Intervista a cura di Barbara Bertoncin in corso di pubblicazione
su Una Città, aprile 2012 n. 193, www.unacitta.it
Tu
sei piuttosto critico su come è stato impostato il dibattito attorno alla crisi
e alle possibili vie d’uscita...
All’origine
dei problemi in cui oggi ci troviamo non c’è la crisi finanziaria. Capisco di
fare un’affermazione che può sembrare azzardata, ma all’origine c’è la crisi
del lavoro e della distribuzione della ricchezza, che ha generato la crisi
finanziaria, che a sua volta ha creato la crisi economica, che è diventata
crisi sociale. In questo senso pensare di affrontare i problemi della crisi
finanziaria dal versante della finanza mi fa pensare alla famosa barzelletta
dell’ubriaco che cerca la chiave sotto il lampione: alcune persone si fermano
ad aiutarlo, ma la chiave non si trova, fino a quando uno, stufo di cercare,
gli chiede: “Ma dove l’hai persa?”. E l’ubriaco: “Laggiù in fondo, ma là è buio
non si vede niente”. Ecco, io temo che la crisi in cui siamo sia questa: stiamo
cercando nel posto sbagliato. Sarò più esplicito: se pensiamo che la soluzione
sia la compressione dei diritti e la riduzione del peso del lavoro cerchiamo
dalla parte sbagliata.
L’origine
del problema sta nel fatto che con il tipo di globalizzazione e di pervasività
delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione si è creato un divario
a livello mondiale che, se è pur vero che ha elevato pezzi di mondo che prima
erano totalmente esclusi dalla vita civile (qualche miliardo di persone che
prima morivano letteralmente di fame hanno avuto di che mangiare),
nell’Occidente, nel mondo sviluppato, questo ha provocato un ampliarsi di
disuguaglianze assolutamente clamorose. Negli ultimi cento anni la ricchezza
non è mai stata così polarizzata.
L’ho
presa larga, per così dire, ma è fondamentale capire questo, perché se noi
pensiamo di rilanciare la competitività con interventi tampone sulle questioni
del mercato del lavoro o del costo del lavoro, continuando a illuderci di poter
rincorrere le ragioni di scambio ultra favorevoli che esistono in altre parti
del mondo, siamo destinati a fallire. Bisogna trovare modi diversi di uscire
dalla crisi. Non che queste cose non siano importanti e necessarie, ma se
pensiamo di affidare a queste l’uscita dalla crisi, cerchiamo la chiave nel
posto sbagliato.
Io
penso che per ritrovarla bisogna rimettere al centro il lavoro.
Tu sei molto scettico sull’attuale trattativa, che vede solo nella rigidità del mercato del lavoro le ragioni del mancato sviluppo del nostro paese. Puoi spiegare?
Tu sei molto scettico sull’attuale trattativa, che vede solo nella rigidità del mercato del lavoro le ragioni del mancato sviluppo del nostro paese. Puoi spiegare?
A
sentire il dibattito in corso sembra che la crisi di investimenti nel nostro
paese sia generata esclusivamente dall’assenza di normative certe sul mercato
del lavoro.
Allora,
bisogna chiarire intanto che quello è solo uno spicchio della realtà. Tanto più
-e questo va detto con chiarezza- che se non c’è ripresa economica, rendere più
flessibile il mercato del lavoro non serve a un bel niente, o a molto poco. E
qui aggiungo che fino ad ora non vedo provvedimenti che facilitino lo sviluppo:
non c’è niente sull’istruzione, sulla formazione, sull’innovazione, sulla
ricerca, se non qualche balbettio, bisogna quindi innanzitutto costruire le
condizioni per una ripresa dello sviluppo.
Detto
questo, le ragioni del mancato sviluppo o del mancato afflusso di capitali
stranieri, sono, ahimé, molto più complesse di come vengono raccontate da chi
oggi vuol far credere che il problema sia legato -banalizzo- all’art. 18.
Cioè
in questo paese la pubblica amministrazione funziona come sappiamo; c’è un
sistema di legislazione, anche sul lavoro, lento e farraginoso, c’è un costo
dell’energia elevato, c’è un sistema della politica che propriamente
trasparente non si può definire, c’è un sistema dei trasporti inadeguato, c’è
una diffusione delle reti immateriali che non è all’altezza degli altri paesi
sviluppati, c’è un sistema di malavita organizzata che corrode la politica e la
società e rende la vita difficile a quegli imprenditori (e sono tanti) che
vorrebbero comportarsi onestamente, per non parlare di un sistema bancario
totalmente ingessato, di un sistema dei pagamenti da parte della pubblica
amministrazione che ammazzerebbe un dinosauro.
A
me sembra che siano questi i fattori.
