Se otto su dieci ritrovano un posto
Caro Direttore,
Monti e Fornero hanno dalla loro un argomento fortissimo: il progetto di riforma che il governo sta per presentare in Parlamento allinea il nostro diritto del lavoro a quello degli altri Paesi europei. Ma a questo argomento gli italiani che difendono l'articolo 18 ne contrappongono uno altrettanto forte: l'Italia non è come gli altri Paesi europei, perché da noi il lavoro manca; chi lo perde ha una enorme difficoltà a ritrovarlo.
Ora, la difficoltà a ritrovarlo - e ancor più a trovarlo per la prima volta -, in Italia, è indiscutibile; e ne vedremo i motivi specifici nella prossima puntata. Ma di lavoro da noi ce n'è molto più di quanto si pensi, anche in questo periodo di vacche magre (e potrebbe essercene ancor di più se fossimo capaci di abbattere il diaframma che separa domanda e offerta di manodopera: sarà questo il tema della terza puntata).
La prima tabella mostra il numero dei contratti di lavoro dipendente che sono stati stipulati nel corso del 2010 in ciascuna delle nove Regioni che sono in grado di fornire questo dato. Un numero sorprendentemente alto: nell'occhio del ciclone della crisi più grave dell'ultimo secolo, queste Regioni hanno fatto registrare in un anno circa quattro milioni di contratti di lavoro.
Vero è che, se si disaggregano questi dati, ne risulta solo un milione circa di contratti a tempo indeterminato. Ma anche solo un milione è un bel numero, se si considera che le persone rimaste nello stesso periodo senza il posto per crisi occupazionali aziendali si misurano con uno o due zeri di meno. Per esempio: in Veneto, tra l'ottobre 2010 e il settembre 2011, gli assunti a tempo indeterminato sono stati 145.600. Nel corso del 2011, coloro che hanno perso il posto per licenziamenti collettivi sono stati 11.807; e per licenziamenti individuali (quasi tutti in imprese sotto i 16 dipendenti) 22.671. Dunque: nella stessa regione, pur in un periodo di grave crisi, per ogni licenziato sono stati stipulati quattro contratti a tempo indeterminato.
Ancora nel Veneto - la regione che fornisce i dati più aggiornati, completi e analitici - risulta che negli ultimi anni quattro persone su dieci che hanno perso il posto lo hanno ritrovato in tre mesi, otto su dieci lo hanno ritrovato entro un anno. È all'incirca la stessa cosa che emerge, da una ricerca della Banca d'Italia su dati Inps per il periodo 1998-2005, in riferimento all'intero territorio nazionale: anche da quei dati, sorprendentemente, risulta che otto italiani su dieci ritrovavano il lavoro entro un anno da quando lo avevano perso. La differenza, fra prima e dopo lo scoppio della grande crisi, è che appare molto peggiorato il rapporto tra assunzioni a tempo indeterminato e a termine, o comunque con contratti precari.
Se le cose stanno così, come si giustifica il fatto che diamo normalmente per scontata la prospettiva di anni e anni di cassa integrazione per chi perde il posto? Per esempio: in quello stesso Veneto nel quale sono stati stipulati 145.000 contratti a tempo indeterminato nel corso dell'ultimo anno, ci sono due aziende - la Iar Siltel di Bassano del Grappa e la Finmek di Padova - dove poche centinaia di lavoratori sono in cassa integrazione da sette anni. Non è forse questo il segno di un modo profondamente sbagliato di affrontare il problema della perdita del posto di lavoro nel nostro Paese?
Sento già l'obiezione: questi sono dati riguardanti il Centro-Nord, ma nel Mezzogiorno le cose vanno in modo molto diverso. È vero; ma al Sud le cose vanno in modo meno diverso di quanto si pensi. La seconda tabella ci fornisce il dato complessivo dei rapporti di lavoro attivati al Nord, al Centro e al Sud.
