sabato 28 aprile 2012

Roberto Fasoli, lavoro e sindacato

Intervista a cura di Barbara Bertoncin in corso di pubblicazione su Una Città, aprile 2012 n. 193, www.unacitta.it
Roberto Fasoli, nella Cgil dal 1976, dal 1998 al 2006 è stato Segretario generale della Cgil di Verona. Oggi è Consigliere regionale veneto del Pd.
La chiave perduta
L’errore, grave, di pensare di poter uscire dalla crisi intervenendo solo sul fattore costo del lavoro; l’art. 18 e la riforma, le pensioni, le difficoltà del sindacato e quelle del Pd. La convinzione che non ci sono scorciatoie e che nessun tecnico potrà risolvere problemi che sono eminentemente politici. Intervista a Roberto Fasoli.
Tu sei piuttosto critico su come è stato impostato il dibattito attorno alla crisi e alle possibili vie d’uscita...
All’origine dei problemi in cui oggi ci troviamo non c’è la crisi finanziaria. Capisco di fare un’affermazione che può sembrare azzardata, ma all’origine c’è la crisi del lavoro e della distribuzione della ricchezza, che ha generato la crisi finanziaria, che a sua volta ha creato la crisi economica, che è diventata crisi sociale. In questo senso pensare di affrontare i problemi della crisi finanziaria dal versante della finanza mi fa pensare alla famosa barzelletta dell’ubriaco che cerca la chiave sotto il lampione: alcune persone si fermano ad aiutarlo, ma la chiave non si trova, fino a quando uno, stufo di cercare, gli chiede: “Ma dove l’hai persa?”. E l’ubriaco: “Laggiù in fondo, ma là è buio non si vede niente”. Ecco, io temo che la crisi in cui siamo sia questa: stiamo cercando nel posto sbagliato. Sarò più esplicito: se pensiamo che la soluzione sia la compressione dei diritti e la riduzione del peso del lavoro cerchiamo dalla parte sbagliata.
L’origine del problema sta nel fatto che con il tipo di globalizzazione e di pervasività delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione si è creato un divario a livello mondiale che, se è pur vero che ha elevato pezzi di mondo che prima erano totalmente esclusi dalla vita civile (qualche miliardo di persone che prima morivano letteralmente di fame hanno avuto di che mangiare), nell’Occidente, nel mondo sviluppato, questo ha provocato un ampliarsi di disuguaglianze assolutamente clamorose. Negli ultimi cento anni la ricchezza non è mai stata così polarizzata.
L’ho presa larga, per così dire, ma è fondamentale capire questo, perché se noi pensiamo di rilanciare la competitività con interventi tampone sulle questioni del mercato del lavoro o del costo del lavoro, continuando a illuderci di poter rincorrere le ragioni di scambio ultra favorevoli che esistono in altre parti del mondo, siamo destinati a fallire. Bisogna trovare modi diversi di uscire dalla crisi. Non che queste cose non siano importanti e necessarie, ma se pensiamo di affidare a queste l’uscita dalla crisi, cerchiamo la chiave nel posto sbagliato.
Io penso che per ritrovarla bisogna rimettere al centro il lavoro.
Tu sei molto scettico sull’attuale trattativa, che vede solo nella rigidità del mercato del lavoro le ragioni del mancato sviluppo del nostro paese. Puoi spiegare?

A sentire il dibattito in corso sembra che la crisi di investimenti nel nostro paese sia generata esclusivamente dall’assenza di normative certe sul mercato del lavoro.
Allora, bisogna chiarire intanto che quello è solo uno spicchio della realtà. Tanto più -e questo va detto con chiarezza- che se non c’è ripresa economica, rendere più flessibile il mercato del lavoro non serve a un bel niente, o a molto poco. E qui aggiungo che fino ad ora non vedo provvedimenti che facilitino lo sviluppo: non c’è niente sull’istruzione, sulla formazione, sull’innovazione, sulla ricerca, se non qualche balbettio, bisogna quindi innanzitutto costruire le condizioni per una ripresa dello sviluppo.
Detto questo, le ragioni del mancato sviluppo o del mancato afflusso di capitali stranieri, sono, ahimé, molto più complesse di come vengono raccontate da chi oggi vuol far credere che il problema sia legato -banalizzo- all’art. 18.
Cioè in questo paese la pubblica amministrazione funziona come sappiamo; c’è un sistema di legislazione, anche sul lavoro, lento e farraginoso, c’è un costo dell’energia elevato, c’è un sistema della politica che propriamente trasparente non si può definire, c’è un sistema dei trasporti inadeguato, c’è una diffusione delle reti immateriali che non è all’altezza degli altri paesi sviluppati, c’è un sistema di malavita organizzata che corrode la politica e la società e rende la vita difficile a quegli imprenditori (e sono tanti) che vorrebbero comportarsi onestamente, per non parlare di un sistema bancario totalmente ingessato, di un sistema dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione che ammazzerebbe un dinosauro.