Insomma,
raccontare la storia che il problema è la presunta rigidità del mercato del
lavoro significa raccontare balle. In Veneto ogni anno ci sono 50.000
licenziamenti. Il Veneto, che è una delle regioni più ricche d’Italia e
d’Europa, ha un dinamismo formidabile e, nonostante i pesanti contraccolpi
della crisi, ha un mercato del lavoro flessibile quanto quello degli Stati
Uniti.
Allora,
ripeto, questo tema va affrontato, ma sapendo che è un tasto della tastiera.
Non è che suonando solo il tasto della flessibilità in uscita si favorisce la
ripresa economica.
E
poi questo tema andava affrontato senza caricarlo di significati di altra
natura. A meno che il disegno non sia un altro, ma allora bisogna dichiararlo.
Cioè se il disegno è mostrare che il sindacato non è utile allo sviluppo, è un
fastidio, come ha sempre detto il centrodestra; se il disegno è mettere ai
margini la politica, le organizzazioni sociali e far credere che solo i tecnici
possono dare una risposta ai problemi, vuol dire leggere la situazione di cui
parlavo prima come un incidente contingente in un percorso.
Io
penso esattamente l’opposto: serve invece un sovrappiù di politica. Solo che
serve una politica diversa da questa, con personaggi nuovi, competenti, non
compromessi. Quindi l’impasse in cui siamo è che il problema sarebbe politico
prima che tecnico, ma siccome la politica è incapace di risposte, i tecnici
diventano l’unica salvezza. Ora è pur vero che Monti ci ha liberato di un
governo inefficiente e perfino imbarazzante e ha restituito un decoro alle
istituzioni e una certa credibilità a livello internazionale al nostro Paese.
Insomma, un intervento andava fatto, ma la soluzione a regime non può essere di
tipo tecnico, ma di tipo politico perché richiede una visione del paese che
vogliamo.
Anche
quest’ossessione quotidiana di compiacere i mercati altrimenti lo spread sale,
sembra ignorare il fatto che la coesione sociale e l’equità sono variabili di
tipo economico, non solo morale, perché parliamo di una diversa modalità della
distribuzione della ricchezza.
Quello
che sta succedendo è che una politica incapace di rinnovamento,
autoperpetuantesi nei suoi riti e nei suoi gruppi dirigenti, ha delegato ai
cosiddetti tecnici la soluzione dei problemi politici. Questo è il paradosso in
cui ci troviamo.
Nell’opinione
pubblica sta passando l’idea che la politica sia incapace e che quindi si possa
fare senza. Intendiamoci: era urgente e forse inevitabile affidarsi a un
governo di unità nazionale. Ma faccio osservare la profonda differenza che c’è
tra la grosse koalition tedesca e il
governo dei tecnici. Là avevamo al governo la Merkel con i socialdemocratici.
Qua abbiamo un governo senza politici. Se ci pensiamo, è una cosa pazzesca. Può
esistere una situazione in cui i partiti restano sullo sfondo o addirittura
-come qualcuno si augura- scompaiono? Esiste una democrazia senza i partiti?
Alla fine l’idea che passa è che la democrazia abbia fallito. Ma questa è una
discussione serissima. La democrazia rappresentativa oggi è adatta a governare
il mondo globalizzato? Non è una domanda peregrina. Ma l’alternativa qual è? Il
sovrano illuminato, un governo di tecnici nominato da partiti che stanno sullo
sfondo sbeffeggiati dai tecnici che loro stessi hanno messo lì?
Io
dico che non ci sarà alternativa se la politica non torna ad essere
protagonista.
Non
esiste paese al mondo in cui, scomparendo i partiti, resti salda la democrazia.
Questo è oggi il problema che abbiamo di fronte.
In
questo senso vedo la trattativa sul lavoro, così come la vicenda delle pensioni
e delle liberalizzazioni, inserita in un contesto di crisi economica, ma anche
di crisi dei sistemi democratici in Occidente.
Uno
dei temi cruciali è come contemperare la flessibilità necessaria alle aziende
per competere con le garanzie da assicurare ai lavoratori.
Nel
nostro paese la prima forma di organizzazione della flessibilità è stata il
Pacchetto Treu che ha introdotto il lavoro interinale e alcune norme che hanno
reso più flessibile il mercato del lavoro. Anche qui una premessa che non è
nominalistica. Flessibilità non è sinonimo di precarietà. La flessibilità
significa semplicemente non rigidità, ma ci può essere una flessibilità
assolutamente tutelata. La flessibilità di per sé è una “parola valigia”, come
dice Gallino, con tanti significati, ma nell’inconscio generale è diventata
sinonimo di precarietà.
Precarietà
cosa vuol dire? Vuol dire non avere certezze, non avere tutele, non avere
quelle garanzie né quella stabilità necessaria a costruire un progetto di vita.