Anche al Sud, dunque, le occasioni di lavoro ci sono. Certo, ne occorrono di più, perché anche così il tasso complessivo di occupazione in Italia è troppo basso; perché se aumenta la domanda aumentano le retribuzioni e la forza contrattuale dei lavoratori; ma già oggi i nuovi contratti si contano a milioni ogni anno. La ricerca del posto dovrebbe apparirci come un succedersi di gare di dieci concorrenti per nove posti; perché invece abbiamo questa percezione del nostro mercato del lavoro - e soprattutto di quello meridionale - come di un grande «buco nero», di una trappola infernale dalla quale tenersi il più possibile alla larga? Come si spiega che, con tutti questi contratti di lavoro stipulati ogni anno, sia effettivamente così difficile per i disoccupati trovare un posto nel tessuto produttivo italiano?
Cercheremo di rispondere a questa domanda nella prossima puntata, mettendo a fuoco il muro - più alto e più spesso rispetto ai Paesi del Centro e Nord Europa - che da noi separa la domanda dall'offerta di lavoro. Qui c'è ancora spazio per un'osservazione: dalla riforma costituzionale del 2001, le nostre Regioni hanno una competenza legislativa e amministrativa piena in materia di servizi al mercato del lavoro e tutte ovviamente spendono risorse rilevanti per questo capitolo di bilancio; ma, dal Lazio in giù, nessuna delle nostre Regioni è in grado di fornire neppure il numero dei contratti di lavoro stipulati sul proprio territorio. Per non dire di tutti gli altri dati disaggregati che sarebbero indispensabili per governare efficacemente l'incontro fra domanda e offerta. Se esse stesse non conoscono nulla del proprio mercato del lavoro, come possono farlo conoscere ai lavoratori che ne avrebbero bisogno? (1 continua)
Occupazione: i giacimenti facili da sfruttare Il problema del lavoro nel nostro Paese non è soltanto quello dell'inconoscibilità dei milioni di occasioni che il mercato offre ogni anno, in ogni parte della Penisola (di cui abbiamo parlato ieri), ma anche quello della nostra incapacità di mettere a frutto alcuni enormi giacimenti di occupazione, che lasciamo quasi del tutto inutilizzati.
Eppure sarebbero facilmente a portata di mano e, come mi propongo di mostrare, il loro sfruttamento richiederebbe investimenti che sono certamente alla nostra portata.
Il primo giacimento a cui mi riferisco è costituito dagli skill shortages, cioè dai posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di manodopera dotata della qualificazione necessaria per occuparli.
Il grafico qui accanto mostra quanto emerge dall'ultimo censimento svolto da Unioncamere, nel 2011: ne risultano 117.000 posizioni di lavoro disponibili, sparse in tutte le regioni italiane, distribuite in tutti i settori e tra tutti i livelli professionali. Gli studiosi di economia e di sociologia del lavoro avvertono, peraltro, che gli skill shortages effettivi sono molti di più: almeno mezzo milione. Così come per ogni disoccupato che cerca lavoro si stima che ci siano almeno tre «lavoratori scoraggiati», potenzialmente interessati a trovare un lavoro ma che non ci si provano neppure, allo stesso modo ci sono gli «imprenditori scoraggiati»: cioè quelli che avrebbero bisogno di personale qualificato, ma considerano talmente improbabile trovarlo che non fanno neppure l'inserzione sul giornale o la richiesta all'agenzia di collocamento.
Per mettere questo giacimento di occupazione a disposizione dei nostri disoccupati, o dei lavoratori che cercano un nuovo lavoro, basterebbe che un servizio specializzato facesse per ognuno di essi il bilancio delle competenze, individuasse i due o tre skill shortages più vicini professionalmente e geograficamente e delineasse i percorsi di riqualificazione professionale necessari per accedere a ciascuno dei due o tre posti individuati (preferibilmente in collaborazione con l'impresa interessata, utilizzando e retribuendo i suoi impianti e il suo personale qualificato). Tra questi il lavoratore interessato dovrebbe scegliere quello che meglio corrisponde alle sue aspirazioni ed esigenze familiari, per poi intraprendere l'itinerario di formazione necessario.
Si obietta che i servizi pubblici per l'impiego non sono in grado di svolgere questo compito. Le agenzie private di outplacement , però, sì. Oggi in Italia sono poco utilizzate, perché non abbiamo ancora maturato la cultura dell'assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca dell'occupazione; ma ci sono anche da noi, e funzionano bene. La tabella qui sopra, per esempio, mostra in quanto tempo sono stati ricollocati tra 2010 e 2011 da una delle maggiori società che svolgono questo servizio in Italia 2.961 impiegati e 1.637 operai, affidati loro da imprese in situazioni di crisi occupazionale.
