. Comunque l’esercizio di rilettura, se vale per il Pd, vale per tutti. Non c’è nessuno che sia esentato.
Purtroppo i partiti hanno smesso di essere -citazione gramsciana- quell’intellettuale collettivo capace di dialogare con gli specialisti e di trasferire le loro analisi in azione politica. Questo non c’è più. Io non so dove si discuta oggi con libertà, apertura mentale, volontà vera di confronto.
Analogo discorso vale per il sindacato: i Bruno Trentin non ci sono più. Un tempo andavi alle riunioni e, anche se non eri d’accordo, ti venivano aperti degli orizzonti, offerte delle sollecitazioni, provocate delle domande. Oggi nei luoghi della politica si ripetono le notizie dei giornali.
Purtroppo la strada è in salita, impervia e non ci sono sponde. Ma se quella è la strada, quella bisogna percorrere. Se vogliamo bene alle persone più giovani, bisogna tornare dove abbiamo perso il filo di questa storia. Non ci sono scorciatoie alla politica, non ci sono tecnici che risolvano problemi politici. Tornando alla metafora: bisogna tornare a cercare la chiave dove l’abbiamo persa.

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mercoledì 25 aprile 2012

La sanità veronese sempre più nelle mani dei privati

Articolo di Laura Pressi, candidata Pd al Consiglio Comunale di Verona
La sanità pubblica veronese, così come quella veneta, va verso un indebolimento e una privatizzazione progressiva grazie ad appalti e alla finanza di progetto (project financing) cioè lavori da fare con i soldi di privati che consente alle aziende legate alle lobby che si sono aggiudicate l'appalto e agli amici degli amici lucrosi affari. Nel 2010 infatti veniva bandito un project financing da 108 milioni di euro per la realizzazione di lavori di ampliamento e ristrutturazione di Borgo Roma per creare un centro ambulatoriale specialistico e la costruzione di un nuovo "ospedale della donna e del bambino" annesso all'ospedale di Borgo Trento in aggiunta alla gestione di alcuni servizi non sanitari e commerciali. A favore dei privati che si aggiudicheranno l’appalto del project financing verranno infatti garantiti loro a prezzi di favore servizi già ora esternalizzati come la ristorazione, la manutenzione edile e i servizi commerciali al project financing. Questi global service, ovvero i comparti di spesa non sanitaria come la mensa, le pulizie,  l'edilizia sanitaria, le forniture, le manutenzioni, i parcheggi, ecc..sono da anni affidati in esclusiva ai privati e sfuggono al controllo dei comuni cittadini i livelli di qualità e di affidabilità di questi servizi che poi comunque  vanno a pesare sul bilancio delle Ulss. Conviene ora che gli stessi privati si inseriscano in questo sistema di finanziamento a progetto? Questo ha tutto il sapore di essere un bel business all'insegna delle lobby legate ai soliti noti. Per 20 anni l'Azienda Integrata di Verona si indebiterà con i privati con la facile previsione che a pagarne le conseguenze saranno i veronesi.