Ecco, se tu alla flessibilità togli le tutele, resta la precarietà. Perché la
flessibilità è diventata precarietà? Questa è la prima domanda a cui trovare
risposta.
Che
cosa ha ispirato questa logica? L’idea che la soluzione più semplice per uscire
dalla crisi fosse intervenire sul fattore costo del lavoro. Una follia pura
perché il lavoro si sposta naturalmente dove costa di meno, soprattutto il
lavoro manifatturiero. Cioè mentre, per dirla con una battuta, è dispendioso
andare a tagliarsi i capelli in Cina, produrre una nave di bulloni, di scarpe,
di cd, può essere assolutamente competitivo. Ora, l’Italia non è un paese
morto, è un paese che ha una sua vivacità, ma se tu la usi per competere con i
paesi emergenti sul piano del costo del lavoro, alla fine la mortifichi.
Una
certa flessibilità era necessaria al post-fordismo, ma il passaggio dalla
flessibilità alla precarietà ha aperto un abisso. Perché sul settore più
debole, che è il lavoro, hai scaricato per intero le ragioni di scambio
dell’economia italiana. Non hai ammodernato il sistema dal punto di vista
finanziario, amministrativo, funzionale ecc. e hai praticamente scelto di
competere su due fattori di tutela del lavoro, quelli diretti, il salario, e
quelli indiretti, le protezioni sociali, sia in termini di pensione che in
termini di welfare.
Siamo
arrivati al punto in cui la flessibilità in entrata è ingovernabile: le stesse
imprese non sanno nemmeno più quanti sono gli istituti a cui possono attingere.
Oggi si arriva a un posto di lavoro stabile nei pressi dell’età pensionabile.
Quello che abbiamo prodotto in questa situazione è qualcosa di mostruosamente
pericoloso perché la precarizzazione dei rapporti di lavoro conduce alla
precarizzazione della vita sociale.
In
questo contesto francamente non vedo la ragione per cui licenziare migliori la
condizione di chi ancora deve essere assunto. Umberto Romagnoli, uno dei padri
del diritto del lavoro italiano, con un’efficace battuta ha detto che questo
approccio è come quello di chi pensa di far crescere i capelli a un calvo
radendo a zero uno che i capelli li ha.
È
pur vero che noi dobbiamo andare verso un’universalizzazione e rimodulazione
dei diritti affinché non ci siano i protetti e i non protetti. Però anche qui
attenzione... Cioè adesso chiamiamo “ipergarantiti” gli operai che prendono
1300 euro al mese e che hanno la cassa integrazione che li porta a guadagnarne
800; così “iperprotetti”, che se vengono licenziati si trovano senza lavoro e
con la pensione che è stata spostata più avanti di tutti gli altri paesi
europei. Dipingere queste persone come colpevoli del mancato ingresso dei
ragazzi giovani nel mercato del lavoro non è solo stupido, è anche di una
crudeltà assoluta.
L’idea
che sul mercato del lavoro bisogna intervenire è assolutamente fondata. Occorre
rendere vantaggioso il tempo indeterminato incentivando le imprese a stabilizzare
e inserendo precocemente i ragazzi nel mondo del lavoro. Questo però comporta
anche accorciare percorsi scolastici che sono molto, troppo, lunghi, con grandi
dispersioni anche di energie. La cosa è molto più seria delle banalità che
vengono raccontate da certi apprendisti stregoni. Senza contare che per
universalizzare gli strumenti di protezione bisogna metterci dei soldi; per
fissare un salario minimo per legge sotto il quale non si può andare, per
evitare che uno che venga licenziato si butti nel canale, il paese deve
spostare ricchezza dai profitti al lavoro. Io questa politica non la vedo.
La
stessa trattativa su lavoro, pur avendo delle parti sicuramente positive,
nell’impianto continua a non cogliere il problema di fondo e cioè che bisogna
tornare a investire nel lavoro.
Tu
hai trascorso gran parte della tua vita nel sindacato. Alcuni lo ritengono un
soggetto non più all’altezza del compito che dovrebbe assolvere...
Sono
stato segretario generale della Cgil per due mandati dal ‘98 al 2006; in
precedenza, dal 1985 ho fatto parte della segreteria confederale. Tutta la mia
vita è stata spesa prevalentemente nel sindacato: mi sono laureato nel 1975 e
ho cominciato subito a occuparmi di sindacato scuola e per oltre vent’anni ho
fatto il sindacalista a tempo pieno.
