Intervista a Pietro Ichino a cura di Antonino Leone pubblicata
su Sistemi e Impresa n. 4, aprile 2012
È stata una
buona idea questa di passare dalla sperimentazione alla riforma generalizzata,
applicabile subito a tutti?
Avrei preferito la sperimentazione, su base
inizialmente limitata, di un progetto qualitativamente più ambizioso di riforma
organica sia della materia dei licenziamenti, sia di quella degli
ammortizzatori sociali, sia di quella del contrasto al precariato: questo
avrebbe consentito di disegnare una riforma più semplice e incisiva nel suo
impianto legislativo, assistita da uno stanziamento di risorse finanziarie e
amministrative in proporzione molto maggiore. Se la sperimentazione avesse
funzionato bene, poi, essa si sarebbe espansa a macchia d’olio, con il
proliferare delle opzioni delle imprese per il nuovo regime.
Forse questo
è proprio ciò che ha preoccupato i sindacati: hanno temuto che la cosa
sfuggisse al loro controllo.
Questa può essere una spiegazione della proposta di
Bonanni, presentata già nelle fasi iniziali del negoziato e subito fatta
propria dal Governo. Certo è che sulla disciplina dei licenziamenti si è
preferito un progetto più ambizioso quantitativamente, ma meno incisivo e
organico sul piano qualitativo. Questo, tra l’altro, ha determinato una
alterazione dell’equilibrio iniziale tra riforma della disciplina dei
licenziamenti e norme di contrasto alla precarietà del lavoro.
Che cosa
vuol dire?
Voglio dire che l’idea di una forte restrizione
della possibilità di ingaggio dei lavoratori sostanzialmente dipendenti in
forme contrattuali flessibili, quali la collaborazione autonoma e
l’associazione in partecipazione, era inizialmente coniugata con quella di una
forte flessibilizzazione del contratto regolare a tempo indeterminato, almeno
nel suo primo triennio. Questo avrebbe reso molto più accettabile per le
imprese l’assorbimento nell’area di applicazione della legislazione protettiva
delle attuali collaborazioni autonome che mascherano situazioni di sostanziale
dipendenza. Poi, sotto la pressione della sinistra politica e sindacale, la
portata della riforma dei licenziamenti è stata progressivamente
ridimensionata; era facile dunque attendersi che gli imprenditori avrebbero
chiesto un simmetrico ridimensionamento delle norme di contrasto alle forme di
lavoro precario. Ed è proprio quello che sta avvenendo. Inoltre, un sostegno
più robusto ai lavoratori disoccupati, per quel che riguarda non solo il
sostegno del reddito ma anche i servizi di assistenza intensiva nella ricerca
della nuova occupazione, avrebbe reso più accettabile a sinistra una riforma
della disciplina dei licenziamenti anche più incisiva di questa.
Dunque, un
giudizio negativo sul disegno di legge sul quale il Senato sta lavorando?
No. Nonostante questa “riduzione bilanciata” di
incisività della riforma sui due versanti – quello della disciplina dei
licenziamenti e quello del contrasto al precariato – e il suo contenuto
insufficiente per quel che riguarda il sostegno ai disoccupati e i servizi nel
mercato, il disegno di legge a cui stiamo lavorando in Senato segna una tappa molto
importante e positiva nell’evoluzione del nostro diritto del lavoro.
Innanzitutto perché esso affronta concretamente, per la prima volta nel
sessantennio repubblicano, la questione del dualismo del nostro tessuto
produttivo, cioè dell’apartheid fra
protetti e non protetti, secondo quanto siamo stati sollecitati a fare in modo
particolarmente pressante dalla Commissione Europea negli ultimi tempi. Poi
perché con questa riforma si supera una anomalia molto rilevante della nostra
disciplina dei licenziamenti rispetto al resto degli ordinamenti europei; e noi
abbiamo una necessità urgente di armonizzare la nostra legislazione del lavoro,
soprattutto per questo aspetto, agli standard dei Paesi più avanzati, anche in
funzione dell’apertura del nostro sistema agli investimenti esteri. Infine
perché finalmente si compie un primo passo importantissimo sulla via della
riforma e universalizzazione degli ammortizzatori sociali, dopo quindici anni
nei quali se ne è parlato molto senza combinare nulla.
Le novità in
materia di ammortizzatori sociali, però, non sono state molto apprezzate, né
dai sindacati né dagli imprenditori.