Certo, i servizi di outplacement costano cari (mediamente, l'equivalente di cinque o sei mensilità dell'ultima retribuzione del lavoratore interessato). Ma sempre meno della cassa integrazione «a perdere»: si potrebbe attivare un buon incentivo per l'azienda che licenzia, affinché essa ingaggi l'agenzia più adatta al compito; e le Regioni farebbero soltanto il loro dovere se riqualificassero drasticamente la propria spesa in questo settore, prevedendo il rimborso di tre quarti o quattro quinti del costo standard di mercato del servizio. Per questo potrebbe e dovrebbe essere utilizzato anche quel 60 per cento dei contributi del Fondo Sociale Europeo che spetterebbero all'Italia, ma che finora non siamo stati capaci di utilizzare per inadeguatezza delle nostre iniziative nel mercato del lavoro rispetto ai requisiti di efficienza ed efficacia giustamente posti dal Fondo stesso.
Oggi il fabbisogno prevedibile di qualifiche professionali scarse si potrebbe conoscere in anticipo per ogni zona e per ogni settore produttivo. Che cosa aspettiamo ad attivarci per porre questo giacimento occupazionale a disposizione dei tanti italiani che hanno difficoltà a trovare un lavoro?
Un altro giacimento da cui potremmo trarre flussi di centinaia di migliaia di nuove assunzioni ogni anno è costituito dagli investimenti stranieri, che l'Italia è stata fin qui drammaticamente incapace di attirare: per questo aspetto, in Europa solo la Grecia ha fatto peggio di noi nell'ultimo ventennio. Se soltanto fossimo stati capaci di allinearci a un Paese mediano nella graduatoria europea, come l'Olanda, nell'ultimo quinquennio prima dello scoppio della crisi (2004-2008) questo avrebbe significato un maggiore afflusso di investimenti nel nostro Paese pari a 57,6 miliardi all'anno (vedi tabella sopra). E negli ultimi quattro anni di crisi economica il nostro ritardo su questo terreno è ulteriormente peggiorato rispetto agli altri Paesi europei.
Quando si discute di questa gravissima chiusura dell'Italia, gli «addetti ai lavori» tendono sempre a sottolineare che la nostra scarsa attrattività per gli investitori stranieri è dovuta ai difetti delle nostre amministrazioni pubbliche (soprattutto di quella della Giustizia) e delle nostre infrastrutture di trasporto e di comunicazione, al costo dell'energia e dei servizi alle imprese più alto da noi che oltr'Alpe. Ma nel documento che il Comitato Investitori Esteri presieduto da Giuseppe Recchi ha presentato al governo nel dicembre scorso viene indicato, tra i primi, un altro ostacolo: la nostra legislazione del lavoro ipertrofica, bizantina, non traducibile in inglese, e nettamente disallineata rispetto a quelle dei maggiori Paesi europei su di un punto di importanza cruciale: la prevedibilità del severance cost , cioè del costo del licenziamento per motivi economico-organizzativi, quando l'aggiustamento degli organici si rende necessario. Questo è il motivo, molto serio, per cui il governo punta a una riforma della materia che, come in tutti gli altri ordinamenti europei - Germania compresa -, consenta la predeterminazione del costo del licenziamento per motivi economici. (2 – continua)
Come aprire il mondo chiuso del lavoro Se in Italia si stipulano ogni anno milioni di contratti di lavoro, e potremmo avere occasioni di occupazione ancora più numerose sfruttando meglio i “giacimenti” oggi inutilizzati (come abbiamo visto nelle due puntate precedenti di questa inchiesta), perché gli italiani hanno tanta paura di questo mercato del lavoro e cercano di tenersene alla larga più di quanto accada nella maggior parte degli altri Paesi industrializzati? E perché la disoccupazione resta così alta e, mediamente, di così lunga durata?