Per
me è stata anche una grande scuola. A differenza di altri che hanno fatto solo
politica, io penso che aver fatto il sindacalista mi abbia offerto delle
possibilità straordinarie, perché mi ha obbligato a coltivare la relazione e a
pensare quindi che le persone che hai di fronte sono sempre tuoi interlocutori,
mai tuoi nemici, al massimo tuoi avversari politici. Quando invece ho
cominciato a far politica, in alcuni, ho trovato una dose di cinismo per me
incomprensibile; modificare di giorno in giorno i propri comportamenti in
funzione dell’utile immediato è qualcosa di proibito nel sindacato, perché non
ti viene perdonato.
Per
venire alla domanda, penso che sia un soggetto che ha bisogno di un
profondissimo aggiornamento, ma da qui a pensare che sia un intoppo per lo
sviluppo passa un abisso di barbarie.
Quando
ero segretario generale della Cgil ho avuto modo di esprimere critiche anche
radicali, ma le critiche si fanno quando si ha a cuore un soggetto, una realtà.
Io penso che il sindacato sia talmente importante che è giusto anche criticarlo
radicalmente, però sapendo da che parte si sta e dove si vuole andare.
L’impressione
purtroppo è invece che qualcuno voglia dimostrare al paese che si può farne a
meno, che sia una palla al piede, qualcosa che divide, che difende qualcuno e
abbandona gli altri. Conosco le difficoltà del sindacato ad affrontare questi
temi, che tra l’altro sono stati caricati di simbologie pesanti. Pensiamo alla
manifestazione al Circo Massimo sull’art. 18, poi segnata dalle vicende del
terrorismo, dalla criminalizzazione di Cofferati e della Cgil.
Io
ero segretario della Cgil quando c’è stata la vicenda d’art. 18. Ho detto
subito che occorreva distinguere tra diritti e tutele. Non essere licenziati
senza giusta causa è un diritto. Il reintegro è una tutela. Se io dipingo
l’art. 18 come un baluardo della civiltà del lavoro, ne viene per converso che
tutti i paesi che non hanno l’art. 18 sono barbari. Questa forzatura polemica
concettualmente è stato un errore clamoroso che ha dato strumenti in mano agli
avversari. Tu devi dire che il sistema di tutela dell’art. 18 inibisce la
possibilità di liberarsi dei lavoratori fastidiosi e, come in tutti paesi, può
essere anche modulato in modo diverso. Per esempio, io credo che il sindacato
possa estendere l’utilizzo del risarcimento assegnando la decisione al giudice
e trovando parametri equi, perché poi se andiamo a vedere, i reintegri
effettivi sono pochissimi.
Se
si fosse affrontata la questione volendo trovare un accordo, lo si trovava. La
Cgil, che poteva avere delle difficoltà interne -so per esperienza che qualcuno
non vuole che nemmeno si nomini l’art. 18- avrebbe fatto come fece Bruno
Trentin nel 1993, trovando un’intesa, perché si trattava di uscire da
un’impasse. Il fatto è che allora Trentin dall’altra parte aveva qualcuno che
l’accordo lo voleva fare.
Bruno
Trentin ebbe anche il coraggio di fare scelte impopolari. Cosa dovrebbe fare
oggi il sindacato?
Penso
a una cosa che, temo, non si farà. Su questa vicenda, piuttosto di cadere nel
trabocchetto (che oltre all’isolamento della Cgil prevedeva anche la spaccatura
del Pd) la Cgil dovrebbe fare -uso un’espressione di Vittorio Foa - la “mossa
del cavallo”. La mossa del cavallo in questo caso vuol dire isolare
dall’accordo quello che non va bene, dichiararlo, dopodiché chiedere di andare
avanti e che la discussione avvenga tutta in Parlamento. Mettendo in chiaro che
comunque la Cgil non si sarebbe tolta dal tavolo. Questo atteggiamento serve
per mettere nelle peste chi vuole gettare l’amo per creare la divisione. Anche
perché in questo provvedimento restano due punti che produrranno grossi
problemi. Uno è il rapporto lavoratori pubblici-privati: se si fa un intervento
di questa natura non si può escludere il pubblico. L’altra cosa che rischia di
scoppiare tra le mani è che non ci sono i soldi per le tutele garantite.
In
conclusione, se si dovesse ripresentare una situazione di impasse, credo che
servirebbe una mossa di sfida al governo: “Noi non siamo d’accordo su queste
cose, prevediamo che succederà questo, ve ne prendete la responsabilità”.
Tu
denunci gli effetti devastanti che rischia di produrre il mix tra riforma del
lavoro e riforma previdenziale.