A me sembra che siano questi i fattori.
Insomma, raccontare la storia che il problema è la presunta rigidità del mercato del lavoro significa raccontare balle. In Veneto ogni anno ci sono 50.000 licenziamenti. Il Veneto, che è una delle regioni più ricche d’Italia e d’Europa, ha un dinamismo formidabile e, nonostante i pesanti contraccolpi della crisi, ha un mercato del lavoro flessibile quanto quello degli Stati Uniti.
Allora, ripeto, questo tema va affrontato, ma sapendo che è un tasto della tastiera. Non è che suonando solo il tasto della flessibilità in uscita si favorisce la ripresa economica.
E poi questo tema andava affrontato senza caricarlo di significati di altra natura. A meno che il disegno non sia un altro, ma allora bisogna dichiararlo. Cioè se il disegno è mostrare che il sindacato non è utile allo sviluppo, è un fastidio, come ha sempre detto il centrodestra; se il disegno è mettere ai margini la politica, le organizzazioni sociali e far credere che solo i tecnici possono dare una risposta ai problemi, vuol dire leggere la situazione di cui parlavo prima come un incidente contingente in un percorso.
Io penso esattamente l’opposto: serve invece un sovrappiù di politica. Solo che serve una politica diversa da questa, con personaggi nuovi, competenti, non compromessi. Quindi l’impasse in cui siamo è che il problema sarebbe politico prima che tecnico, ma siccome la politica è incapace di risposte, i tecnici diventano l’unica salvezza. Ora è pur vero che Monti ci ha liberato di un governo inefficiente e perfino imbarazzante e ha restituito un decoro alle istituzioni e una certa credibilità a livello internazionale al nostro Paese. Insomma, un intervento andava fatto, ma la soluzione a regime non può essere di tipo tecnico, ma di tipo politico perché richiede una visione del paese che vogliamo.
Anche quest’ossessione quotidiana di compiacere i mercati altrimenti lo spread sale, sembra ignorare il fatto che la coesione sociale e l’equità sono variabili di tipo economico, non solo morale, perché parliamo di una diversa modalità della distribuzione della ricchezza.
Quello che sta succedendo è che una politica incapace di rinnovamento, autoperpetuantesi nei suoi riti e nei suoi gruppi dirigenti, ha delegato ai cosiddetti tecnici la soluzione dei problemi politici. Questo è il paradosso in cui ci troviamo.
Nell’opinione pubblica sta passando l’idea che la politica sia incapace e che quindi si possa fare senza. Intendiamoci: era urgente e forse inevitabile affidarsi a un governo di unità nazionale. Ma faccio osservare la profonda differenza che c’è tra la grosse koalition tedesca e il governo dei tecnici. Là avevamo al governo la Merkel con i socialdemocratici. Qua abbiamo un governo senza politici. Se ci pensiamo, è una cosa pazzesca. Può esistere una situazione in cui i partiti restano sullo sfondo o addirittura -come qualcuno si augura- scompaiono? Esiste una democrazia senza i partiti? Alla fine l’idea che passa è che la democrazia abbia fallito. Ma questa è una discussione serissima. La democrazia rappresentativa oggi è adatta a governare il mondo globalizzato? Non è una domanda peregrina. Ma l’alternativa qual è? Il sovrano illuminato, un governo di tecnici nominato da partiti che stanno sullo sfondo sbeffeggiati dai tecnici che loro stessi hanno messo lì?
Io dico che non ci sarà alternativa se la politica non torna ad essere protagonista.
Non esiste paese al mondo in cui, scomparendo i partiti, resti salda la democrazia. Questo è oggi il problema che abbiamo di fronte.
In questo senso vedo la trattativa sul lavoro, così come la vicenda delle pensioni e delle liberalizzazioni, inserita in un contesto di crisi economica, ma anche di crisi dei sistemi democratici in Occidente.
Uno dei temi cruciali è come contemperare la flessibilità necessaria alle aziende per competere con le garanzie da assicurare ai lavoratori.
Nel nostro paese la prima forma di organizzazione della flessibilità è stata il Pacchetto Treu che ha introdotto il lavoro interinale e alcune norme che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro. Anche qui una premessa che non è nominalistica. Flessibilità non è sinonimo di precarietà. La flessibilità significa semplicemente non rigidità, ma ci può essere una flessibilità assolutamente tutelata. La flessibilità di per sé è una “parola valigia”, come dice Gallino, con tanti significati, ma nell’inconscio generale è diventata sinonimo di precarietà.