Una risposta alla prima domanda è che quattro quinti degli occupati hanno un contratto a tempo indeterminato, mentre per i nuovi contratti che si stipulano il rapporto si inverte: quattro quinti, o giù di lì, sono a termine. Gli occupati dunque temono, passando da un’azienda a un’altra, di peggiorare la propria condizione di sicurezza. Per aumentare la mobilità dei lavoratori occorre far sì che il contratto a tempo indeterminato torni a essere la forma normale di assunzione. E per questo è indispensabile rendere l’assunzione a tempo indeterminato più appetibile per le imprese, allentando almeno un poco i vincoli oggi fortissimi allo scioglimento del rapporto per motivi economici od organizzativi.
Una risposta alla seconda domanda è data dalla figura 1 (riferita al 2008; ma il quadro complessivo, per questo aspetto, non è cambiato – sarà on line appena possibile). Qui i principali Paesi occidentali industrializzati si dispongono su di una diagonale, che mostra la correlazione esistente tra facilità di uscita e facilità di entrata nel tessuto produttivo. In altre parole: dove è più facile passare dallo stato di occupato a quello di disoccupato, è anche più facile compiere il passaggio inverso. Così, per esempio, vediamo in alto a destra gli Usa, dove più di tre occupati e mezzo su cento ogni mese sperimentano la disoccupazione (un dato impressionante: vuol dire che questo accade a 40 occupati su cento ogni anno!), ma dove dalla disoccupazione si esce con grande facilità: ogni mese sei disoccupati su dieci trovano una occupazione. Questo spiega perché la durata media dei periodi di disoccupazione negli Usa sia relativamente breve, a confronto con il resto del mondo.
All’estremo opposto troviamo l’Italia. Qui ogni mese meno di 0,5 lavoratori attivi su cento sperimentano il passaggio alla disoccupazione, ma per converso nello stesso mese meno di 5 disoccupati su cento trovano lavoro. Ne risulta l’immagine di un Paese nel quale il tessuto produttivo è come una cittadella fortificata, da cui chi è dentro difficilmente esce, ma in cui chi è fuori difficilmente riesce a entrare.
Molto vicina all’Italia, in questa diagonale, troviamo la Germania: essa infatti è ben conosciuta come il Paese con il mercato del lavoro più rigido dopo quello italiano (con la differenza, però, di un’economia complessivamente molto più forte e capace di autofinanziarsi). Proseguendo lungo la diagonale verso l’alto, in una zona intermedia troviamo i Paesi scandinavi: quelli dove più che in qualsiasi altra regione del mondo si sperimenta la coniugazione di una buona flessibilità delle strutture produttive con una forte sicurezza economica e professionale del lavoratore. Qui ogni mese fra i 30 e i 40 disoccupati ogni 100 ritrovano l’occupazione; e se si considera che in quei Paesi il sistema garantisce loro un robusto e universale sostegno del reddito nei periodi (mediamente brevi) di disoccupazione, si comprende perché essi accettino un regime di relativa facilità del licenziamento per motivi economici od organizzativi.
Quello che il governo Monti si propone è di incominciare a spostare il nostro Paese lungo questa diagonale, in direzione del modello nord-europeo. Questo spostamento è necessario innanzitutto per evitare che la disoccupazione in Italia assuma il carattere di una terribile piaga sociale, costituendo – come accade oggi una forma di esclusione permanente dal tessuto produttivo. Ma è necessario anche per evitare che l’abnorme difficoltà di ingresso nel tessuto produttivo ritardi in modo patologico l’emancipazione economica dei giovani dalla famiglia di origine e scoraggi milioni di italiani adulti – soprattutto donne – dall’attivarsi per trovare un lavoro retribuito. Per farsi un’idea del problema, basti considerare che, se le cose nel nostro mercato del lavoro funzionassero come in Gran Bretagna Paese simile al nostro per dimensioni e per ricchezza , avremmo circa cinque milioni di italiani in più occupati, di cui quattro quinti donne.
Per la realizzazione di questo progetto, che risponde anche a quanto ci propone l’Unione Europea (molto preoccupata per il livello davvero troppo basso dei nostri tassi di occupazione generale, femminile e giovanile: v. il la tabella qui sotto), non bastano la riforma dei licenziamenti e l’istituzione dell’assicurazione universale contro la disoccupazione, contenute nel progetto Fornero. Occorre anche un servizio efficiente e capillare di orientamento scolastico e professionale capace di raggiungere ogni adolescente all’uscita di qualsiasi ciclo scolastico, per fornirgli le informazioni indispensabili per orientare le proprie scelte, che oggi mancano drammaticamente ai nostri ragazzi. Occorre promuovere la domanda e l’offerta di lavoro femminile con gli incentivi fiscali e i servizi alle famiglie. Ma occorre, soprattutto, un mutamento della concezione del posto di lavoro nella nostra cultura dominante.