Tutta
questa vicenda della riforma del mercato del lavoro si aggancia ai non risolti
problemi di riforma previdenziale, perché la riforma è stata fatta col machete
e ha lasciato sul campo morti e feriti. Ora, se intervieni col machete, poi non
puoi lamentarti se gli schizzi di sangue rovinano le pareti della “bella
politica”. Ora, a parte il paragone truce, le cose fatte sulle pensioni sono
complicate: io non ho nessun problema sul contributivo pro-rata, e neanche
sull’unificazione degli istituti previdenziali, però, invece di introdurre la
flessibilità in uscita (incentivando la permanenza e disincentivando l’uscita
anticipata), si sono tolte di mezzo le pensioni di anzianità dalla sera alla
mattina col risultato che qualcuno che aveva la quota per uscire s’è trovato a
dover aspettare quattro-cinque anni in più. Questa è una cosa inaudita che ha
creato delle situazioni disperate.
Adesso
ci sono gli “esodati”, ai quali era stato assicurato un collegamento con la
pensione, che si trovano invece a non avere né la pensione né il lavoro. Poi ci
sono i precoci. Ma sappiamo di cosa parliamo? Io vengo fermato per la strada da
persone che mi dicono: “Roberto, ho 56 anni, ho cominciato a lavorare dopo le
medie, ho sempre lavorato, ho 39 anni di contributi e adesso mi hanno
licenziato, cosa faccio?”. Le stesse imprese che tuonano a favore dei diritti
dei lavoratori giovani e si lamentano che si abbandona il lavoro da “troppo
giovani”, a questi lavoratori spiegano che sono troppo vecchi per essere
assunti.
C’è
il problema delle partite Iva, quelli che hanno la gestione separata. Questi
pagano una “paccata” di contributi, dopodiché si dice loro: “Fatevi la pensione
integrativa”. Ma con quali soldi dopo che hanno dato circa il 27% all’Inps e
hanno pagato il commercialista? Abbiamo infine tutta la partita di quelli che
non raggiungono il minimo. Ma, scusa, se la pensione è contributiva e io ho
pagato per cinque anni, mi darai l’assegno corrispondente senza che io debba
aspettare di arrivare a 70 anni per veder riconosciuto il mio diritto. E questi
sono solo alcuni esempi.
A
tutte queste cose un governo degno di questo nome deve dare una risposta.
Nessuno vuol tornare alle pensioni baby, però, ad esempio, perché non si è
chiesto un contributo di solidarietà ai cinquecentomila pensionati baby? So che
molti assegni sono bassi, però anche un piccolo contributo sarebbe stato
importante, proprio per dare il segno. Noi siamo passati da un eccesso
all’altro.
Stiamo
costruendo una generazione di poveri. In questo senso i temi del lavoro e della
pensione non possono essere disgiunti. In un momento di crisi, con tassi di
disoccupazione inediti, il combinato disposto è un disastro in termini di
coesione sociale.
Si
dice: avremmo potuto finire come la Grecia, che è diventata il babau. Ho
capito; era un problema reale, però se vuoi essere serio dovevi intervenire
anche sulle grandi ricchezze. Non puoi avere un occhio di riguardo per quelli
che s’incazzano, come è avvenuto per le
liberalizzazioni, ed avere la mano pesante su quelli che hanno accettato la
riforma delle pensioni con tre ore di sciopero, pur avendo molto da ridire. In
questo paese sembra che alcuni abbiano il diritto di protestare e di ottenere e
altri debbano solo subire.
Qualcuno
denuncia che si vogliono scaricare sul lavoro anche quelli che forse sono più
propriamente oneri sociali.
Io
penso che l’impresa non possa diventare assistente sociale; l’impresa deve per
definizione produrre profitto, ma ha anche una responsabilità sociale. Non
posso licenziare uno solo perché è vecchio e mi costa di più e sostituirlo con
un ragazzo all’insegna del modello americano “hire and fire”.
Se
la riforma fosse rimasta quella della prima proposta del governo, pagando
un’indennità, l’imprenditore poteva liberarsi di un lavoratore di 56 anni che
magari, avendo iniziato a lavorare dopo le scuole media, aveva 40 anni di
contributi, per cui gliene mancavano oltre 2 per arrivare a quei 42 e rotti
necessari per andare in pensione anticipata e una decina per andare in pensione
di vecchiaia.
Bene,
questo Stato mi deve dire come lo accompagno alla pensione o come l’impiego,
perché altrimenti questa è la strada verso la disperazione.
Allora,
se vogliamo parlare di cose serie, a me sembra siano questi i problemi.
Io
voglio sapere cosa facciamo di questa gente che, tra l’altro, non essendo molto
scolarizzata, fa fatica anche a riconvertirsi. Anche certe stupidaggini sulla
formazione sono vergognose. Non puoi riproporre a un lavoratore che ha fatto le
medie quarant’anni fa, la formazione col modello frontale dell’aula. Bisogna
essere seri: forse in qualche caso bisogna evitare la formazione e offrire
invece sistemi di accompagnamento alla pensione. Non voglio essere frainteso:
io sono favorevolissimo alla formazione, purché si inserisca in un percorso
congruo. Io ho visto lavoratori piangere per compilare le caselline della domanda
di mobilità perché erano anni che non scrivevano più.