Precarietà cosa vuol dire? Vuol dire non avere certezze, non avere tutele, non avere quelle garanzie né quella stabilità necessaria a costruire un progetto di vita. Ecco, se tu alla flessibilità togli le tutele, resta la precarietà. Perché la flessibilità è diventata precarietà? Questa è la prima domanda a cui trovare risposta.
Che cosa ha ispirato questa logica? L’idea che la soluzione più semplice per uscire dalla crisi fosse intervenire sul fattore costo del lavoro. Una follia pura perché il lavoro si sposta naturalmente dove costa di meno, soprattutto il lavoro manifatturiero. Cioè mentre, per dirla con una battuta, è dispendioso andare a tagliarsi i capelli in Cina, produrre una nave di bulloni, di scarpe, di cd, può essere assolutamente competitivo. Ora, l’Italia non è un paese morto, è un paese che ha una sua vivacità, ma se tu la usi per competere con i paesi emergenti sul piano del costo del lavoro, alla fine la mortifichi.
Una certa flessibilità era necessaria al post-fordismo, ma il passaggio dalla flessibilità alla precarietà ha aperto un abisso. Perché sul settore più debole, che è il lavoro, hai scaricato per intero le ragioni di scambio dell’economia italiana. Non hai ammodernato il sistema dal punto di vista finanziario, amministrativo, funzionale ecc. e hai praticamente scelto di competere su due fattori di tutela del lavoro, quelli diretti, il salario, e quelli indiretti, le protezioni sociali, sia in termini di pensione che in termini di welfare.
Siamo arrivati al punto in cui la flessibilità in entrata è ingovernabile: le stesse imprese non sanno nemmeno più quanti sono gli istituti a cui possono attingere. Oggi si arriva a un posto di lavoro stabile nei pressi dell’età pensionabile. Quello che abbiamo prodotto in questa situazione è qualcosa di mostruosamente pericoloso perché la precarizzazione dei rapporti di lavoro conduce alla precarizzazione della vita sociale.
In questo contesto francamente non vedo la ragione per cui licenziare migliori la condizione di chi ancora deve essere assunto. Umberto Romagnoli, uno dei padri del diritto del lavoro italiano, con un’efficace battuta ha detto che questo approccio è come quello di chi pensa di far crescere i capelli a un calvo radendo a zero uno che i capelli li ha.
È pur vero che noi dobbiamo andare verso un’universalizzazione e rimodulazione dei diritti affinché non ci siano i protetti e i non protetti. Però anche qui attenzione... Cioè adesso chiamiamo “ipergarantiti” gli operai che prendono 1300 euro al mese e che hanno la cassa integrazione che li porta a guadagnarne 800; così “iperprotetti”, che se vengono licenziati si trovano senza lavoro e con la pensione che è stata spostata più avanti di tutti gli altri paesi europei. Dipingere queste persone come colpevoli del mancato ingresso dei ragazzi giovani nel mercato del lavoro non è solo stupido, è anche di una crudeltà assoluta.
L’idea che sul mercato del lavoro bisogna intervenire è assolutamente fondata. Occorre rendere vantaggioso il tempo indeterminato incentivando le imprese a stabilizzare e inserendo precocemente i ragazzi nel mondo del lavoro. Questo però comporta anche accorciare percorsi scolastici che sono molto, troppo, lunghi, con grandi dispersioni anche di energie. La cosa è molto più seria delle banalità che vengono raccontate da certi apprendisti stregoni. Senza contare che per universalizzare gli strumenti di protezione bisogna metterci dei soldi; per fissare un salario minimo per legge sotto il quale non si può andare, per evitare che uno che venga licenziato si butti nel canale, il paese deve spostare ricchezza dai profitti al lavoro. Io questa politica non la vedo.
La stessa trattativa su lavoro, pur avendo delle parti sicuramente positive, nell’impianto continua a non cogliere il problema di fondo e cioè che bisogna tornare a investire nel lavoro.
Tu hai trascorso gran parte della tua vita nel sindacato. Alcuni lo ritengono un soggetto non più all’altezza del compito che dovrebbe assolvere...
Sono stato segretario generale della Cgil per due mandati dal ‘98 al 2006; in precedenza, dal 1985 ho fatto parte della segreteria confederale. Tutta la mia vita è stata spesa prevalentemente nel sindacato: mi sono laureato nel 1975 e ho cominciato subito a occuparmi di sindacato scuola e per oltre vent’anni ho fatto il sindacalista a tempo pieno.