Oggi, in Italia, predomina una concezione “proprietaria”, per la quale il posto si può perdere soltanto a seguito di una colpa molto grave, oppure del fallimento dell’impresa. Finché questa sarà la concezione dominante, e a questa corrisponderà la struttura giuridica del rapporto di lavoro e l’orientamento dei giudici, sarà sempre difficile, nel nostro Paese, conquistarsi un lavoro non precario. Anche perché molte delle nostre imprese tenderanno a limitare al minimo indispensabile i “condomini” in casa propria, e le imprese straniere preferiranno investire altrove.
Finché non compiremo questo passaggio, i grandi giacimenti di occupazione aggiuntivi, di cui abbiamo parlato sul Corriere di ieri, rimarranno scarsamente utilizzati.
Ancora nel Veneto - la regione che fornisce i dati più aggiornati, completi e analitici - risulta che negli ultimi anni quattro persone su dieci che hanno perso il posto lo hanno ritrovato in tre mesi, otto su dieci lo hanno ritrovato entro un anno. È all'incirca la stessa cosa che emerge, da una ricerca della Banca d'Italia su dati Inps per il periodo 1998-2005, in riferimento all'intero territorio nazionale: anche da quei dati, sorprendentemente, risulta che otto italiani su dieci ritrovavano il lavoro entro un anno da quando lo avevano perso. La differenza, fra prima e dopo lo scoppio della grande crisi, è che appare molto peggiorato il rapporto tra assunzioni a tempo indeterminato e a termine, o comunque con contratti precari.
Se le cose stanno così, come si giustifica il fatto che diamo normalmente per scontata la prospettiva di anni e anni di cassa integrazione per chi perde il posto? Per esempio: in quello stesso Veneto nel quale sono stati stipulati 145.000 contratti a tempo indeterminato nel corso dell'ultimo anno, ci sono due aziende - la Iar Siltel di Bassano del Grappa e la Finmek di Padova - dove poche centinaia di lavoratori sono in cassa integrazione da sette anni. Non è forse questo il segno di un modo profondamente sbagliato di affrontare il problema della perdita del posto di lavoro nel nostro Paese?
Sento già l'obiezione: questi sono dati riguardanti il Centro-Nord, ma nel Mezzogiorno le cose vanno in modo molto diverso. È vero; ma al Sud le cose vanno in modo meno diverso di quanto si pensi. La seconda tabella ci fornisce il dato complessivo dei rapporti di lavoro attivati al Nord, al Centro e al Sud.
Anche al Sud, dunque, le occasioni di lavoro ci sono. Certo, ne occorrono di più, perché anche così il tasso complessivo di occupazione in Italia è troppo basso; perché se aumenta la domanda aumentano le retribuzioni e la forza contrattuale dei lavoratori; ma già oggi i nuovi contratti si contano a milioni ogni anno. La ricerca del posto dovrebbe apparirci come un succedersi di gare di dieci concorrenti per nove posti; perché invece abbiamo questa percezione del nostro mercato del lavoro - e soprattutto di quello meridionale - come di un grande «buco nero», di una trappola infernale dalla quale tenersi il più possibile alla larga? Come si spiega che, con tutti questi contratti di lavoro stipulati ogni anno, sia effettivamente così difficile per i disoccupati trovare un posto nel tessuto produttivo italiano?