A mio avviso bisogna tenere alta l'attenzione sulla centralità della gestione pubblica della sanità veronese e sulla trasparenza degli appalti poiché la produzione di beni e servizi sanitari influenzano la condizione di salute di tutti i cittadini che non può essere esclusivo appannaggio del privato. La finanziaria prevederà un taglio di 8 miliardi nel biennio 2013-2014 a cui se aggiungiamo gli effetti della precedente manovra si arriva a 13 miliardi di euro in meno per la sanità. E noi cosa facciamo? Incoraggiamo anche localmente questi progetti di finanziamento svendendo il pubblico ai privati. Nell'attuale situazione economica sarà già molto difficile garantire i livelli essenziali di assistenza nella sanità pubblica, mentre le strutture private da questa manovra non potranno che trarne vantaggio. Nel 2011 per la sanità si sono spesi 1.500 milioni di euro in meno, ciò vorrà dire che i medici e gli infermieri che sono andati in pensione non saranno sostituiti (quindi blocco del turn-over) con conseguente carenza di personale nei vari reparti, nei Pronto Soccorsi arrivando a una condizione in cui anziani e disabili avranno minore assistenza. A questo si aggiunge il taglio del fondo per la non autosufficienza per ben 400 milioni di euro in aggiunta al taglio di 126 milioni per il fondo nazionale per le politiche sociali con cui vengono finanziati i servizi ai disabili. In questo quadro così disastroso solo la sanità pubblica viene colpita. Nelle case di cura private accreditate i posti letto sono rimasti gli stessi, mentre negli ospedali pubblici sono scesi nel 2009 con un calo del 20%. A tale riduzione di posti letto non ha fatto seguito, come previsto e scritto in tutti i progetti, alcun potenziamento delle risorse territoriali. L'alta qualità dei servizi sanitari pubblici deve essere tutelata e mantenuta. Forse non è sbagliato ricordare a certi amministratori che ci hanno portato localmente a queste disastrose condizioni che paziente deriva dal latino patiens colui che soffre e non significa persona che ha la pazienza di sopportare una sanità più attenta ai costi che alla salute delle persone. La continua ingerenza della politica nel governo delle aziende sanitarie, a partire dai Direttori Generali fino ad arrivare alle nomine delle strutture semplici che premiano l’appartenenza e non la professionalità e le competenze delegittima la sanità pubblica. E’ per questo che chiediamo trasparenza nelle nomine e più regolamentazioni per gli incarichi. La qualità di una sanità pubblica del futuro dipenderà anche dalle scelte oneste e trasparenti e dalle politiche che vi stanno alla base e che devono tenere presente che i cittadini hanno il diritto di conoscere e di essere informati poiché questo è un tema vitale con il quale la corruzione e le raccomandazioni non devono assolutamente contaminare la purezza dei professionisti della salute che ogni giorno lavorano anche in condizioni molto difficili.

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lunedì 23 aprile 2012

RIFORMA DEL LAVORO: SI PUÒ ARRIVARE IN DANIMARCA PASSANDO DALLA GERMANIA?

Intervista a Pietro Ichino a cura di Antonino Leone pubblicata su Sistemi e Impresa n. 4, aprile 2012
Pietro Ichino, professore di diritto del lavoro all’Università di Milano e senatore del Pd, è il primo firmatario di un disegno di legge, il n. 1873/2009, firmato con lui da altri 54 senatori del Pd, che ha avuto un peso politico notevolissimo in questa legislatura. In un primo tempo, il 10 novembre 2010, esso è stato indicato come modello in una mozione bi-partisan a prima firma di Francesco Rutelli, approvata a larghissima maggioranza dal Senato, che impegnava il Governo a emanare un nuovo codice semplificato del lavoro. Poi, nell’ottobre 2011, esso è stato indicato dal Governo Berlusconi ai vertici dell’Unione Europea come modello a cui l’Italia si sarebbe attenuta per l’adempimento dell’impegno assunto a riformare il diritto del lavoro e in particolare la disciplina dei licenziamenti, secondo le direttive contenute nella lettera del 5 agosto precedente del governatore uscente e di quello entrante della BCE. Infine, il 17 novembre successivo, molti hanno letto nel discorso programmatico del neo-Presidente del Consiglio Mario Monti al Senato alcuni richiami quasi espliciti a quel progetto di riforma, sia per quel che riguarda il metodo sia per quel che riguarda il merito; e gli stessi richiami erano parsi comparire nel disegno di riforma inizialmente presentato dal ministro del Lavoro Elsa Fornero alle parti sociali nel gennaio di quest’anno. Poi, però, le cose sono andate diversamente e il Governo ha scelto di battere la strada indicata dal segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni. Dunque, dalla sperimentazione del progetto flexsecurity ispirato al modello danese, limitatamente alle nuove assunzioni nelle regioni e nelle imprese disponibili, si è passati all’applicazione generalizzata, anche ai rapporti di lavoro vecchi, del modello tedesco. Chiediamo al senatore democratico che cosa pensa di questa vicenda politica singolare.
È stata una buona idea questa di passare dalla sperimentazione alla riforma generalizzata, applicabile subito a tutti?