Per la prima volta abbiamo un’unica assicurazione
contro la disoccupazione, l’ASPI, uguale per tutti i lavoratori dipendenti. E
per la prima volta la Cassa integrazione guadagni viene ricondotta in modo
molto netto e incisivo alla sua funzione originaria: quella di tenere i
lavoratori legati all’impresa nelle situazioni di difficoltà temporanea, per
evitare la dispersione di professionalità quando vi è la ragionevole
prospettiva della ripresa del lavoro nella stessa impresa.
C’è chi dice
che la riforma dell’articolo 18 è stata sostanzialmente svuotata, che i giudici
del lavoro potranno andare avanti a reintegrare i lavoratori come e quando
vorranno.
Non è così. La nuova norma contiene numerose novità
molto importanti, che determineranno fin da subito un cambiamento sensibile,
eliminando molti paradossi e assurdità generate dalla vecchia formulazione
dell’articolo 18. Innanzitutto, vengono stabiliti dei limiti precisi e ben
graduati dell’indennizzo, sia nel caso in cui esso si accompagna alla
reintegrazione sia nel caso in cui esso costituisce la sola sanzione per il
difetto di giustificazione del licenziamento: non potrà più accadere che una
sentenza pronunciata molti anni dopo il licenziamento produca risarcimenti
milionari. Poi si stabilisce la regola per cui la reintegrazione costituisce la
sanzione tendenzialmente riservata al caso del licenziamento dettato da un
motivo illecito: essa deve dunque scattare quando la discriminazione o rappresaglia
viene accertata dal giudice, oppure nei casi di radicale insussistenza del
motivo addotto dal datore di lavoro, che consente di presumere un motivo
illecito o comunque del tutto arbitrario. In tutti gli altri casi il giudice
sarà tenuto a disporre il solo indennizzo, tra il minimo delle 12 e il massimo
delle 24 mensilità: un massimo che supera di un terzo quello tedesco, ovvero il
più alto d’Europa dopo il nostro, ma che è pur sempre un limite massimo, in una
materia finora caratterizzata dall’assenza di qualsiasi limite.
Ma i critici
della riforma dicono che i giudici del lavoro italiani andranno avanti come
hanno sempre fatto a condannare le imprese alla reintegrazione, vedendo
discriminazioni e rappresaglie dappertutto.
Non andrà così. Oggi nella grande maggioranza dei
casi di annullamento di licenziamento disciplinare, il giudice accerta che la
mancanza imputata al lavoratore è stata commessa, ma ritiene che essa non sia
di entità tale da giustificare il recesso del datore; in questi casi d’ora in poi
dovrà essere disposto il solo indennizzo, che costituisce la sanzione più
equilibrata se si considera che il lavoratore ha concorso con una propria colpa
a determinare lo scioglimento del rapporto. Quanto ai licenziamenti per motivo
economico od organizzativo, nella grande maggioranza dei casi di annullamento
il giudice non accerta l’insussistenza totale del motivo addotto
dall’imprenditore, ma si limita a ritenerlo insufficiente per determinare il
recesso; anche in tutti questi casi non potrà essere disposta la
reintegrazione, perché la nuova norma la escluderà in modo molto esplicito.
L’esperienza pratica, poi, insegna che se l’esito più probabile del giudizio
consiste nell’indennizzo, le parti si accordano su di esso già in sede di
conciliazione, o nel corso della prima udienza. E sarà proprio questo a segnare
il passaggio da un regime di job property
a un regime di liability dell’impresa nei confronti
del proprio dipendente.
Che cosa
vuol dire?
Oggi, dove si applica l’articolo 18, di fatto il
licenziamento individuale è possibile soltanto in presenza di una mancanza
gravissima del lavoratore. Questo determina una situazione nella quale
quest’ultimo può sentirsi come titolare di un diritto di proprietà sul proprio
posto di lavoro: anche in presenza di una perdita rilevante attesa
dall’imprenditore per effetto della prosecuzione del rapporto, se l’impresa non
è già in stato fallimentare e non ci sono neppure gli estremi per un
licenziamento collettivo il lavoratore sa di non poter perdere il posto. Nel nuovo
sistema, invece, la netta prevalenza della sanzione economica farà sì che
diventi proprio questa, il cosiddetto severance cost, il vero filtro delle scelte imprenditoriali. In altre
parole, è come se il legislatore fissasse una soglia oltre la quale la perdita
attesa dalla prosecuzione del rapporto di fatto giustifica il licenziamento: se
la perdita attesa, attualizzata a oggi, supera le 24 mensilità di retribuzione,
oppure un limite inferiore nei casi di bassa anzianità di servizio del
lavoratore, il licenziamento è di fatto possibile. Ed è giusto e opportuno che
sia così. Anche per gli stessi lavoratori. Fermo restando ovviamente il
controllo giudiziale rigoroso contro discriminazioni e rappresaglie illecite.