Per me è stata anche una grande scuola. A differenza di altri che hanno fatto solo politica, io penso che aver fatto il sindacalista mi abbia offerto delle possibilità straordinarie, perché mi ha obbligato a coltivare la relazione e a pensare quindi che le persone che hai di fronte sono sempre tuoi interlocutori, mai tuoi nemici, al massimo tuoi avversari politici. Quando invece ho cominciato a far politica, in alcuni, ho trovato una dose di cinismo per me incomprensibile; modificare di giorno in giorno i propri comportamenti in funzione dell’utile immediato è qualcosa di proibito nel sindacato, perché non ti viene perdonato.
Per venire alla domanda, penso che sia un soggetto che ha bisogno di un profondissimo aggiornamento, ma da qui a pensare che sia un intoppo per lo sviluppo passa un abisso di barbarie.
Quando ero segretario generale della Cgil ho avuto modo di esprimere critiche anche radicali, ma le critiche si fanno quando si ha a cuore un soggetto, una realtà. Io penso che il sindacato sia talmente importante che è giusto anche criticarlo radicalmente, però sapendo da che parte si sta e dove si vuole andare.
L’impressione purtroppo è invece che qualcuno voglia dimostrare al paese che si può farne a meno, che sia una palla al piede, qualcosa che divide, che difende qualcuno e abbandona gli altri. Conosco le difficoltà del sindacato ad affrontare questi temi, che tra l’altro sono stati caricati di simbologie pesanti. Pensiamo alla manifestazione al Circo Massimo sull’art. 18, poi segnata dalle vicende del terrorismo, dalla criminalizzazione di Cofferati e della Cgil.
Io ero segretario della Cgil quando c’è stata la vicenda d’art. 18. Ho detto subito che occorreva distinguere tra diritti e tutele. Non essere licenziati senza giusta causa è un diritto. Il reintegro è una tutela. Se io dipingo l’art. 18 come un baluardo della civiltà del lavoro, ne viene per converso che tutti i paesi che non hanno l’art. 18 sono barbari. Questa forzatura polemica concettualmente è stato un errore clamoroso che ha dato strumenti in mano agli avversari. Tu devi dire che il sistema di tutela dell’art. 18 inibisce la possibilità di liberarsi dei lavoratori fastidiosi e, come in tutti paesi, può essere anche modulato in modo diverso. Per esempio, io credo che il sindacato possa estendere l’utilizzo del risarcimento assegnando la decisione al giudice e trovando parametri equi, perché poi se andiamo a vedere, i reintegri effettivi sono pochissimi.
Se si fosse affrontata la questione volendo trovare un accordo, lo si trovava. La Cgil, che poteva avere delle difficoltà interne -so per esperienza che qualcuno non vuole che nemmeno si nomini l’art. 18- avrebbe fatto come fece Bruno Trentin nel 1993, trovando un’intesa, perché si trattava di uscire da un’impasse. Il fatto è che allora Trentin dall’altra parte aveva qualcuno che l’accordo lo voleva fare.
Bruno Trentin ebbe anche il coraggio di fare scelte impopolari. Cosa dovrebbe fare oggi il sindacato?
Penso a una cosa che, temo, non si farà. Su questa vicenda, piuttosto di cadere nel trabocchetto (che oltre all’isolamento della Cgil prevedeva anche la spaccatura del Pd) la Cgil dovrebbe fare -uso un’espressione di Vittorio Foa - la “mossa del cavallo”. La mossa del cavallo in questo caso vuol dire isolare dall’accordo quello che non va bene, dichiararlo, dopodiché chiedere di andare avanti e che la discussione avvenga tutta in Parlamento. Mettendo in chiaro che comunque la Cgil non si sarebbe tolta dal tavolo. Questo atteggiamento serve per mettere nelle peste chi vuole gettare l’amo per creare la divisione. Anche perché in questo provvedimento restano due punti che produrranno grossi problemi. Uno è il rapporto lavoratori pubblici-privati: se si fa un intervento di questa natura non si può escludere il pubblico. L’altra cosa che rischia di scoppiare tra le mani è che non ci sono i soldi per le tutele garantite.
In conclusione, se si dovesse ripresentare una situazione di impasse, credo che servirebbe una mossa di sfida al governo: “Noi non siamo d’accordo su queste cose, prevediamo che succederà questo, ve ne prendete la responsabilità”.
Tu denunci gli effetti devastanti che rischia di produrre il mix tra riforma del lavoro e riforma previdenziale.