Avrei preferito la sperimentazione, su base inizialmente limitata, di un progetto qualitativamente più ambizioso di riforma organica sia della materia dei licenziamenti, sia di quella degli ammortizzatori sociali, sia di quella del contrasto al precariato: questo avrebbe consentito di disegnare una riforma più semplice e incisiva nel suo impianto legislativo, assistita da uno stanziamento di risorse finanziarie e amministrative in proporzione molto maggiore. Se la sperimentazione avesse funzionato bene, poi, essa si sarebbe espansa a macchia d’olio, con il proliferare delle opzioni delle imprese per il nuovo regime.
Forse questo è proprio ciò che ha preoccupato i sindacati: hanno temuto che la cosa sfuggisse al loro controllo.
Questa può essere una spiegazione della proposta di Bonanni, presentata già nelle fasi iniziali del negoziato e subito fatta propria dal Governo. Certo è che sulla disciplina dei licenziamenti si è preferito un progetto più ambizioso quantitativamente, ma meno incisivo e organico sul piano qualitativo. Questo, tra l’altro, ha determinato una alterazione dell’equilibrio iniziale tra riforma della disciplina dei licenziamenti e norme di contrasto alla precarietà del lavoro.
Che cosa vuol dire?
Voglio dire che l’idea di una forte restrizione della possibilità di ingaggio dei lavoratori sostanzialmente dipendenti in forme contrattuali flessibili, quali la collaborazione autonoma e l’associazione in partecipazione, era inizialmente coniugata con quella di una forte flessibilizzazione del contratto regolare a tempo indeterminato, almeno nel suo primo triennio. Questo avrebbe reso molto più accettabile per le imprese l’assorbimento nell’area di applicazione della legislazione protettiva delle attuali collaborazioni autonome che mascherano situazioni di sostanziale dipendenza. Poi, sotto la pressione della sinistra politica e sindacale, la portata della riforma dei licenziamenti è stata progressivamente ridimensionata; era facile dunque attendersi che gli imprenditori avrebbero chiesto un simmetrico ridimensionamento delle norme di contrasto alle forme di lavoro precario. Ed è proprio quello che sta avvenendo. Inoltre, un sostegno più robusto ai lavoratori disoccupati, per quel che riguarda non solo il sostegno del reddito ma anche i servizi di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, avrebbe reso più accettabile a sinistra una riforma della disciplina dei licenziamenti anche più incisiva di questa.
Dunque, un giudizio negativo sul disegno di legge sul quale il Senato sta lavorando?
No. Nonostante questa “riduzione bilanciata” di incisività della riforma sui due versanti – quello della disciplina dei licenziamenti e quello del contrasto al precariato – e il suo contenuto insufficiente per quel che riguarda il sostegno ai disoccupati e i servizi nel mercato, il disegno di legge a cui stiamo lavorando in Senato segna una tappa molto importante e positiva nell’evoluzione del nostro diritto del lavoro. Innanzitutto perché esso affronta concretamente, per la prima volta nel sessantennio repubblicano, la questione del dualismo del nostro tessuto produttivo, cioè dell’apartheid fra protetti e non protetti, secondo quanto siamo stati sollecitati a fare in modo particolarmente pressante dalla Commissione Europea negli ultimi tempi. Poi perché con questa riforma si supera una anomalia molto rilevante della nostra disciplina dei licenziamenti rispetto al resto degli ordinamenti europei; e noi abbiamo una necessità urgente di armonizzare la nostra legislazione del lavoro, soprattutto per questo aspetto, agli standard dei Paesi più avanzati, anche in funzione dell’apertura del nostro sistema agli investimenti esteri. Infine perché finalmente si compie un primo passo importantissimo sulla via della riforma e universalizzazione degli ammortizzatori sociali, dopo quindici anni nei quali se ne è parlato molto senza combinare nulla.
Le novità in materia di ammortizzatori sociali, però, non sono state molto apprezzate, né dai sindacati né dagli imprenditori.
Per la prima volta abbiamo un’unica assicurazione contro la disoccupazione, l’ASPI, uguale per tutti i lavoratori dipendenti. E per la prima volta la Cassa integrazione guadagni viene ricondotta in modo molto netto e incisivo alla sua funzione originaria: quella di tenere i lavoratori legati all’impresa nelle situazioni di difficoltà temporanea, per evitare la dispersione di professionalità quando vi è la ragionevole prospettiva della ripresa del lavoro nella stessa impresa.