Allora,
per concludere, nella mia visione della politica, queste persone non possono
essere abbandonate a se stesse. Se invece si pensa che siano dei pesi che
possono essere tranquillamente eliminati, e che questo è un incidente di
percorso del mercato che si autoregola... beh, non commento.
Dopodiché
il problema esiste; solo un cretino può negare il fatto che mentre prima la
pensione veniva goduta mediamente per circa dieci-quindici anni, adesso viene
goduta per circa venti-trenta; nessuno può negare che la demografia ci impone
certe modifiche, ma da questo a farne derivare soluzioni automatiche, beh c’è
di mezzo appunto la politica.
Tu
eri favorevole a una soglia d’uscita mobile...
Ai
tempi della riforma Dini si era parlato di una soglia 57-62 anni: se andavi via
prima venivi penalizzato, se aspettavi eri incentivato.
Se
io a sessant’anni voglio andare in pensione perché ho un genitore ammalato e
sono disposto a rimetterci una percentuale perché una badante mi costa mille
euro al mese più i contributi o perché preferisco assisterlo personalmente
oppure semplicemente perché mi sono rotto di lavorare; oppure faccio un lavoro
che mi gratifica, sto bene, e voglio lavorare fino a 67 anni aumentando così la
mia contribuzione, perché non posso farlo? Uno mi deve spiegare perché non si
può fare. Contro la soglia rigida hanno tuonato tutti quando la propose Maroni
e adesso stanno tutti zitti.
Bisognerebbe
consentire ai lavoratori e alle lavoratrici di poter fare anche una
valutazione soggettiva. Non c’è niente
di sbagliato nell’accettare un’autoriduzione della pensione a fronte del fatto
che io posso per esempio assistere una persona o semplicemente farmi i fatti
miei.
Ma
nello spostamento in avanti c’è un altro problema, che non riguarda solo gli
edili o i minatori. Chiedo: a 65 anni chi è che corre dietro a trenta bambini
in una scuola dell’infanzia, chi alza dal letto un infermo in traumatologia?
Che
poi capisci cosa vuol dire per un bambino di tre anni avere un insegnante di
scuola del’infanzia che ne ha 65? Quando io andavo a scuola, i miei insegnanti
erano poco più vecchi di me. Quando insegnavo nel biennio delle scuole
superiori, fino al 2010, potevo quasi essere il nonno di quei ragazzi. C’è
anche un problema di immaginario relazionale. Perché non parliamo di queste
cose?
Torniamo
alla riforma sul lavoro. Il “Wall Street Journal” tempo fa ha scritto che in
Italia un imprenditore non può licenziare un incompetente. Questo è un
problema?
Premesso
che il datore di lavoro ha tanti modi per tenere sotto osservazione una persona
(periodo di prova, apprendistato, tempo determinato, ecc.), tieni conto che se
un dipendente si rivela inadatto o non rispetta le normative, ci sono tutte le
sanzioni previste dai contratti e dopo un tot di sanzioni il licenziamento in
genere non viene osteggiato dal giudice.
Alcuni
lamentano che il tribunale del lavoro tende a dare sempre ragione al
lavoratore. Ora, i giudici come tutti gli arbitri possono anche sbagliare, però
vorrei precisare una questione su cui non siamo mai stati sufficientemente
chiari. Il diritto del lavoro è un diritto disuguale, non è il diritto privato
dove i due contraenti sono pari nel giudizio. Il diritto del lavoro è una parte
del diritto nella quale si pensa che esista una parte più debole dell’altra.
Può piacere o meno ma è così. Questo non significa che ogni lavoratore sia
innocente e che il datore di lavoro non possa avere buonissime ragioni per
liberarsi di lui. Ma quanti sono questi casi?
Non
dimentichiamo che il lavoratore può essere lasciato a casa con provvedimenti di
licenziamento collettivo. Chiaro che se parliamo di una piccola ditta dove ci
sono due dipendenti e uno non fa palesemente nulla, questa diventa una ragione
seria, ma in questo caso il licenziamento è possibile e la legge non prevede
alcun reintegro. Non c’è illogicità nella soglia dei 15 dipendenti.
Ma
soprattutto, se chiediamo all’imprenditore di mettere in fila le ragioni della
competitività, questa c’è, ma è una delle ultime.
Sul
tema dell’estensione degli ammortizzatori sociali e della cosiddetta
“flexysecurity”, quali sono le difficoltà?
Quando
si parla del modello danese bisogna tener conto intanto che la popolazione
danese è l’equivalente di una regione
come il Veneto, e poi che lavorano tutti.