Cercheremo di rispondere a questa domanda nella prossima puntata, mettendo a fuoco il muro - più alto e più spesso rispetto ai Paesi del Centro e Nord Europa - che da noi separa la domanda dall'offerta di lavoro. Qui c'è ancora spazio per un'osservazione: dalla riforma costituzionale del 2001, le nostre Regioni hanno una competenza legislativa e amministrativa piena in materia di servizi al mercato del lavoro e tutte ovviamente spendono risorse rilevanti per questo capitolo di bilancio; ma, dal Lazio in giù, nessuna delle nostre Regioni è in grado di fornire neppure il numero dei contratti di lavoro stipulati sul proprio territorio. Per non dire di tutti gli altri dati disaggregati che sarebbero indispensabili per governare efficacemente l'incontro fra domanda e offerta. Se esse stesse non conoscono nulla del proprio mercato del lavoro, come possono farlo conoscere ai lavoratori che ne avrebbero bisogno? (1 continua)
Occupazione: i giacimenti facili da sfruttare Il problema del lavoro nel nostro Paese non è soltanto quello dell'inconoscibilità dei milioni di occasioni che il mercato offre ogni anno, in ogni parte della Penisola (di cui abbiamo parlato ieri), ma anche quello della nostra incapacità di mettere a frutto alcuni enormi giacimenti di occupazione, che lasciamo quasi del tutto inutilizzati.
Eppure sarebbero facilmente a portata di mano e, come mi propongo di mostrare, il loro sfruttamento richiederebbe investimenti che sono certamente alla nostra portata.
Il primo giacimento a cui mi riferisco è costituito dagli skill shortages, cioè dai posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di manodopera dotata della qualificazione necessaria per occuparli.
Il grafico qui accanto mostra quanto emerge dall'ultimo censimento svolto da Unioncamere, nel 2011: ne risultano 117.000 posizioni di lavoro disponibili, sparse in tutte le regioni italiane, distribuite in tutti i settori e tra tutti i livelli professionali. Gli studiosi di economia e di sociologia del lavoro avvertono, peraltro, che gli skill shortages effettivi sono molti di più: almeno mezzo milione. Così come per ogni disoccupato che cerca lavoro si stima che ci siano almeno tre «lavoratori scoraggiati», potenzialmente interessati a trovare un lavoro ma che non ci si provano neppure, allo stesso modo ci sono gli «imprenditori scoraggiati»: cioè quelli che avrebbero bisogno di personale qualificato, ma considerano talmente improbabile trovarlo che non fanno neppure l'inserzione sul giornale o la richiesta all'agenzia di collocamento.
Per mettere questo giacimento di occupazione a disposizione dei nostri disoccupati, o dei lavoratori che cercano un nuovo lavoro, basterebbe che un servizio specializzato facesse per ognuno di essi il bilancio delle competenze, individuasse i due o tre skill shortages più vicini professionalmente e geograficamente e delineasse i percorsi di riqualificazione professionale necessari per accedere a ciascuno dei due o tre posti individuati (preferibilmente in collaborazione con l'impresa interessata, utilizzando e retribuendo i suoi impianti e il suo personale qualificato). Tra questi il lavoratore interessato dovrebbe scegliere quello che meglio corrisponde alle sue aspirazioni ed esigenze familiari, per poi intraprendere l'itinerario di formazione necessario.
Si obietta che i servizi pubblici per l'impiego non sono in grado di svolgere questo compito. Le agenzie private di outplacement , però, sì. Oggi in Italia sono poco utilizzate, perché non abbiamo ancora maturato la cultura dell'assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca dell'occupazione; ma ci sono anche da noi, e funzionano bene. La tabella qui sopra, per esempio, mostra in quanto tempo sono stati ricollocati tra 2010 e 2011 da una delle maggiori società che svolgono questo servizio in Italia 2.961 impiegati e 1.637 operai, affidati loro da imprese in situazioni di crisi occupazionale.
Certo, i servizi di outplacement costano cari (mediamente, l'equivalente di cinque o sei mensilità dell'ultima retribuzione del lavoratore interessato). Ma sempre meno della cassa integrazione «a perdere»: si potrebbe attivare un buon incentivo per l'azienda che licenzia, affinché essa ingaggi l'agenzia più adatta al compito; e le Regioni farebbero soltanto il loro dovere se riqualificassero drasticamente la propria spesa in questo settore, prevedendo il rimborso di tre quarti o quattro quinti del costo standard di mercato del servizio. Per questo potrebbe e dovrebbe essere utilizzato anche quel 60 per cento dei contributi del Fondo Sociale Europeo che spetterebbero all'Italia, ma che finora non siamo stati capaci di utilizzare per inadeguatezza delle nostre iniziative nel mercato del lavoro rispetto ai requisiti di efficienza ed efficacia giustamente posti dal Fondo stesso.