C’è chi dice che la riforma dell’articolo 18 è stata sostanzialmente svuotata, che i giudici del lavoro potranno andare avanti a reintegrare i lavoratori come e quando vorranno.
Non è così. La nuova norma contiene numerose novità molto importanti, che determineranno fin da subito un cambiamento sensibile, eliminando molti paradossi e assurdità generate dalla vecchia formulazione dell’articolo 18. Innanzitutto, vengono stabiliti dei limiti precisi e ben graduati dell’indennizzo, sia nel caso in cui esso si accompagna alla reintegrazione sia nel caso in cui esso costituisce la sola sanzione per il difetto di giustificazione del licenziamento: non potrà più accadere che una sentenza pronunciata molti anni dopo il licenziamento produca risarcimenti milionari. Poi si stabilisce la regola per cui la reintegrazione costituisce la sanzione tendenzialmente riservata al caso del licenziamento dettato da un motivo illecito: essa deve dunque scattare quando la discriminazione o rappresaglia viene accertata dal giudice, oppure nei casi di radicale insussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, che consente di presumere un motivo illecito o comunque del tutto arbitrario. In tutti gli altri casi il giudice sarà tenuto a disporre il solo indennizzo, tra il minimo delle 12 e il massimo delle 24 mensilità: un massimo che supera di un terzo quello tedesco, ovvero il più alto d’Europa dopo il nostro, ma che è pur sempre un limite massimo, in una materia finora caratterizzata dall’assenza di qualsiasi limite.
Ma i critici della riforma dicono che i giudici del lavoro italiani andranno avanti come hanno sempre fatto a condannare le imprese alla reintegrazione, vedendo discriminazioni e rappresaglie dappertutto.
Non andrà così. Oggi nella grande maggioranza dei casi di annullamento di licenziamento disciplinare, il giudice accerta che la mancanza imputata al lavoratore è stata commessa, ma ritiene che essa non sia di entità tale da giustificare il recesso del datore; in questi casi d’ora in poi dovrà essere disposto il solo indennizzo, che costituisce la sanzione più equilibrata se si considera che il lavoratore ha concorso con una propria colpa a determinare lo scioglimento del rapporto. Quanto ai licenziamenti per motivo economico od organizzativo, nella grande maggioranza dei casi di annullamento il giudice non accerta l’insussistenza totale del motivo addotto dall’imprenditore, ma si limita a ritenerlo insufficiente per determinare il recesso; anche in tutti questi casi non potrà essere disposta la reintegrazione, perché la nuova norma la escluderà in modo molto esplicito. L’esperienza pratica, poi, insegna che se l’esito più probabile del giudizio consiste nell’indennizzo, le parti si accordano su di esso già in sede di conciliazione, o nel corso della prima udienza. E sarà proprio questo a segnare il passaggio da un regime di job property a un regime di liability dell’impresa nei confronti del proprio dipendente.
Che cosa vuol dire?
Oggi, dove si applica l’articolo 18, di fatto il licenziamento individuale è possibile soltanto in presenza di una mancanza gravissima del lavoratore. Questo determina una situazione nella quale quest’ultimo può sentirsi come titolare di un diritto di proprietà sul proprio posto di lavoro: anche in presenza di una perdita rilevante attesa dall’imprenditore per effetto della prosecuzione del rapporto, se l’impresa non è già in stato fallimentare e non ci sono neppure gli estremi per un licenziamento collettivo il lavoratore sa di non poter perdere il posto. Nel nuovo sistema, invece, la netta prevalenza della sanzione economica farà sì che diventi proprio questa, il cosiddetto severance cost, il vero filtro delle scelte imprenditoriali. In altre parole, è come se il legislatore fissasse una soglia oltre la quale la perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto di fatto giustifica il licenziamento: se la perdita attesa, attualizzata a oggi, supera le 24 mensilità di retribuzione, oppure un limite inferiore nei casi di bassa anzianità di servizio del lavoratore, il licenziamento è di fatto possibile. Ed è giusto e opportuno che sia così. Anche per gli stessi lavoratori. Fermo restando ovviamente il controllo giudiziale rigoroso contro discriminazioni e rappresaglie illecite.
Perché i lavoratori dovrebbero guadagnarci?