Tutta questa vicenda della riforma del mercato del lavoro si aggancia ai non risolti problemi di riforma previdenziale, perché la riforma è stata fatta col machete e ha lasciato sul campo morti e feriti. Ora, se intervieni col machete, poi non puoi lamentarti se gli schizzi di sangue rovinano le pareti della “bella politica”. Ora, a parte il paragone truce, le cose fatte sulle pensioni sono complicate: io non ho nessun problema sul contributivo pro-rata, e neanche sull’unificazione degli istituti previdenziali, però, invece di introdurre la flessibilità in uscita (incentivando la permanenza e disincentivando l’uscita anticipata), si sono tolte di mezzo le pensioni di anzianità dalla sera alla mattina col risultato che qualcuno che aveva la quota per uscire s’è trovato a dover aspettare quattro-cinque anni in più. Questa è una cosa inaudita che ha creato delle situazioni disperate.
Adesso ci sono gli “esodati”, ai quali era stato assicurato un collegamento con la pensione, che si trovano invece a non avere né la pensione né il lavoro. Poi ci sono i precoci. Ma sappiamo di cosa parliamo? Io vengo fermato per la strada da persone che mi dicono: “Roberto, ho 56 anni, ho cominciato a lavorare dopo le medie, ho sempre lavorato, ho 39 anni di contributi e adesso mi hanno licenziato, cosa faccio?”. Le stesse imprese che tuonano a favore dei diritti dei lavoratori giovani e si lamentano che si abbandona il lavoro da “troppo giovani”, a questi lavoratori spiegano che sono troppo vecchi per essere assunti.
C’è il problema delle partite Iva, quelli che hanno la gestione separata. Questi pagano una “paccata” di contributi, dopodiché si dice loro: “Fatevi la pensione integrativa”. Ma con quali soldi dopo che hanno dato circa il 27% all’Inps e hanno pagato il commercialista? Abbiamo infine tutta la partita di quelli che non raggiungono il minimo. Ma, scusa, se la pensione è contributiva e io ho pagato per cinque anni, mi darai l’assegno corrispondente senza che io debba aspettare di arrivare a 70 anni per veder riconosciuto il mio diritto. E questi sono solo alcuni esempi.
A tutte queste cose un governo degno di questo nome deve dare una risposta. Nessuno vuol tornare alle pensioni baby, però, ad esempio, perché non si è chiesto un contributo di solidarietà ai cinquecentomila pensionati baby? So che molti assegni sono bassi, però anche un piccolo contributo sarebbe stato importante, proprio per dare il segno. Noi siamo passati da un eccesso all’altro.
Stiamo costruendo una generazione di poveri. In questo senso i temi del lavoro e della pensione non possono essere disgiunti. In un momento di crisi, con tassi di disoccupazione inediti, il combinato disposto è un disastro in termini di coesione sociale.
Si dice: avremmo potuto finire come la Grecia, che è diventata il babau. Ho capito; era un problema reale, però se vuoi essere serio dovevi intervenire anche sulle grandi ricchezze. Non puoi avere un occhio di riguardo per quelli che s’incazzano, come è avvenuto  per le liberalizzazioni, ed avere la mano pesante su quelli che hanno accettato la riforma delle pensioni con tre ore di sciopero, pur avendo molto da ridire. In questo paese sembra che alcuni abbiano il diritto di protestare e di ottenere e altri debbano solo subire.
Qualcuno denuncia che si vogliono scaricare sul lavoro anche quelli che forse sono più propriamente oneri sociali. 
Io penso che l’impresa non possa diventare assistente sociale; l’impresa deve per definizione produrre profitto, ma ha anche una responsabilità sociale. Non posso licenziare uno solo perché è vecchio e mi costa di più e sostituirlo con un ragazzo all’insegna del modello americano “hire and fire”.
Se la riforma fosse rimasta quella della prima proposta del governo, pagando un’indennità, l’imprenditore poteva liberarsi di un lavoratore di 56 anni che magari, avendo iniziato a lavorare dopo le scuole media, aveva 40 anni di contributi, per cui gliene mancavano oltre 2 per arrivare a quei 42 e rotti necessari per andare in pensione anticipata e una decina per andare in pensione di vecchiaia.
Bene, questo Stato mi deve dire come lo accompagno alla pensione o come l’impiego, perché altrimenti questa è la strada verso la disperazione.
Allora, se vogliamo parlare di cose serie, a me sembra siano questi i problemi.
Io voglio sapere cosa facciamo di questa gente che, tra l’altro, non essendo molto scolarizzata, fa fatica anche a riconvertirsi. Anche certe stupidaggini sulla formazione sono vergognose. Non puoi riproporre a un lavoratore che ha fatto le medie quarant’anni fa, la formazione col modello frontale dell’aula. Bisogna essere seri: forse in qualche caso bisogna evitare la formazione e offrire invece sistemi di accompagnamento alla pensione. Non voglio essere frainteso: io sono favorevolissimo alla formazione, purché si inserisca in un percorso congruo. Io ho visto lavoratori piangere per compilare le caselline della domanda di mobilità perché erano anni che non scrivevano più.