Oggi il fabbisogno prevedibile di qualifiche professionali scarse si potrebbe conoscere in anticipo per ogni zona e per ogni settore produttivo. Che cosa aspettiamo ad attivarci per porre questo giacimento occupazionale a disposizione dei tanti italiani che hanno difficoltà a trovare un lavoro?
Un altro giacimento da cui potremmo trarre flussi di centinaia di migliaia di nuove assunzioni ogni anno è costituito dagli investimenti stranieri, che l'Italia è stata fin qui drammaticamente incapace di attirare: per questo aspetto, in Europa solo la Grecia ha fatto peggio di noi nell'ultimo ventennio. Se soltanto fossimo stati capaci di allinearci a un Paese mediano nella graduatoria europea, come l'Olanda, nell'ultimo quinquennio prima dello scoppio della crisi (2004-2008) questo avrebbe significato un maggiore afflusso di investimenti nel nostro Paese pari a 57,6 miliardi all'anno (vedi tabella sopra). E negli ultimi quattro anni di crisi economica il nostro ritardo su questo terreno è ulteriormente peggiorato rispetto agli altri Paesi europei.
Quando si discute di questa gravissima chiusura dell'Italia, gli «addetti ai lavori» tendono sempre a sottolineare che la nostra scarsa attrattività per gli investitori stranieri è dovuta ai difetti delle nostre amministrazioni pubbliche (soprattutto di quella della Giustizia) e delle nostre infrastrutture di trasporto e di comunicazione, al costo dell'energia e dei servizi alle imprese più alto da noi che oltr'Alpe. Ma nel documento che il Comitato Investitori Esteri presieduto da Giuseppe Recchi ha presentato al governo nel dicembre scorso viene indicato, tra i primi, un altro ostacolo: la nostra legislazione del lavoro ipertrofica, bizantina, non traducibile in inglese, e nettamente disallineata rispetto a quelle dei maggiori Paesi europei su di un punto di importanza cruciale: la prevedibilità del severance cost , cioè del costo del licenziamento per motivi economico-organizzativi, quando l'aggiustamento degli organici si rende necessario. Questo è il motivo, molto serio, per cui il governo punta a una riforma della materia che, come in tutti gli altri ordinamenti europei - Germania compresa -, consenta la predeterminazione del costo del licenziamento per motivi economici. (2 – continua)
Come aprire il mondo chiuso del lavoro Se in Italia si stipulano ogni anno milioni di contratti di lavoro, e potremmo avere occasioni di occupazione ancora più numerose sfruttando meglio i “giacimenti” oggi inutilizzati (come abbiamo visto nelle due puntate precedenti di questa inchiesta), perché gli italiani hanno tanta paura di questo mercato del lavoro e cercano di tenersene alla larga più di quanto accada nella maggior parte degli altri Paesi industrializzati? E perché la disoccupazione resta così alta e, mediamente, di così lunga durata?
Una risposta alla prima domanda è che quattro quinti degli occupati hanno un contratto a tempo indeterminato, mentre per i nuovi contratti che si stipulano il rapporto si inverte: quattro quinti, o giù di lì, sono a termine. Gli occupati dunque temono, passando da un’azienda a un’altra, di peggiorare la propria condizione di sicurezza. Per aumentare la mobilità dei lavoratori occorre far sì che il contratto a tempo indeterminato torni a essere la forma normale di assunzione. E per questo è indispensabile rendere l’assunzione a tempo indeterminato più appetibile per le imprese, allentando almeno un poco i vincoli oggi fortissimi allo scioglimento del rapporto per motivi economici od organizzativi.
Una risposta alla seconda domanda è data dalla figura 1 (riferita al 2008; ma il quadro complessivo, per questo aspetto, non è cambiato – sarà on line appena possibile). Qui i principali Paesi occidentali industrializzati si dispongono su di una diagonale, che mostra la correlazione esistente tra facilità di uscita e facilità di entrata nel tessuto produttivo. In altre parole: dove è più facile passare dallo stato di occupato a quello di disoccupato, è anche più facile compiere il passaggio inverso. Così, per esempio, vediamo in alto a destra gli Usa, dove più di tre occupati e mezzo su cento ogni mese sperimentano la disoccupazione (un dato impressionante: vuol dire che questo accade a 40 occupati su cento ogni anno!), ma dove dalla disoccupazione si esce con grande facilità: ogni mese sei disoccupati su dieci trovano una occupazione. Questo spiega perché la durata media dei periodi di disoccupazione negli Usa sia relativamente breve, a confronto con il resto del mondo.