Perché una protezione della stabilità dei posti di lavoro troppo rigida genera una cattiva allocazione delle risorse umane, quindi anche una minore produttività del lavoro, con conseguenti livelli più bassi di trattamento.
I fautori della vecchia formulazione dell’articolo 18 obiettano che, se il licenziamento è illegittimo, la sanzione della reintegrazione è quella che corrisponde meglio al concetto di giustizia.
Invece è proprio la vecchia formulazione dell’articolo 18 che ha prodotto risultati paradossali, soprattutto sotto il profilo dell’equità. Si pensi ai casi molto frequenti in cui una mancanza è stata commessa dal lavoratore, e anche di una certa gravità, ma il giudice la ritiene insufficiente a giustificare il licenziamento: per esempio assenza ingiustificata, danno prodotto per negligenza, piccolo furto; il fatto che il lavoratore torni trionfante nel suo posto di lavoro, ricevendo per di più un indennizzo da vincita al Totocalcio, non può essere considerato equo né nei confronti dell’imprenditore, né nei confronti degli altri dipendenti, che infatti sono sovente offesi da questo esito. Quanto al licenziamento per motivo economico od organizzativo ritenuto insufficiente dal giudice, la vecchia disciplina ci ha abituato a parlarne in termini di “licenziamento illegittimo”; ma a ben vedere qui il confine tra motivo giustificato e motivo insufficiente è talmente labile, e dunque l’esito del giudizio talmente aleatorio, che il filtro del severance cost è molto più equo, oltre che più efficiente, rispetto all’attuale regime di “lotteria” della reintegrazione.
Un’incertezza circa la decisione del giudice ci sarà comunque, anche se sarà molto più probabile la decisione nel senso dell’indennizzo rispetto a quella di reintegrazione.
Sì, ma come dicevo prima proprio il fatto che l’esito più probabile sia l’indennizzo farà sì che – dove non ci sia alcuna possibilità di ipotizzare la discriminazione o la rappresaglia – una porzione molto più ampia di controversie si risolverà in sede conciliativa con il pagamento di un indennizzo parametrato sui limiti minimo e massimo stabiliti dalla legge. Come accade in tutti gli altri Paesi d’Europa. E questo sarà meglio sia per i lavoratori sia per gli imprenditori. E anche per l’amministrazione della giustizia, che ne sarà decongestionata.
Fin qui abbiamo visto quelli che lei indica come meriti di questa riforma. Quali sono, invece, a suo modo di vedere, i difetti più gravi?
Vedo in primo luogo un difetto nella forma giuridica. Questo disegno di legge è ancora un testo scritto alla vecchia maniera: ipertrofico, complicatissimo, non leggibile se non dagli addetti ai lavori. Settantadue articoli: più di quelli dell’intero codice del lavoro semplificato proposto con il mio disegno di legge n. 1873, che contiene tutta intera la disciplina dei rapporti di lavoro e dei rapporti sindacali. Anche nel contenuto di alcune norme vedo una vecchia cultura giuslavoristica, tendente alla iperlegificazione del rapporto: si pretende di regolare tutto, fin nei minimi dettagli, finendo coll’aumentare i costi di transazione, la sabbia nell’ingranaggio. Per esempio: la pratica odiosa del far firmare al o alla dipendente le dimissioni in bianco all’atto dell’assunzione potrebbe essere sradicata con una norma semplicissima che attribuisca in tutti i casi alla persona che si dimette la possibilità di revocare l’atto entro due o tre giorni; si è preferito invece tornare a una disposizione che presenta troppe analogie, per aumento del peso burocratico, rispetto a quella che produsse una sorta di rigetto da parte del tessuto produttivo quattro anni or sono. Ma la mia preoccupazione maggiore, riguardo a questo disegno di legge, è un’altra.
Quale?