Allora, per concludere, nella mia visione della politica, queste persone non possono essere abbandonate a se stesse. Se invece si pensa che siano dei pesi che possono essere tranquillamente eliminati, e che questo è un incidente di percorso del mercato che si autoregola... beh, non commento.
Dopodiché il problema esiste; solo un cretino può negare il fatto che mentre prima la pensione veniva goduta mediamente per circa dieci-quindici anni, adesso viene goduta per circa venti-trenta; nessuno può negare che la demografia ci impone certe modifiche, ma da questo a farne derivare soluzioni automatiche, beh c’è di mezzo appunto la politica.
Tu eri favorevole a una soglia d’uscita mobile...
Ai tempi della riforma Dini si era parlato di una soglia 57-62 anni: se andavi via prima venivi penalizzato, se aspettavi eri incentivato.
Se io a sessant’anni voglio andare in pensione perché ho un genitore ammalato e sono disposto a rimetterci una percentuale perché una badante mi costa mille euro al mese più i contributi o perché preferisco assisterlo personalmente oppure semplicemente perché mi sono rotto di lavorare; oppure faccio un lavoro che mi gratifica, sto bene, e voglio lavorare fino a 67 anni aumentando così la mia contribuzione, perché non posso farlo? Uno mi deve spiegare perché non si può fare. Contro la soglia rigida hanno tuonato tutti quando la propose Maroni e adesso stanno tutti zitti.
Bisognerebbe consentire ai lavoratori e alle lavoratrici di poter fare anche una valutazione  soggettiva. Non c’è niente di sbagliato nell’accettare un’autoriduzione della pensione a fronte del fatto che io posso per esempio assistere una persona o semplicemente farmi i fatti miei. 
Ma nello spostamento in avanti c’è un altro problema, che non riguarda solo gli edili o i minatori. Chiedo: a 65 anni chi è che corre dietro a trenta bambini in una scuola dell’infanzia, chi alza dal letto un infermo in traumatologia?
Che poi capisci cosa vuol dire per un bambino di tre anni avere un insegnante di scuola del’infanzia che ne ha 65? Quando io andavo a scuola, i miei insegnanti erano poco più vecchi di me. Quando insegnavo nel biennio delle scuole superiori, fino al 2010, potevo quasi essere il nonno di quei ragazzi. C’è anche un problema di immaginario relazionale. Perché non parliamo di queste cose?
Torniamo alla riforma sul lavoro. Il “Wall Street Journal” tempo fa ha scritto che in Italia un imprenditore non può licenziare un incompetente. Questo è un problema?
Premesso che il datore di lavoro ha tanti modi per tenere sotto osservazione una persona (periodo di prova, apprendistato, tempo determinato, ecc.), tieni conto che se un dipendente si rivela inadatto o non rispetta le normative, ci sono tutte le sanzioni previste dai contratti e dopo un tot di sanzioni il licenziamento in genere non viene osteggiato dal giudice.
Alcuni lamentano che il tribunale del lavoro tende a dare sempre ragione al lavoratore. Ora, i giudici come tutti gli arbitri possono anche sbagliare, però vorrei precisare una questione su cui non siamo mai stati sufficientemente chiari. Il diritto del lavoro è un diritto disuguale, non è il diritto privato dove i due contraenti sono pari nel giudizio. Il diritto del lavoro è una parte del diritto nella quale si pensa che esista una parte più debole dell’altra. Può piacere o meno ma è così. Questo non significa che ogni lavoratore sia innocente e che il datore di lavoro non possa avere buonissime ragioni per liberarsi di lui. Ma quanti sono questi casi?
Non dimentichiamo che il lavoratore può essere lasciato a casa con provvedimenti di licenziamento collettivo. Chiaro che se parliamo di una piccola ditta dove ci sono due dipendenti e uno non fa palesemente nulla, questa diventa una ragione seria, ma in questo caso il licenziamento è possibile e la legge non prevede alcun reintegro. Non c’è illogicità nella soglia dei 15 dipendenti.
Ma soprattutto, se chiediamo all’imprenditore di mettere in fila le ragioni della competitività, questa c’è, ma è una delle ultime.
Sul tema dell’estensione degli ammortizzatori sociali e della cosiddetta “flexysecurity”, quali sono le difficoltà?
Quando si parla del modello danese bisogna tener conto intanto che la popolazione danese è   l’equivalente di una regione come il Veneto, e poi che lavorano tutti.