Perché i
lavoratori dovrebbero guadagnarci?
Perché una protezione della stabilità dei posti di
lavoro troppo rigida genera una cattiva allocazione delle risorse umane, quindi
anche una minore produttività del lavoro, con conseguenti livelli più bassi di
trattamento.
I fautori
della vecchia formulazione dell’articolo 18 obiettano che, se il licenziamento
è illegittimo, la sanzione della reintegrazione è quella che corrisponde meglio
al concetto di giustizia.
Invece è proprio la vecchia formulazione
dell’articolo 18 che ha prodotto risultati paradossali, soprattutto sotto il
profilo dell’equità. Si pensi ai casi molto frequenti in cui una mancanza è
stata commessa dal lavoratore, e anche di una certa gravità, ma il giudice la
ritiene insufficiente a giustificare il licenziamento: per esempio assenza ingiustificata,
danno prodotto per negligenza, piccolo furto; il fatto che il lavoratore torni
trionfante nel suo posto di lavoro, ricevendo per di più un indennizzo da
vincita al Totocalcio, non può essere considerato equo né nei confronti
dell’imprenditore, né nei confronti degli altri dipendenti, che infatti sono
sovente offesi da questo esito. Quanto al licenziamento per motivo economico od
organizzativo ritenuto insufficiente dal giudice, la vecchia disciplina ci ha
abituato a parlarne in termini di “licenziamento illegittimo”; ma a ben vedere
qui il confine tra motivo giustificato e motivo insufficiente è talmente
labile, e dunque l’esito del giudizio talmente aleatorio, che il filtro del severance cost è
molto più equo, oltre che più efficiente, rispetto all’attuale regime di
“lotteria” della reintegrazione.
Un’incertezza
circa la decisione del giudice ci sarà comunque, anche se sarà molto più
probabile la decisione nel senso dell’indennizzo rispetto a quella di
reintegrazione.
Sì, ma come dicevo prima proprio il fatto che
l’esito più probabile sia l’indennizzo farà sì che – dove non ci sia alcuna
possibilità di ipotizzare la discriminazione o la rappresaglia – una porzione
molto più ampia di controversie si risolverà in sede conciliativa con il
pagamento di un indennizzo parametrato sui limiti minimo e massimo stabiliti
dalla legge. Come accade in tutti gli altri Paesi d’Europa. E questo sarà
meglio sia per i lavoratori sia per gli imprenditori. E anche per
l’amministrazione della giustizia, che ne sarà decongestionata.
Fin qui
abbiamo visto quelli che lei indica come meriti di questa riforma. Quali sono,
invece, a suo modo di vedere, i difetti più gravi?
Vedo in primo luogo un difetto nella forma
giuridica. Questo disegno di legge è ancora un testo scritto alla vecchia
maniera: ipertrofico, complicatissimo, non leggibile se non dagli addetti ai
lavori. Settantadue articoli: più di quelli dell’intero codice del lavoro
semplificato proposto con il mio disegno di legge n. 1873, che contiene tutta
intera la disciplina dei rapporti di lavoro e dei rapporti sindacali. Anche nel
contenuto di alcune norme vedo una vecchia cultura giuslavoristica, tendente
alla iperlegificazione del rapporto: si pretende di regolare tutto, fin nei
minimi dettagli, finendo coll’aumentare i costi di transazione, la sabbia
nell’ingranaggio. Per esempio: la pratica odiosa del far firmare al o alla
dipendente le dimissioni in bianco all’atto dell’assunzione potrebbe essere
sradicata con una norma semplicissima che attribuisca in tutti i casi alla
persona che si dimette la possibilità di revocare l’atto entro due o tre
giorni; si è preferito invece tornare a una disposizione che presenta troppe
analogie, per aumento del peso burocratico, rispetto a quella che produsse una
sorta di rigetto da parte del tessuto produttivo quattro anni or sono. Ma la
mia preoccupazione maggiore, riguardo a questo disegno di legge, è un’altra.
Quale?
