L’accordo sulla riforma del mercato del lavoro è stato, io credo, il capolavoro della strategia negoziale di Mario Monti. Come accade nelle migliori trattative sindacali, in questo caso Monti ha sparato altissimo con la prima bozza e poi ha chiuso al punto dove, secondo me, pensava di chiudere sin dal principio. Con una riforma del lavoro che nessuno aveva mai sognato di poter nemmeno nominare, né da destra né da sinistra. Alla fine ci troviamo con una riforma certamente non perfetta che però qualcuno doveva fare e che in qualche modo è fatta.
Continuo a pensare tuttavia che le proposte di Pietro Ichino sarebbero state più tutelanti sia per i lavoratori stabili (la flexsecurity ichiniana si sarebbe applicata solo ai nuovi ingressi), sia per i neoassunti (che avrebbero trovato protezioni molto più efficaci contro il precariato con un contratto unico). È stata una superba idiozia quella di aver tacciato per anni Ichino e chi la pensava come lui di essere “di destra”, senza capire che la destra vera è quella – l’abbiamo vista in questi giorni all’opera – che vuole continuare ad avere forme di precariato che consentano alle imprese di usare il lavoro come carne da cannone.
Viene dunque oggi da chiedersi se sia stato “di sinistra”, non avendo autonomamente messo mano alla riforma, essersi resi complici di quella stessa destra, o se non fosse invece “di sinistra” il tentativo di Ichino, Boeri, Garibaldi & c., che hanno cercato di trovare modalità che realisticamente e concretamente si materializzassero in diritti e dignità per chi lavora. E io credo che qui si sia visto anche un limite pesante delle nostre ali politiche, che sono state costrette a giocare un ruolo talmente previsto dal copione da essere ormai ai limiti dello stereotipo. Noi del Pd abbiamo sostanzialmente abbracciato la causa dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato e il Pdl quella degli industriali.
Così facendo abbiamo tenuto in vita la classica contrapposizione tra capitale e lavoro e abbiamo perso due formidabili occasioni. Il Pd, accettando di aumentare le flessibilità in entrata per diminuire un minimo quella in uscita, ha perso la chance di farsi portabandiera dei diritti dei giovani, che invece sono stati alla fine considerati merce di scambio al fine di ottenere maggiori garanzie per i lavoratori già sotto contratto a tempo indeterminato.
Il Pdl, invece, fiancheggiando quella parte di imprese che tifa per la totale deregulation all’ingresso, ha perso l’opportunità storica di farsi portatore di una nuova cultura imprenditoriale: quella che considera il capitale umano aziendale non come un limone da spremere ma come la più strategica delle risorse. Se, insomma, Sel, Idv e Lega che in questo processo di riforme hanno rappresentato in modo puro e semplice le istanze del ‘900 (immagino Di Pietro stia già organizzando un viaggio di partito a Berlino con mattoni, cazzuola e calcestruzzo), anche i partiti che hanno contribuito alla trattativa hanno dimostrato in modo plastico che il mondo nuovo non ha una gran rappresentanza, almeno non dalle forze politiche come le conosciamo oggi.
La rappresentazione del lavoro che abbiamo avuto in questi giorni, anche dalle televisioni e dai giornali, è stata sostanzialmente corrispondente con quella del lavoro metalmeccanico in fabbrica: abbiamo visto cantieri navali, fabbriche automobilistiche, impianti di produzione di beni di consumo. Di lavoro intellettuale free-lance nessuno ha parlato, nessuno ha parlato del praticantato negli studi professionali o del precariato nei call center, nessuno ha parlato della nostra emigrazione intellettuale. Nessuno ha parlato di nuove forme imprenditoriali in rete, nessuno ha mai parlato di tecnologia. Si sono visti un sacco di bulloni ma pochissimi chip sia dalle parti di Santoro che da quelle di Formigli.
L’intera rappresentazione del mondo del lavoro per com’è e per come sarà più avanti è completamente mancata. In questo senso la bistrattatissima Fornero, che invece andrebbe applaudita per aver compiuto un tipico caso di mission impossible, mi è sembrata preoccupata di disegnare un quadro che resistesse al passaggio del tempo molto più di altri, più chiaramente concentrati sull’“ora e subito”. Nell’agenda del 2013 resta dunque un problema strutturale della politica italiana: quello di essere uno strumento di gestione di una società che cambia molto più velocemente di quanto probabilmente non si veda da Montecitorio e che è destinata a cambiare ancor più velocemente in futuro.
Così facendo abbiamo tenuto in vita la classica contrapposizione tra capitale e lavoro e abbiamo perso due formidabili occasioni. Il Pd, accettando di aumentare le flessibilità in entrata per diminuire un minimo quella in uscita, ha perso la chance di farsi portabandiera dei diritti dei giovani, che invece sono stati alla fine considerati merce di scambio al fine di ottenere maggiori garanzie per i lavoratori già sotto contratto a tempo indeterminato.
Il Pdl, invece, fiancheggiando quella parte di imprese che tifa per la totale deregulation all’ingresso, ha perso l’opportunità storica di farsi portatore di una nuova cultura imprenditoriale: quella che considera il capitale umano aziendale non come un limone da spremere ma come la più strategica delle risorse. Se, insomma, Sel, Idv e Lega che in questo processo di riforme hanno rappresentato in modo puro e semplice le istanze del ‘900 (immagino Di Pietro stia già organizzando un viaggio di partito a Berlino con mattoni, cazzuola e calcestruzzo), anche i partiti che hanno contribuito alla trattativa hanno dimostrato in modo plastico che il mondo nuovo non ha una gran rappresentanza, almeno non dalle forze politiche come le conosciamo oggi.
La rappresentazione del lavoro che abbiamo avuto in questi giorni, anche dalle televisioni e dai giornali, è stata sostanzialmente corrispondente con quella del lavoro metalmeccanico in fabbrica: abbiamo visto cantieri navali, fabbriche automobilistiche, impianti di produzione di beni di consumo. Di lavoro intellettuale free-lance nessuno ha parlato, nessuno ha parlato del praticantato negli studi professionali o del precariato nei call center, nessuno ha parlato della nostra emigrazione intellettuale. Nessuno ha parlato di nuove forme imprenditoriali in rete, nessuno ha mai parlato di tecnologia. Si sono visti un sacco di bulloni ma pochissimi chip sia dalle parti di Santoro che da quelle di Formigli.
L’intera rappresentazione del mondo del lavoro per com’è e per come sarà più avanti è completamente mancata. In questo senso la bistrattatissima Fornero, che invece andrebbe applaudita per aver compiuto un tipico caso di mission impossible, mi è sembrata preoccupata di disegnare un quadro che resistesse al passaggio del tempo molto più di altri, più chiaramente concentrati sull’“ora e subito”. Nell’agenda del 2013 resta dunque un problema strutturale della politica italiana: quello di essere uno strumento di gestione di una società che cambia molto più velocemente di quanto probabilmente non si veda da Montecitorio e che è destinata a cambiare ancor più velocemente in futuro.
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