Qui mancano, a mio avviso, due elementi fondamentali: i soldi per pagare gli ammortizzatori sociali e i servizi di politica attiva per il lavoro. I vecchi uffici del lavoro -quando va bene- sono diventati delle forme di registrazione statistica dei movimenti sul mercato del lavoro. Parlare di servizi per il lavoro efficienti significa mettere assieme pubblico e privato -con una regia pubblica- allestendo un sistema in grado di accompagnare la persona ad un altro lavoro. Ichino  nel suo ultimo libro si immagina che il datore di lavoro si accolli una tassa per accompagnare il lavoratore. Vorrei conoscerli questi imprenditori. Purtroppo siamo lontani dall’idea di guidare insieme la ricollocazione. Quando mi è capitato di fare gli accordi per introdurre la responsabilità sulla mobilità del lavoratore, le poche volte che si è riusciti, c’era da morire perché l’imprenditore si voleva solo liberare del problema.
La ricollocazione del lavoratore attraverso le politiche attive del lavoro è una delle cose più difficili nel nostro paese. Io sono entrato in alcuni servizi per l’impiego all’estero e sono rimasto esterrefatto. Intanto erano locali belli e accoglienti, forniti di computer, dove potevi sederti a chiacchierare, ma soprattutto avevi la sensazione di essere una persona in momentanea difficoltà in un luogo in cui qualcuno ti dava ascolto, consigli e suggerimenti. Qui ci sono sempre i corridoi della vecchia pubblica amministrazione con gli uffici in cui ti aggiri sentendoti un rompiballe.
E poi c’è appunto il problema dei soldi. Già ora il tema degli ammortizzatori s’è dilatato nel tempo e non è chiaro se le risorse a disposizione basteranno per estenderlo veramente a tutte le tipologie. D’altra parte anche sulle politiche attive per l’impiego io non so per esempio le regioni dove troveranno i soldi. Faccio osservare che in due anni il Veneto ha perso un miliardo di euro di trasferimenti. Allora, bisogna mantenere la sanità, i trasporti, il sociale, c’è il patto di stabilità che t’impedisce di spendere i soldi anche dove li hai... Insomma fare politiche attive per l’impiego senza soldi è difficile!
Dicevi che la politica dovrebbe accompagnare una riflessione sindacale che sia all’altezza dei tempi, non enfatizzarne i limiti.
Essendo uno che conosce e ha a cuore la storia del sindacato, non mi sfuggono le difficoltà che trova nel mercato del lavoro attivo e in particolare nella manifattura che è letteralmente crollata come percentuale di occupati e di conseguenza di organizzati.
So che questo è il problema. Ma chiedo: data la situazione, devo puntare ad allargare la capacità di sentirsi parte di un soggetto collettivo anche a quei lavoratori che fanno lavori precari, saltuari, che restano ai margini o devo ambire a distruggere quest’organizzazione e puntare  solo sulla trattativa individuale? Se vogliamo che i lavoratori tornino a essere singoli negoziatori dei loro destini senza alcuna rete di collegamento, bene, questa è la strada.
Oggi il sindacato è in grave difficoltà e un soggetto in queste condizioni cerca in primo luogo di sopravvivere, non è che ha il tempo e il modo di pensare a cosa potrebbe fare nella vita. Io però penso che sia compito della politica accompagnarlo in questo difficile passaggio. Anche perché lo stesso problema ce l’hanno le imprese. Non è che la rappresentatività dell’impresa sia maggiore di quella del sindacato o la loro frammentazione sia minore o meno preoccupante. È compito della politica dare voce ai corpi intermedi perché significa assegnare ai lavoratori l’idea di essere soggetti che hanno, oltre che un destino individuale, anche una storia collettiva.
Sembra che tu veda un rischio molto serio, quasi mortale, per il sindacato.
Assolutamente sì. Il fatto che il sindacato non sia stato coinvolto da Tangentopoli o dalla crisi della politica non l’ha messo al riparo. In fondo il sindacato, con alcune modernizzazioni minime, è quello del secolo scorso. Ha le categorie, la confederazione, le strutture territoriali, ha un’organizzazione e un modello che è legato a quel tipo di produzione.
Qui si riaprirebbe una discussione enorme, ma è chiaro che il sindacato oggi deve spostare il terreno di iniziativa dalla contrattazione nazionale -che deve rimanere- alla contrattazione locale, territoriale; affiancare ai sistemi di tutela contrattuale (i contratti) i sistemi di tutela individuale (i servizi). È in corso un cambiamento epocale segnato dalla polverizzazione dei rapporti di lavoro, dall’esternalizzazione. Non siamo più nell’epoca della sindacalizzazione della grande fabbrica e la sindacalizzazione dell’azienda medio-piccola, dove il lavoratore dipendente è simbiotico con il datore di lavoro, è una missione quasi impossibile.