Questa riforma in partenza recepiva sostanzialmente
la struttura portante del mio progetto: rendere molto più flessibile e
appetibile per le imprese il rapporto di lavoro subordinato regolare a tempo
indeterminato, in modo da poter far confluire in questo tipo contrattuale gran
parte dei rapporti oggi sparsi nei vari tipi di lavoro precario o non protetto
senza determinare perdite di occupazione. Ma nel mio progetto si prevede
l’unificazione della contribuzione pensionistica al 29 o 30 per cento della
retribuzione lorda, cioè in un punto intermedio fra l’attuale 27,8 dei
collaboratori autonomi e l’attuale 32 o 33 per cento dei subordinati regolari;
inoltre si prevede una fase iniziale del rapporto a tempo indeterminato – il
primo triennio – nella quale il costo del licenziamento è davvero molto basso:
una mensilità per anno di anzianità di servizio comprensiva dell’indennità di
preavviso, con esenzione dal controllo giudiziale sul motivo
economico-organizzativo. In questo modo sì che si può chiedere alle imprese di
rinunciare dall’oggi al domani ai rapporti di lavoro precari, senza il timore
di perdite di occupazione. Nel disegno di legge del Governo, invece, la
progressiva parificazione della contribuzione previdenziale avviene al rialzo,
sull’aliquota del 33 per cento; e il costo del licenziamento è correlato in
misura molto minore all’anzianità di servizio: superato il periodo di prova,
l’indennizzo per il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato viene
subito determinato con un minimo di 12 mensilità.
Dunque lei
vede il rischio che in questo modo si perdano per strada dei posti di lavoro?
Mi sembra difficile escludere questo rischio.
Perché non lo si corresse, occorrerebbe che la domanda di lavoro fosse
rigidissima, quindi insensibile all’aumento dei costi; ma la domanda di lavoro
non lo è affatto in generale, ed è invece particolarmente elastica nella fascia
professionale più bassa, dove è più diffuso il fenomeno dei rapporti di lavoro
precari. Sta di fatto, comunque, che l’applicazione delle disposizioni volte a
contrastare l’abuso delle collaborazioni autonome viene rinviata di un anno; e
il rinvio rischia di essere prorogato alle calende greche. Questo allontana il
superamento del regime attuale di apartheid.
Questa
riforma secondo lei può ancora avere un impatto positivo sull’attrattività
dell’Italia per gli investimenti stranieri?
Certo, avrebbe potuto avere un impatto positivo molto maggiore il progetto originario della sperimentazione di un nuovo assetto molto più semplice del rapporto di lavoro, riservata ai nuovi insediamenti e alle nuove assunzioni nelle imprese interessate. Anche questo disegno di legge, poi, pur con tutti i suoi difetti, avrebbe potuto giovare molto di più all’immagine del nostro Paese all’estero se il dibattito tra le parti sociali che ne ha accompagnato la gestazione fosse stato meno nervoso e concitato. Però, come dicevo prima, sono convinto che i pregi di questo disegno di legge nonostante tutto superino largamente i suoi difetti; e – se esso verrà varato con i miglioramenti a cui stiamo lavorando proprio in questi giorni in Senato – non tarderà a produrre un effetto positivo sulla nostra immagine: ne risulterà comunque un ordinamento del lavoro un poco meno caratterizzato dal dualismo fra protetti e non protetti e più allineato al resto d’Europa. In ogni caso, la battaglia per i due grandi obiettivi della semplificazione e della flexsecurity continua.
Vuol dire che si può pensare di arrivare alla Danimarca passando per la Germania?
Non mi sembra affatto un’idea peregrina. Chissà, forse è persino possibile che sia più facile arrivare al modello scandinavo attraverso questa prima tappa meno ambiziosa. Intanto il tabù è stato rotto; e questo conta moltissimo.
Certo, avrebbe potuto avere un impatto positivo molto maggiore il progetto originario della sperimentazione di un nuovo assetto molto più semplice del rapporto di lavoro, riservata ai nuovi insediamenti e alle nuove assunzioni nelle imprese interessate. Anche questo disegno di legge, poi, pur con tutti i suoi difetti, avrebbe potuto giovare molto di più all’immagine del nostro Paese all’estero se il dibattito tra le parti sociali che ne ha accompagnato la gestazione fosse stato meno nervoso e concitato. Però, come dicevo prima, sono convinto che i pregi di questo disegno di legge nonostante tutto superino largamente i suoi difetti; e – se esso verrà varato con i miglioramenti a cui stiamo lavorando proprio in questi giorni in Senato – non tarderà a produrre un effetto positivo sulla nostra immagine: ne risulterà comunque un ordinamento del lavoro un poco meno caratterizzato dal dualismo fra protetti e non protetti e più allineato al resto d’Europa. In ogni caso, la battaglia per i due grandi obiettivi della semplificazione e della flexsecurity continua.
Vuol dire che si può pensare di arrivare alla Danimarca passando per la Germania?
Non mi sembra affatto un’idea peregrina. Chissà, forse è persino possibile che sia più facile arrivare al modello scandinavo attraverso questa prima tappa meno ambiziosa. Intanto il tabù è stato rotto; e questo conta moltissimo.
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