Questa riforma in partenza recepiva sostanzialmente la struttura portante del mio progetto: rendere molto più flessibile e appetibile per le imprese il rapporto di lavoro subordinato regolare a tempo indeterminato, in modo da poter far confluire in questo tipo contrattuale gran parte dei rapporti oggi sparsi nei vari tipi di lavoro precario o non protetto senza determinare perdite di occupazione. Ma nel mio progetto si prevede l’unificazione della contribuzione pensionistica al 29 o 30 per cento della retribuzione lorda, cioè in un punto intermedio fra l’attuale 27,8 dei collaboratori autonomi e l’attuale 32 o 33 per cento dei subordinati regolari; inoltre si prevede una fase iniziale del rapporto a tempo indeterminato – il primo triennio – nella quale il costo del licenziamento è davvero molto basso: una mensilità per anno di anzianità di servizio comprensiva dell’indennità di preavviso, con esenzione dal controllo giudiziale sul motivo economico-organizzativo. In questo modo sì che si può chiedere alle imprese di rinunciare dall’oggi al domani ai rapporti di lavoro precari, senza il timore di perdite di occupazione. Nel disegno di legge del Governo, invece, la progressiva parificazione della contribuzione previdenziale avviene al rialzo, sull’aliquota del 33 per cento; e il costo del licenziamento è correlato in misura molto minore all’anzianità di servizio: superato il periodo di prova, l’indennizzo per il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato viene subito determinato con un minimo di 12 mensilità.
Dunque lei vede il rischio che in questo modo si perdano per strada dei posti di lavoro?
Mi sembra difficile escludere questo rischio. Perché non lo si corresse, occorrerebbe che la domanda di lavoro fosse rigidissima, quindi insensibile all’aumento dei costi; ma la domanda di lavoro non lo è affatto in generale, ed è invece particolarmente elastica nella fascia professionale più bassa, dove è più diffuso il fenomeno dei rapporti di lavoro precari. Sta di fatto, comunque, che l’applicazione delle disposizioni volte a contrastare l’abuso delle collaborazioni autonome viene rinviata di un anno; e il rinvio rischia di essere prorogato alle calende greche. Questo allontana il superamento del regime attuale di apartheid.
Questa riforma secondo lei può ancora avere un impatto positivo sull’attrattività dell’Italia per gli investimenti stranieri?
Certo, avrebbe potuto avere un impatto positivo molto maggiore il progetto originario della sperimentazione di un nuovo assetto molto più semplice del rapporto di lavoro, riservata ai nuovi insediamenti e alle nuove assunzioni nelle imprese interessate. Anche questo disegno di legge, poi, pur con tutti i suoi difetti, avrebbe potuto giovare molto di più all’immagine del nostro Paese all’estero se il dibattito tra le parti sociali che ne ha accompagnato la gestazione fosse stato meno nervoso e concitato. Però, come dicevo prima, sono convinto che i pregi di questo disegno di legge nonostante tutto superino largamente i suoi difetti; e – se esso verrà varato con i miglioramenti a cui stiamo lavorando proprio in questi giorni in Senato – non tarderà a produrre un effetto positivo sulla nostra immagine: ne risulterà comunque un ordinamento del lavoro un poco meno caratterizzato dal dualismo fra protetti e non protetti e più allineato al resto d’Europa. In ogni caso, la battaglia per i due grandi obiettivi della semplificazione e della flexsecurity continua.
Vuol dire che si può pensare di arrivare alla Danimarca passando per la Germania?
Non mi sembra affatto un’idea peregrina. Chissà, forse è persino possibile che sia più facile arrivare al modello scandinavo attraverso questa prima tappa meno ambiziosa. Intanto il tabù è stato rotto; e questo conta moltissimo.


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mercoledì 18 aprile 2012

Ferruccio Pinotti, elezioni a Verona

Ferruccio Pinotti è giornalista d’inchiesta e scrittore. Lavora per il Corriere della Sera e ha collaborato con l’Espresso, Il Sole 24 Ore. Tra i suoi lavori figurano il libro Poteri forti (2005, Rizzoli) Opus Dei Segreta. Frusta, cilicio e alta finanza (Novembre 2006 Bur.). Nel 2008 si è cimentato con la narrazione, pubblicando il suo primo romanzo-inchiesta La società del sapere, ambientato nel mondo delle università. Ha poi pubblicato Colletti Sporchi (Con Luca Tescaroli, Rizzoli), LUnto del Signore (Rizzoli), La Lobby di Dio (Chiarelettere), Wojtyla Segreto (Chiarelettere), Non Voglio il Silenzio (con Patrick Fogli, Piemme), Finanza Cattolica (Ponte alle Grazie). I suoi libri sono stati tradotti in Germania, Portogallo e Slovenia.