Qui
mancano, a mio avviso, due elementi fondamentali: i soldi per pagare gli
ammortizzatori sociali e i servizi di politica attiva per il lavoro. I vecchi
uffici del lavoro -quando va bene- sono diventati delle forme di registrazione
statistica dei movimenti sul mercato del lavoro. Parlare di servizi per il
lavoro efficienti significa mettere assieme pubblico e privato -con una regia
pubblica- allestendo un sistema in grado di accompagnare la persona ad un altro
lavoro. Ichino nel suo ultimo libro si
immagina che il datore di lavoro si accolli una tassa per accompagnare il
lavoratore. Vorrei conoscerli questi imprenditori. Purtroppo siamo lontani
dall’idea di guidare insieme la ricollocazione. Quando mi è capitato di fare
gli accordi per introdurre la responsabilità sulla mobilità del lavoratore, le
poche volte che si è riusciti, c’era da morire perché l’imprenditore si voleva
solo liberare del problema.
La
ricollocazione del lavoratore attraverso le politiche attive del lavoro è una
delle cose più difficili nel nostro paese. Io sono entrato in alcuni servizi
per l’impiego all’estero e sono rimasto esterrefatto. Intanto erano locali
belli e accoglienti, forniti di computer, dove potevi sederti a chiacchierare,
ma soprattutto avevi la sensazione di essere una persona in momentanea
difficoltà in un luogo in cui qualcuno ti dava ascolto, consigli e
suggerimenti. Qui ci sono sempre i corridoi della vecchia pubblica
amministrazione con gli uffici in cui ti aggiri sentendoti un rompiballe.
E
poi c’è appunto il problema dei soldi. Già ora il tema degli ammortizzatori s’è
dilatato nel tempo e non è chiaro se le risorse a disposizione basteranno per
estenderlo veramente a tutte le tipologie. D’altra parte anche sulle politiche
attive per l’impiego io non so per esempio le regioni dove troveranno i soldi.
Faccio osservare che in due anni il Veneto ha perso un miliardo di euro di
trasferimenti. Allora, bisogna mantenere la sanità, i trasporti, il sociale,
c’è il patto di stabilità che t’impedisce di spendere i soldi anche dove li
hai... Insomma fare politiche attive per l’impiego senza soldi è difficile!
Dicevi
che la politica dovrebbe accompagnare una riflessione sindacale che sia
all’altezza dei tempi, non enfatizzarne i limiti.
Essendo
uno che conosce e ha a cuore la storia del sindacato, non mi sfuggono le
difficoltà che trova nel mercato del lavoro attivo e in particolare nella
manifattura che è letteralmente crollata come percentuale di occupati e di
conseguenza di organizzati.
So
che questo è il problema. Ma chiedo: data la situazione, devo puntare ad
allargare la capacità di sentirsi parte di un soggetto collettivo anche a quei
lavoratori che fanno lavori precari, saltuari, che restano ai margini o devo
ambire a distruggere quest’organizzazione e puntare solo sulla trattativa individuale? Se
vogliamo che i lavoratori tornino a essere singoli negoziatori dei loro destini
senza alcuna rete di collegamento, bene, questa è la strada.
Oggi
il sindacato è in grave difficoltà e un soggetto in queste condizioni cerca in
primo luogo di sopravvivere, non è che ha il tempo e il modo di pensare a cosa
potrebbe fare nella vita. Io però penso che sia compito della politica
accompagnarlo in questo difficile passaggio. Anche perché lo stesso problema ce
l’hanno le imprese. Non è che la rappresentatività dell’impresa sia maggiore di
quella del sindacato o la loro frammentazione sia minore o meno preoccupante. È
compito della politica dare voce ai corpi intermedi perché significa assegnare
ai lavoratori l’idea di essere soggetti che hanno, oltre che un destino
individuale, anche una storia collettiva.
Sembra
che tu veda un rischio molto serio, quasi mortale, per il sindacato.
Assolutamente
sì. Il fatto che il sindacato non sia stato coinvolto da Tangentopoli o dalla
crisi della politica non l’ha messo al riparo. In fondo il sindacato, con
alcune modernizzazioni minime, è quello del secolo scorso. Ha le categorie, la
confederazione, le strutture territoriali, ha un’organizzazione e un modello
che è legato a quel tipo di produzione.
Qui
si riaprirebbe una discussione enorme, ma è chiaro che il sindacato oggi deve
spostare il terreno di iniziativa dalla contrattazione nazionale -che deve
rimanere- alla contrattazione locale, territoriale; affiancare ai sistemi di tutela
contrattuale (i contratti) i sistemi di tutela individuale (i servizi). È in
corso un cambiamento epocale segnato dalla polverizzazione dei rapporti di
lavoro, dall’esternalizzazione. Non siamo più nell’epoca della
sindacalizzazione della grande fabbrica e la sindacalizzazione dell’azienda
medio-piccola, dove il lavoratore dipendente è simbiotico con il datore di
lavoro, è una missione quasi impossibile.