All’estremo opposto troviamo l’Italia. Qui ogni mese meno di 0,5 lavoratori attivi su cento sperimentano il passaggio alla disoccupazione, ma per converso nello stesso mese meno di 5 disoccupati su cento trovano lavoro. Ne risulta l’immagine di un Paese nel quale il tessuto produttivo è come una cittadella fortificata, da cui chi è dentro difficilmente esce, ma in cui chi è fuori difficilmente riesce a entrare.
Molto vicina all’Italia, in questa diagonale, troviamo la Germania: essa infatti è ben conosciuta come il Paese con il mercato del lavoro più rigido dopo quello italiano (con la differenza, però, di un’economia complessivamente molto più forte e capace di autofinanziarsi). Proseguendo lungo la diagonale verso l’alto, in una zona intermedia troviamo i Paesi scandinavi: quelli dove più che in qualsiasi altra regione del mondo si sperimenta la coniugazione di una buona flessibilità delle strutture produttive con una forte sicurezza economica e professionale del lavoratore. Qui ogni mese fra i 30 e i 40 disoccupati ogni 100 ritrovano l’occupazione; e se si considera che in quei Paesi il sistema garantisce loro un robusto e universale sostegno del reddito nei periodi (mediamente brevi) di disoccupazione, si comprende perché essi accettino un regime di relativa facilità del licenziamento per motivi economici od organizzativi.
Quello che il governo Monti si propone è di incominciare a spostare il nostro Paese lungo questa diagonale, in direzione del modello nord-europeo. Questo spostamento è necessario innanzitutto per evitare che la disoccupazione in Italia assuma il carattere di una terribile piaga sociale, costituendo – come accade oggi una forma di esclusione permanente dal tessuto produttivo. Ma è necessario anche per evitare che l’abnorme difficoltà di ingresso nel tessuto produttivo ritardi in modo patologico l’emancipazione economica dei giovani dalla famiglia di origine e scoraggi milioni di italiani adulti – soprattutto donne – dall’attivarsi per trovare un lavoro retribuito. Per farsi un’idea del problema, basti considerare che, se le cose nel nostro mercato del lavoro funzionassero come in Gran Bretagna Paese simile al nostro per dimensioni e per ricchezza , avremmo circa cinque milioni di italiani in più occupati, di cui quattro quinti donne.
Per la realizzazione di questo progetto, che risponde anche a quanto ci propone l’Unione Europea (molto preoccupata per il livello davvero troppo basso dei nostri tassi di occupazione generale, femminile e giovanile: v. il la tabella qui sotto), non bastano la riforma dei licenziamenti e l’istituzione dell’assicurazione universale contro la disoccupazione, contenute nel progetto Fornero. Occorre anche un servizio efficiente e capillare di orientamento scolastico e professionale capace di raggiungere ogni adolescente all’uscita di qualsiasi ciclo scolastico, per fornirgli le informazioni indispensabili per orientare le proprie scelte, che oggi mancano drammaticamente ai nostri ragazzi. Occorre promuovere la domanda e l’offerta di lavoro femminile con gli incentivi fiscali e i servizi alle famiglie. Ma occorre, soprattutto, un mutamento della concezione del posto di lavoro nella nostra cultura dominante.
Oggi, in Italia, predomina una concezione “proprietaria”, per la quale il posto si può perdere soltanto a seguito di una colpa molto grave, oppure del fallimento dell’impresa. Finché questa sarà la concezione dominante, e a questa corrisponderà la struttura giuridica del rapporto di lavoro e l’orientamento dei giudici, sarà sempre difficile, nel nostro Paese, conquistarsi un lavoro non precario. Anche perché molte delle nostre imprese tenderanno a limitare al minimo indispensabile i “condomini” in casa propria, e le imprese straniere preferiranno investire altrove.
Finché non compiremo questo passaggio, i grandi giacimenti di occupazione aggiuntivi, di cui abbiamo parlato sul Corriere di ieri, rimarranno scarsamente utilizzati.
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