Verona è in piena campagna elettorale e la città con i suoi abitanti sembra molto tranquilla ed addormentata. Come spiega questo strano fenomeno?
C’è sicuramente, da parte dei media locali, la tendenza ad addormentare il dibattito, a non tirare fuori i problemi scomodi, i conflitti di interesse, tutto ciò che crea conflitto. Si vuole tramutare il voto in un banale passaggio amministrativo, in cui si dà per scontata la rielezione di Tosi. Il centro-sinistra, dal canto suo, si limita a una campagna buonista, non aggressiva, basata più sul “i veri buoni siamo noi” che non sulla denuncia di ciò che non funziona.
Molte sono le città che hanno stabilito una strategia di sviluppo e sono uscite dall’anonimato (Seattle, Austin, Barcellona, Bilbao, Toronto e Berlino). Verona sembra ferma e bloccata nonostante le sue offerte culturali molto conosciute in Europa. Perché Verona continua ad essere considerata provinciale e non innovativa?
Perché non ha saputo creare quasi nulla nel settore del terziario avanzato e della cultura come motore di produzione di valore aggiunto. Il Polo Finanziario è definitivamente tramontato. Il Parco Scientifico pure, l’aeroporto è sommerso da decine di milioni di euro di debiti: è evidente l’incapacità progettuale e gestionale delle classi dirigenti veronesi
Nei suoi libri lei ha affrontato temi molti delicati e importanti per l’opinione pubblica(poteri forti, comunione e liberazione ed altro). Verona è influenzata da tali fenomeni che impediscono la libera crescita e l’arricchimento culturale? 
Verona vanta presenze molto forti, con realtà come Opus Dei e più di recente Cl che condizionano molte strategie politiche e finanziarie.
Quali sono secondo lei le risorse su cui si poggia la candidatura del Sindaco Flavio Tosi? 
Si è creato un blocco profondamente conservatore, che impedisce la crescita secondo modelli più dinamici e avanzati: il Banco Popolare versa in una crisi molto delicata, la Fondazione Cariverona risente dei condizionamenti leghisti. Questo blocco vede in Flavio Tosi l’interprete di un moderatismo post-democristiano e lo ritiene funzionale ai propri interessi. Anche la parte più conservatrice della Chiesa sostiene Tosi.
Subito dopo la Giunta del Sindaco Paolo Zanotto si è imposto Flavio Tosi. Quali sono le motivazioni di questo ribaltamento di posizioni?
La giunta Zanotto, pur animata da buoni propositi, ha mostrato poca grinta, producendo poche delibere (il consiglio comunale è rimasto perennemente bloccato dall’ostruzionismo Lega-Forza Italia), realizzando pochi progetti e sostenendo battaglie impossibili come la difesa dei diritti dei Rom. La giunta di centro-sinistra non ha nemmeno saputo cacciare i vu cumprà che infestavano via Mazzini. In un città di destra come Verona certo errori si pagano cari.
In alternativa a Tosi vi è la candidatura di Michele Bertucco. Secondo lei quali sono gli argomenti forti di tale candidatura che dovrebbero richiamare l’attenzione dei cittadini veronesi?
Sicuramente l’attenzione all’ambiente, alla qualità del territorio, alla necessità di uno sviluppo urbanistico meno speculativo.
Quali sono gli argomenti nascosti da trattare affinché la cittadinanza prenda coscienza dell’importanza delle prossime elezioni amministrative per il futuro di Verona ed assuma delle posizioni libere da condizionamenti e responsabili? 
La mancanza di un progetto di crescita del terziario innovativo, la progressiva emarginazione delle fasce più deboli della società e dei giovani, la mancanza di una politica sociale per la casa, la crisi della finanza scaligera, la povertà dell’offerta culturale di Verona.

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Mafia e Trasparenza: temi trattati alla Festa PD di Verona

Il Partito Democratico di Verona ha organizzato la Festa Democratica che si terrà dal 19 al 23 aprile 2012 presso l’Arsenale. Vi sono numerosi eventi interessanti e tra questi due incontri rilevanti se rapportati alle condizioni economiche e sociali del paese.