Il
tipo di protezione sociale deve dunque cambiare. Il rapporto con il datore di
lavoro, da esclusivamente conflittuale, deve diventare anche collaborativo. Qui
si apre tutto il terreno dei cosiddetti enti bilaterali e quant’altro.
Questo
è un problema che riguarda anche la politica oppure no? In fondo oggi cosa
dovrebbe fare uno del sindacato se non proteggere i suoi iscritti? Se tu fossi
socia del circolo del tennis e arrivasse uno che sfascia le racchette, beh, la
prima cosa che faresti è di metterle nell’armadietto! O no?
Le
associazioni sono il sale di una democrazia, che non può vivere solo dei partiti
o della rappresentanza parlamentare. Deve vivere anche di corpi intermedi. Se i
corpi intermedi non esistono, se i partiti spariscono avremo un sistema di
carattere plebiscitario.
Anche
il Pd è in un momento di difficoltà...
Il
Pd non è nato per collaborare a questo tipo di disegno, è nato come un partito
che intendeva dare una lettura diversa -di cui c’è improcrastinabile necessità-
della situazione italiana. Dall’assassinio di Moro in avanti non c’è più stata
una lettura di sintesi della storia del paese. E non è sicuramente il governo
tecnico che può supplire la mancata lettura politica dei processi. Bisogna
ripartire da lì. Il Partito democratico è nato con un grande progetto. Se il
problema era salvare i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita a me non
interessa. La speranza che aveva acceso soprattutto con Prodi... Capisci il
paradosso? I politici hanno “ammazzato” Prodi perché non era organico al
sistema dei partiti, per trovarsi Passera, Fornero e Monti a fare il lavoro che
doveva essere fatto da un personaggio che abbiamo espunto dalla politica perché
non era espressione dei partiti. Bel risultato!
Quella
di Prodi, per me, rimane l’intuizione geniale: il Partito democratico come
luogo, non della saldatura dell’esistente, ma dell’incrocio, della
contaminazione di culture che comunque hanno fatto la storia di questo paese.
Il
pensiero socialista, con tutte le contraddizioni, è qualcosa di molto più
significativo della degenerazione a cui è arrivato negli anni peggiori, ha una
storia centenaria che è finita in tragedia. Il problema del socialismo italiano
non può essere ridotto a una vicenda giudiziaria, penale. Mi spiego? Ecco, il
Partito democratico era nato per questo. Non a caso s’erano avvicinati milioni
di persone. Se torna ad essere un partito come gli altri, legato a gruppi di
potere, non interessa a nessuno.
Se
il Partito democratico vuole avere un futuro, deve battere un colpo su questi
temi, che non sono solo la difesa del lavoro o la protezione della Cgil (come
qualcuno volgarmente dice), ma sono il tentativo di dare una lettura diversa,
alternativa, alla vicenda italiana e alla vicenda occidentale, e di ridare
forza a una democrazia che è entrata letteralmente in crisi.
Ma,
attenzione, la soluzione non può essere quella di ripristinare lo status quo
ante.
Una
delle ragioni per cui abbiamo perso nel passato è che dentro questa alleanza
c’era un pezzo di sinistra che non ha mai voluto fare i conti con questi
cambiamenti. La politica non deve limitarsi a fare da eco, a enfatizzare il malcontento,
deve trovare soluzioni.
Se
oggi critico il mio partito è perché lo vedo insufficientemente speso sull’idea
di ricercare questa alternativa. Comunque l’esercizio di rilettura, se vale per
il Pd, vale per tutti. Non c’è nessuno che sia esentato.
Purtroppo
i partiti hanno smesso di essere -citazione gramsciana- quell’intellettuale
collettivo capace di dialogare con gli specialisti e di trasferire le loro
analisi in azione politica. Questo non c’è più. Io non so dove si discuta oggi
con libertà, apertura mentale, volontà vera di confronto.
Analogo
discorso vale per il sindacato: i Bruno Trentin non ci sono più. Un tempo
andavi alle riunioni e, anche se non eri d’accordo, ti venivano aperti degli
orizzonti, offerte delle sollecitazioni, provocate delle domande. Oggi nei
luoghi della politica si ripetono le notizie dei giornali.
Purtroppo
la strada è in salita, impervia e non ci sono sponde. Ma se quella è la strada,
quella bisogna percorrere. Se vogliamo bene alle persone più giovani, bisogna
tornare dove abbiamo perso il filo di questa storia. Non ci sono scorciatoie
alla politica, non ci sono tecnici che risolvano problemi politici. Tornando
alla metafora: bisogna tornare a cercare la chiave dove l’abbiamo persa.
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