Il tipo di protezione sociale deve dunque cambiare. Il rapporto con il datore di lavoro, da esclusivamente conflittuale, deve diventare anche collaborativo. Qui si apre tutto il terreno dei cosiddetti enti bilaterali e quant’altro.
Questo è un problema che riguarda anche la politica oppure no? In fondo oggi cosa dovrebbe fare uno del sindacato se non proteggere i suoi iscritti? Se tu fossi socia del circolo del tennis e arrivasse uno che sfascia le racchette, beh, la prima cosa che faresti è di metterle nell’armadietto! O no?
Le associazioni sono il sale di una democrazia, che non può vivere solo dei partiti o della rappresentanza parlamentare. Deve vivere anche di corpi intermedi. Se i corpi intermedi non esistono, se i partiti spariscono avremo un sistema di carattere plebiscitario.
Anche il Pd è in un momento di difficoltà...
Il Pd non è nato per collaborare a questo tipo di disegno, è nato come un partito che intendeva dare una lettura diversa -di cui c’è improcrastinabile necessità- della situazione italiana. Dall’assassinio di Moro in avanti non c’è più stata una lettura di sintesi della storia del paese. E non è sicuramente il governo tecnico che può supplire la mancata lettura politica dei processi. Bisogna ripartire da lì. Il Partito democratico è nato con un grande progetto. Se il problema era salvare i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita a me non interessa. La speranza che aveva acceso soprattutto con Prodi... Capisci il paradosso? I politici hanno “ammazzato” Prodi perché non era organico al sistema dei partiti, per trovarsi Passera, Fornero e Monti a fare il lavoro che doveva essere fatto da un personaggio che abbiamo espunto dalla politica perché non era espressione dei partiti. Bel risultato!
Quella di Prodi, per me, rimane l’intuizione geniale: il Partito democratico come luogo, non della saldatura dell’esistente, ma dell’incrocio, della contaminazione di culture che comunque hanno fatto la storia di questo paese.
Il pensiero socialista, con tutte le contraddizioni, è qualcosa di molto più significativo della degenerazione a cui è arrivato negli anni peggiori, ha una storia centenaria che è finita in tragedia. Il problema del socialismo italiano non può essere ridotto a una vicenda giudiziaria, penale. Mi spiego? Ecco, il Partito democratico era nato per questo. Non a caso s’erano avvicinati milioni di persone. Se torna ad essere un partito come gli altri, legato a gruppi di potere, non interessa a nessuno.
Se il Partito democratico vuole avere un futuro, deve battere un colpo su questi temi, che non sono solo la difesa del lavoro o la protezione della Cgil (come qualcuno volgarmente dice), ma sono il tentativo di dare una lettura diversa, alternativa, alla vicenda italiana e alla vicenda occidentale, e di ridare forza a una democrazia che è entrata letteralmente in crisi.
Ma, attenzione, la soluzione non può essere quella di ripristinare lo status quo ante.
Una delle ragioni per cui abbiamo perso nel passato è che dentro questa alleanza c’era un pezzo di sinistra che non ha mai voluto fare i conti con questi cambiamenti. La politica non deve limitarsi a fare da eco, a enfatizzare il malcontento, deve trovare soluzioni.
Se oggi critico il mio partito è perché lo vedo insufficientemente speso sull’idea di ricercare questa alternativa. Comunque l’esercizio di rilettura, se vale per il Pd, vale per tutti. Non c’è nessuno che sia esentato.
Purtroppo i partiti hanno smesso di essere -citazione gramsciana- quell’intellettuale collettivo capace di dialogare con gli specialisti e di trasferire le loro analisi in azione politica. Questo non c’è più. Io non so dove si discuta oggi con libertà, apertura mentale, volontà vera di confronto.
Analogo discorso vale per il sindacato: i Bruno Trentin non ci sono più. Un tempo andavi alle riunioni e, anche se non eri d’accordo, ti venivano aperti degli orizzonti, offerte delle sollecitazioni, provocate delle domande. Oggi nei luoghi della politica si ripetono le notizie dei giornali.
Purtroppo la strada è in salita, impervia e non ci sono sponde. Ma se quella è la strada, quella bisogna percorrere. Se vogliamo bene alle persone più giovani, bisogna tornare dove abbiamo perso il filo di questa storia. Non ci sono scorciatoie alla politica, non ci sono tecnici che risolvano problemi politici. Tornando alla metafora: bisogna tornare a cercare la chiave dove l’abbiamo persa.

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