Gli incontri che si propongono sono i seguenti:
- Verona sicura: mafia, illegalità, riciclaggio sono un problema anche nostro?
Sabato 21 aprile alle ore 18,00
Intervengono:
- Pier Paolo Romani, Coordinatore Nazionale di Avviso Pubblico
- Lorenzo Diana, Presidente Nazionale Rete per la Legalità
- Roberto Fasoli, Consigliere Regionale PD
- Trasparenza e partecipazione
Domenica 22 aprile alle ore 18,00
Intervengono:
- Sen. Felice Casson
- On. Giampaolo Fogliardi
In quest’ultimo periodo troppi parlano di lotta alla corruzione, criminalità e di trasparenza ma niente di concreto ancora è stato fatto. Non vorrei che il parlare soddisfi a pieno la classe politica e che, quindi, il cambiamento proposto e voluto dal Partito Democratico non sia sostenuto dalla maggioranza parlamentare che sostiene il Governo Monti.
Si indicano alcuni dati eloquenti per capire la gravità di tali fenomeni: - Evasione fiscale, 270 miliardi l’imponibile evaso ogni anno, 120 miliardi il mancato introito annuale per lo Stato; Economia criminale, 100-135 miliardi il fatturato delle mafie pari al 10% del Pil nazionale, 45 miliardi il fatturato della ’ndrangheta di cui 27 miliardi da traffico di cocaina, 9 miliardi il business delle estorsioni, 20 miliardi il business dell’usura; Corruzione, 60-70 miliardi il volume d’affari delle tangenti, 35.000 annui la tassa tangente e debito per ogni cittadino, 600 milioni il valore delle truffe nella sanità nel 2010; Lavoro nero, 154 miliardi la ricchezza prodotta dal lavoro sommerso pari al 7% del Pil, 52,5 miliardi di mancate entrate per lo Stato in un anno.
Questi dati fanno rabbrividire se rapportati ai problemi del paese ed all’assenza di risorse statali da investire nella crescita del paese.
Per combattere tali fenomeni tra l’altro occorre più trasparenza e non aiuta certo la dichiarazione del garante della privacy che rileva gli “strappi allo Stato di diritto nella lotta all’evasione. Occorre tenere presente che il paese vive condizioni di emergenza che vanno affrontate con più trasparenza e meno privacy. Inoltre, la trasparenza delle istituzioni e dei partiti pone le condizioni per recuperare il rapporto con i cittadini, per prevenire la corruzione e contrastare le infiltrazioni mafiose nel territorio nazionale, nessuna regione esclusa.
“I dati sull’infiltrazione mafiosa in Veneto sono preoccupanti, dichiara Roberto Fasoli. Il Veneto è la decima regione per beni confiscati ( 81 immobili e 4 aziende), la nona regione per numero di denunce di estorsione, la seconda per numero di denunce per usura con 26 casi, dopo la Campania con 37 e prima della Sicilia con 24, la sesta per operazioni finanziarie sospette con 698 casi, la quinta per quantitativo di eroina e cocaina confiscate, al decimo posto per i casi di corruzione e sempre al decimo per quelli di concussione”.
“Ciò non vuol dire, continua Fasoli, che il Veneto sia terra di mafia, ma è certamente una regione che interessa molto alla mafia e alla criminalità organizzata e per come si sta evolvendo il fenomeno mafioso se non si mettono in atto subito forti contromisure si rischia di far diventare la nostra regione un territorio sempre più interessato dai fenomeni mafiosi che al Nord assumono caratteristiche peculiari ma non per questo meno pericolosi di quelli che abitualmente ci siamo trovati di fronte”.
“Per queste ragioni il Gruppo regionale del Partito Democratico Veneto, conclude Roberto Fasoli, si è fatto promotore di un progetto di legge da costruire con il concorso di tutti i gruppi, finalizzato a prevenire e contrastare il crimine organizzato e mafioso e promuovere la cultura della legalità e della responsabilità”.
Si è costituito un gruppo di lavoro che ha già prodotto un primo canovaccio e nei prossimi mesi sarà possibile arrivare al progetto vero e proprio da presentare alla discussione in Consiglio.
Il dibattito nel corso della festa sarà l’occasione per approfondire questi temi.

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